Capitolo 11: I Capelli dorati
Una parola.
Chiara.
Anzi, due parole.
Chiara Sole.
I capelli dorati scombinati e pieni di foglie.
Cicatrici lungo le braccia.
La bocca aperta, con le labbra tremanti.
«Demetra? Sei tu?» ripete Chiara nell'ombra della via.
«La conosci?» bisbiglia Francesco alle mie spalle.
«Chiara?» sussurro immobile.
Non era morta?
I vampiri di Lestat non l'avevano uccisa?
«Stai bene?» domanda lei.
«Ha un aspetto orribile» afferma Francesco.
Chiara si avvicina e, guardandomi negli occhi, poggia le sue mani sulle mie spalle.
«Non ti hanno fatto del male?» ribadisce la ragazza bionda.
«Aspetta un secondo... Demetra...» sussurra Francesco al mio fianco, cercando di attirare la mia attenzione.
«Hmmm... No» rispondo.
«Perché?» si chiede.
«Demetra, allontanati!» mi ordina il bambino fantasma.
«Non lo so» ribatto omettendo che Lestat Defendi, il capo del Clan d'Europa, è innamorato di me. «Perché?» insisto guardando di sfuggita Francesco.
Chiara abbassa lo sguardo e diventa pensierosa. Corruga la fronte e inizia a grattarsi il braccio, come se avesse una reazione allergica.
«Chiara, stai bene? Hai bisogno di aiuto?» chiedo avanzando.
«Demetra, devi allontanarti!» urla Francesco dietro di me.
Chiara si volta, dandomi le spalle, che diventano sempre più curve, e borbotta qualcosa senza senso, continuando a scuotere la testa.
«Demetra. Ascoltami. Demetra!» ripete il bambino fantasma.
«Chiara?» la chiamo.
La sento inspirare ed espirare fragorosamente. Non c'è nemmeno un rumore tipico della città: tutto tace.
«Non è possibile» balbetta Chiara.
«Che cosa non è possibile, Chiara?» sussurro.
Improvvisamente si volta e mi guarda dritto negli occhi. «C'è un vampiro. Uno potente» afferma iniziando a guardarsi intorno con circospezione. «Mi hanno trovata! Dobbiamo andare via.»
Mi afferra il polso e si ferma all'istante. Nell'ombra percepisco i suoi occhi fare avanti e indietro, come se il suo cervello stesse cercando di assimilare un quantitativo di informazioni superiore alla propria capacità.
«Demetra, dobbiamo andare via» ribadisce Francesco con tono severo e spaventato.
«Perché?» sbotto cercando di liberarmi dalla presa di Chiara, che inizia a tossire.
«Perché è lei la bambina che mi ha ucciso» risponde il bambino fantasma.
Raggelata, lo guardo e spalanco la bocca. I miei polmoni smettono di allargarsi e il mio cuore di battere. Penso all'immagine che avevo trovato su Internet e provo a confrontare i tratti della bambina con quelli di Chiara Sole.
Nonostante i colori sfocati delle foto vecchie, i capelli sono gli stessi e i lineamenti sono simili.
Non può essere la stessa persona...
«Non può essere...» mormora Chiara tra un colpo di tosse e l'altro.
«Che cosa, Chiara?» singhiozzo.
La mia compagna di classe alza di scatto la testa e spalanca la bocca: la sua pelle inizia a scivolare via, portando con sé tutto ciò che compone un volto umano, il naso e gli occhi. Non rimane altro che un viso vuoto e una bocca grande e nera.
«Cosa cazzo...?» sbotto riuscendo a liberarmi.
Mi volto e, zoppicando, cerco di scappare.
«Vuole rubarti l'anima» dichiara Francesco lanciandole un cassonetto dell'immondizia.
«Non posso correre» piagnucolo.
Zoppico in direzione del cancello da cui sono uscita, quando inciampo su una lattina caduta dal cassonetto lanciato da Francesco.
«No. No. No» mugolo. «Francesco, fa' qualcosa, per favore.»
Sono terrorizzata. Non voglio diventare uno zombie.
Avverto una mano afferrarmi la caviglia e trascinarmi. È Chiara.
«Lasciami andare!» grido divincolandomi e provocandomi un dolore ancor più acuto al ginocchio.
Mi volto, cercando di vedere Chiara – o quello che ne rimane, visto che si è trasformata in un cazzo di essere senza faccia – e all'improvviso qualcosa o qualcuno la lascia senza testa.
Senza testa, dico. La mano si stacca d'impulso dalla mia caviglia e il corpo di Chiara, senza testa, cade a terra.
Ho la vista annebbiata e il cuore batte così forte che potrebbe uscirmi dal petto e acquisire vita propria.
«Stai bene?» chiede qualcuno.
Alzo la testa e vedo una persona. Un uomo alto, con spalle larghe e braccia muscolose.
Sei vero? O sei un fantasma? O sei un vampiro? O sei un Akira?
Abbasso la testa e lascio uscire tutte le emozioni: il nervoso, l'ansia, la paura si trasformano in lacrime.
«Non piangere, per favore. Demetra...» mormora Francesco accanto a me.
Mi metto le mani sul viso: non voglio che qualcuno mi veda così.
Sento sospirare l'uomo in piedi davanti a me e improvvisamente vengo sollevata in aria. Le sue braccia muscolose sbattono ripetutamente contro la mia schiena e le gambe mi tremano ancora, ma non tolgo le mani da viso.
«Lasciala andare, subito!» grida Francesco, ma senza essere ascoltato.
Ho paura.
«Chi sei?» domando in un bisbiglio.
«Lo sai che è maleducazione parlare con le mani davanti alla bocca» afferma l'uomo.
Le abbasso lentamente e, dopo aver deglutito, chiedo con voce tremante: «Chi sei?»
«Non ti farò del male» mi assicura l'uomo.
«Non ti ho chiesto che hai intenzione di fare con me?, ma chi sei?. Vabbè... dove mi stai portando?»
«In ospedale» risponde.
Non posso controbattere. Non voglio. Ho battuto la testa più di una volta e il ginocchio mi brucia come non mai.
Arriviamo alla fine della via, dove i lampioni funzionano, e raggiungiamo una moto parcheggiata accanto al marciapiede.
«Hey!» urla qualcuno.
«Finalmente è arrivata la cavalleria» afferma Francesco e scompare salutandomi. «Vado ad avvisare gli altri.»
L'uomo si volta continuando a tenermi in braccio e si irrigidisce: ci sono Adriel e Daniel a pochi passi da noi.
«Lasciala andare!» ringhia Adriel.
«Non voglio farle del male» ribatte l'uomo misterioso.
«Dici?» sibila Daniel.
«Sono umano. E voi cosa siete?» domanda l'uomo.
«Sta' zitto e consegnaci Demetra» controbatte Adriel.
«Elia... Sai che lei è nostra amica, non le faremo mai del male...» dice Daniel cercando di fare un passo in avanti.
«Altrimenti il vostro capo vi uccide?» ribatte l'uomo che mi sostiene.
«Non sono affari tuoi!» esclama la mia amica mostrando i canini.
«Adriel!» la ammonisce Daniel. «Dove vuoi portarla?»
«All'ospedale. Ne ha bisogno...» sussurra Elia.
«La portiamo noi.» Adriel si avvicina e mi sottrae alle braccia dell'uomo. «Stai bene?» mi chiede.
Annuisco e guardo la scena. È carica di tensione. L'uomo di nome Elia rimane impassibile di fronte ai ringhi e alle minacce di Daniel, mentre Adriel mi tratta come un cucciolo appena nato.
«I cacciatori non dovrebbero rimanere nell'ombra?» esorta Daniel.
«Non quando voi vampiri non fate il vostro dovere» ribatte Elia.
È un cacciatore?
Dopo qualche scontro e occhiataccia, il cacciatore dice: «Dovreste portarla in ospedale.» Sale sulla moto e si dilegua nel buio della – non più – notte.
Daniel e Adriel si scambiano una serie di sguardi e, dopo aver controllato le mie ferite, decidono di seguire il consiglio di Elia il cacciatore.
«Io vado a fare un giro di ricognizione, tu portala in ospedale» dice Daniel.
Arrivati in ospedale, facciamo un check-in lungo una vita: la signora allo sportello ha sonno e fa tutto in modalità bradipo. Ero in codice verde, come tutte le altre volte in cui sono venuta al pronto soccorso. In Italia, se non hai un osso che esce dal corpo o un organo a pezzi, non sei una priorità per i medici.
Dopo qualche ora di attesa, durante le quali mi addormento un po' di volte sulla sedia a rotelle, arriva il mio turno. Avevano deciso di farmi fare una TAC e delle lastre. Con l'aiuto di un'infermiera entro nello studio del medico e salgo su un lettino duro.
«Allora, chi abbiamo qui?» domanda un medico entrando, senza alzare gli occhi dalla sua cartellina.
Alzo lo sguardo e vedo mio padre, in piedi, con il camice bianco e un cartellina in mano.
«Diversi traumi ed ematomi sul corpo. Ha battuto la testa parecchie volte» risponde l'infermiera.
«Il nome?» esorta il medico.
«Demetra Romano, dottore» lo informa la ragazza.
Lui alza la testa di scatto, rigido, mi guarda e i suoi occhi fanno su e giù più volte, come se mi stesse facendo la radiografia.
«Infermiera, posso fare da solo. Può andare» afferma severamente.
«Certo, dottore» sussurra l'infermiera andando via.
Si allontana e va a chiudere la porta a chiave, poi prende una penna dalla sua tasca e inizia a scrivere qualcosa su un foglio.
Me lo mostra e leggo: Ho percepito dei vampiri... Sei con loro? Non parlare. Annuisci soltanto.
Faccio sì con la testa, senza dire una parola.
Come fa a sapere della presenza di vampiri?
Come li percepisce?
È un cacciatore?
Mio padre ritira il foglio e continua a scrivere: Te l'hanno fatto?
Scuoto la testa e lui espira.
«Allora, Demetra...» mormora ad alta voce. «Vediamo... Cosa abbiamo qui?»
Dopo due ore nello studio, mio padre mi consegna una serie di fogli e i risultati delle lastre. Inaspettatamente, il mio occhio va a finire su quella del collo e noto un puntino bianco all'altezza della prima vertebra.
«Papà... Dottore, mi scusi. Che cos'è questo puntino?» domando mentre lui continua a firmare una serie di fogli. Lui alza lo sguardo e si irrigidisce per qualche secondo.
«È solo un refuso della macchina» mormora senza aggiungere altro.
«Va bene, grazie.»
«Il ginocchio dovrà rimanere a riposo per qualche giorno ed essere sottoposto alla laserterapia» suggerisce il medico con tono freddo.
Prendo i miei esami e apro la borsetta per tirare fuori il cellulare, quando scorgo un biglietto di carta: Elia Meier. Cacciatore.
C'è anche scritto il numero...
«Chiamo l'infermiera, così ti porta via...» dice mio padre a denti stretti.
«Aspetta... Papà...» mormoro e mi acciglio. Mi allungo per cercare di prendere dei post-it dal mobiletto lontano da me, ma non ci riesco. Lui sbuffa e mi porge un foglio e una penna.
Scrivo: Sono stata adottata?
Glielo passo e mio padre rivolge uno sguardo vacuo al foglio. Perse tutte le speranze, abbasso la testa e sospiro.
Il foglio mi ritorna sotto gli occhi e leggo: Sì.
«Vado a chiamare l'infermiera» sospira mio padre.
Perché non me l'hanno mai detto?
L'infermiera arrivò e mi aiutò ad accomodarmi sulla sedia a rotelle. Mi lasciò con Adriel, che mi guardò confusa, e mi sorrise. Vide il foglio che tenevo – ancora – tra le mani e lo lesse. Sospirò dispiaciuta e mi diede un bacio sulla fronte, aggiungendo: «Adesso ti porto a casa.»
Arrivate a casa, aprimmo la porta e vedemmo che l'appartamento era pieno di immondizia: bottiglie di birra vuote, lattine integre, altre schiacciate e tanti, ma tanti fogli sparsi per terra.
Adriel venne davanti a me e mi fece segno di rimanere in silenzio, controllando ogni angolo della casa.
All'improvviso comparve mia madre: era immobile davanti al lavabo della cucina, dandomi le spalle, e non si muoveva di un centimetro.
«Mamma?» sussurrai, ma lei non rispose.
«Mamma, tutto okay?» ripetei arrivando a meno di un metro da lei, zoppicando.
Inaspettatamente si voltò e si avventò su di me, con occhi vuoti. Vuoti come mai li aveva avuti prima.
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