Un battito al secondo
La situazione paradossale non tende a mutare. Paradossale per il semplice fatto che non ci sono sostanziali cambiamenti nella mia vita: invisibile ero prima e invisibile sono ora; solo che adesso è molto più tangibile il mio distacco dal resto del mondo. Continuando a camminare in mezzo a questi corpi sospesi nel tempo, mi sto sempre più addentrando in teorie bislacche.
Se davvero sono morta, forse dovrei andare in un posto che mi si addice. Non riesco a fare deduzioni troppo brillanti, l'istinto mi dice che dovrei provare ad andare in un cimitero, lì magari potrei incontrare qualcuno, spero non troppo in decomposizione, nelle mie stesse circostanze.
Rabbrividisco. Ho sempre viaggiato troppo con la fantasia su situazioni al di fuori di ogni logica, ma questa si sostiene da sola, senza bisogno che io mi impegni.
Opto per andare nei pressi dell'ospedale per via della camera mortuaria che ha annessa, il quale è anche molto più veloce da raggiungere.
Cammino svelta, spinta dalla frenesia di una nuova teoria da comprovare; non che ci tenga molto ad avere la certezza di essere davvero morta, ma almeno potrei sperare di capire cosa fare da quel momento in poi.
Il rumore dei miei passi è in linea con quello delle mie palpitazioni, li sento accelerare mano a mano che la destinazione si avvicina. Taglio per dei vicoli, la mia città ne è piena, risalgo una stradina mai stata asfaltata, arranco nell'ultimo tratto di salita e i grandi edifici che compongono le quattro ali dell'ospedale cittadino mi sono finalmente davanti.
L'obitorio è accessibile da un'entrata sul retro che posso raggiungere tagliando per il parcheggio. Supero un paio di macchine immobili sulla carreggiata, i loro conducenti hanno cristallizzata addosso l'espressione contrariata di chi trova la solita mini-car in un posto che a prima vista sembrava libero.
Pochi metri ancora e sono davanti all'entrata. Ci sono alcune persone di fuori, sospese nell'atto di parlare insieme, ma i loro occhi sono persi su un punto lontano, spingendo la vista altrove, per non dover vedere la realtà vicina.
Il dolore cristallizzato al mio cospetto è atroce, è come toccare con mano qualcosa che hai sempre saputo esistere solo in forma astratta. Come l'Uomo Nero: da bambino ne sei terrorizzato, non lo puoi vedere ma sai che può farti del male, ne hai paura anche se sei al sicuro in camera tua sotto le coperte, perché sei conscio che può raggiungerti comunque, superare il solido muro di casa tua, trovarti e fare di te ciò che vuole. Da piccoli si passano interminabili minuti in preda al terrore più totale, prima di addormentarsi.
Solo da adulti ci si rende conto di quanto fossero infondate e irrazionali quelle paure, almeno fino a che l'Uomo Nero non viene visto con i propri occhi nelle vesti di un terremoto, o di un infarto, o tramite la presa di coscienza che siamo solo inermi esseri umani accomunati da un unico destino.
Ecco. Credo sia questo che intravedo ora negli sguardi di queste persone.
Entro dentro attraversando una porta a vetri spalancata; la camera mortuaria è composta da un lungo corridoio su cui si affacciano sei stanze: tre a destra e tre a sinistra, accessibili da delle comuni porte di legno. A terra, di fianco le entrate, sono disposti mazzi di fiori che fanno intuire quali stanze siano occupate e quali no. Non sento il loro profumo che di solito inebria l'ambiente: deve essere un altro effetto dell'essere morta.
Entro in una stanza e vi trovo alcune persone sedute, immobili, con addosso un'espressione impenetrabile; sul letto, disposta in maniera ordinata, un'anziana signora dalla corporatura minuta, con le mani giunte sopra il petto fra le quali è stato apposto un rosario dal crocefisso ben in vista. I capelli bianchi legati stretti dietro al capo, un abito nero elegante e scarpe nuove probabilmente comprati per quello specifico avvento, incorniciano la sua figura diafana. Non posso fare a meno di domandarmi se anche io verrò conciata così, se verranno comprati abiti inutili e se mi infileranno un rosario fra le mani. Nessuno sa cosa avrei voluto per la mia morte.
In realtà, l'idea di venire chiusa in una cassa di legno a tenuta stagna mi rattrista. La razza umana per millenni non ha fatto altro che estirpare vite e risorse dalla Terra e, giunta al momento di ricambiare, non lo ha mai fatto: gli uomini non si sono mai restituiti alla terra, nemmeno come ultimo insignificante tentativo di ringraziare per tutto quello che hanno estorto; essi preferiscono sigillarsi, mummificarsi o riempire di pietre e mausolei i luoghi dove vengono sepolti, in una mera credenza di venire ricordati per sempre.
Io, invece, vorrei diventare un albero; vorrei poter restituire alla Terra quello che mi ha dato, rimettermi nel circolo dell'evoluzione ed essere in continua metamorfosi. Di sicuro verrei abbattuto o bruciato dall'essere umano successivo, ma sarei comunque cenere o foglie al vento che ricomincerebbero una nuova vita altrove.
Nessuno sa di questo. Non l'ho mai detto per non rischiare di venire inquadrata come una svitata, quindi accetto che si faccia di me quello che la società impone: venire rinchiusa, spezzare il concetto di continuità di cui, teoricamente, siamo a conoscenza da secoli. Come facciano gli esseri umani a essere così bravi nel creare ipocriti paradossi, non l'ho mai capito.
Sposto di nuovo l'attenzione sull'anziana; non so cosa dovrei aspettarmi, magari che si svegli all'improvviso urlando. Spero di no, sono suscettibile a questi colpi di scena.
Forse la sua anima è qua intorno che girovaga come me in cerca di spiegazioni; se la vedessi, magari, sarei in grado di parlarci.
Mi siedo a terra lasciandomi andare a un lungo sospiro di rassegnazione, non c'è niente che possa fare se non aspettare un qualche avvenimento che però non accade.
Riprendo in mano il cellulare e provo a sbloccarlo. Sullo schermo appaiono ancora distorsioni e flash intermittenti, come se fosse fuori fase col tempo. Magari è questo che sta accadendo: sto vivendo uno sfasamento temporale, oppure sono in una dimensione parallela: i pochi film di fantascienza visti non mi hanno dato nozioni sufficienti per capire la situazione e uscirne, purtroppo.
Mi alzo e riprendo a girovagare senza meta, faccio il giro del parcheggio e mi ritrovo all'ingresso principale dell'ospedale dove è presente un cospicuo via-vai di gente. 'Via-vai' per modo di dire, come al solito.
La porta scorrevole a vetri è aperta a causa delle persone che la stanno varcando; trovo uno spiraglio e mi intrufolo dentro.
Non mi ero mai accorta di quanto questo posto fosse immenso quando non è popolato da centinaia di persone: la folla che solitamente lo attraversava lo rendeva molto più soffocante, confusionario, ma ora che cammino fra gente immobile, ora che non sono più una goccia che si mischia a questo fiume, realizzo che la sua ampiezza toglie quasi il fiato.
Vago per le varie corsie e mi intrufolo negli usci lasciati aperti nonostante abbiano apposto sopra il cartello che recita a caratteri cubitali che 'vanno lasciati costantemente chiusi'.
Come la prima volta, anche ora non riesco ad aprire le porte: c'è un qualcosa che le blocca e io non sono in grado di sopraffarlo, quindi mi ritrovo costretta ad andare solo nei posti dove c'è già la strada sgombra.
Mi sembra di essere in un videogioco in cui i percorsi sono prestabiliti, anche se molto meno intrigante.
"Pino!"
Mi arresto, raggelata.
"Eh?"
Sento la mia voce. È la prima volta che parlo da quando il tempo si è fermato.
Mi fa un effetto strano, avevo quasi paura a usarla, come se la fuoruscita di aria dai polmoni significasse perdere una parte della mia anima; ma non era quello il punto: avevo sentito qualcuno parlare, urlare... 'Pino'?
"Pino!"
L'ho sentita di nuovo: una voce lagnosa, quasi disperata, di donna.
"Pino!"
La voce si fa più acuta, tanto da indurmi a muovere dei passi sempre più affrettati verso la sua fonte. Percorro diversi corridoi, per fortuna tutti sgombri, tranne uno, chiuso da una vetrata su cui si stagliava una porta fortunatamente tenuta aperta da un'infermiera che stava passando con un grosso carrello. Mi arrampico goffamente sullo stesso per riuscire a varcare la soglia e finalmente percorrere un ultimo corridoio, dritta alla stanza dove la voce proveniva.
Mi affaccio in preda al fiatone e una buona dose di terrore: l'idea che dall'altra parte avrei trovato qualcuno in grado di muoversi e con cui avrei potuto interagire mi destabilizza, spero solo sappia dire altre parole oltre a 'Pino'.
Alla mia vista si presenta una donna anziana in un camice da notte azzurro chiaro intenta a cercare di uscire da delle lenzuola rigide, immobili alle sue sollecitazioni e che non la smette di urlare quell'unica singola parola.
"Dov'è Pino?" implora appena mi vede.
La situazione potrebbe sembrare comica, se non fosse che lo chiede con una voce talmente spezzata dalla disperazione che non riesco a risponderle. Mi limito ad avvicinarmi cercando di farla uscire dal tunnel rigido di lenzuola; ci vuole un po' per farla strisciare fuori, ma alla fine, su gambe instabili, riesce a muovere dei passi. È traballante, scombussolata e vuole raggiungere a tutti i costi l'uscita della stanza, tanto che mi offro di sostenerla.
C'è qualcosa di strano nelle sue movenze: compie le azioni lentamente ma non la tipica lentezza di una persona anziana; mi sembra quasi di assistere a una moviola, a un moto rallentato rispetto al mio. Cerco di non farci caso mentre tento goffamente di sostenerla, esasperata dal suo impaziente desiderio di arrivare alla meta, inversamente proporzionale alla velocità con cui si muove per raggiungerla.
Per tutto il corridoio non fa altro che urlare quello che intuisco essere il nome di qualcuno; non fa caso alle persone intorno che sono immobili come statue di sale, a lei interessa solo raggiungere Pino.
Finalmente il suo richiamo lamentoso si tramuta in un grido di sollievo. Un uomo anziano, dai baffi grigi e ben curati è intento a premere un bottone di un distributore automatico per prendere dell'acqua. È fermo nel suo moto, così come la bottiglia di plastica da mezzo litro è sospesa in un limbo fra l'erogatore e il cassetto di raccolta.
Piacere di conoscerti, Pino.
La donna si stacca dalla mia presa e si avvicina all'uomo, ignorando il suo totale immobilismo. Comincia a piangere, ad accarezzargli il volto, lo ringrazia molteplici volte, si scusa per essere stata un peso e per non essere stata abbastanza in salute per restare insieme a lui per più tempo.
Mi sento come le persone qui intorno: pietrificata; un elemento che non dovrebbe esserci, eppure è lì ad assistere.
Capisco che questa donna sta salutando per l'ultima volta la persona a cui più tiene; che non vorrebbe fargli trovare l'amara sorpresa di un suo rientro in una stanza dove lei già se n'è andata e, anche se lui non può sentirla, spera in una sorta di legame sottopelle, una vibrazione sottile che gli faccia capire quanto gli sia grata per tutto. È una scena troppo struggente da sembrare vera.
Chissà se questa donna che ho di fronte è stata scelta da Pino per la sua bellezza; non saprei stabilirlo: ora è sfatta, con i capelli in disordine e migliaia di rughe che le hanno cambiato i tratti fisionomici. Magari era una bella donna e quest'uomo le è rimasto accanto anche se il tempo l'ha trasformata; forse il tempo abitua le persone ad accettare e accettarsi così come sono.
Mi sistemo la ciocca di capelli davanti la faccia: non è un discorso che vale per me.
La signora finisce di piagnucolare, è ferma di fronte a Pino con lo sguardo pieno di gratitudine. È serena, lo si vede dal volto: penso sia convinta che lui abbia recepito, anche se non saprei dire da cosa; prende la via per la sua stanza accompagnandosi con la mano sulla parete, muovendosi con quello strano effetto rallentato, senza degnarmi di attenzione.
Vorrei chiederle, avere conferme delle mie teorie, ma non trovo il coraggio. Probabilmente, arrivata nella stanza, si infilerà nel suo tunnel di lenzuola, o si siederà su una sedia e smetterà di muoversi come tutti gli altri.
Barcollo verso l'uscita. Per la prima volta in vita mia non trovo un pensiero su cui imbastire ragionamenti; la mia mente è totalmente svuotata e quelle poche certezze razionali che avevo allestito con maniacale dovizia nel tempo, sembrano non reggere più.
Chi sono io?
È una domanda a cui non ho dato mai particolare peso in quanto non si legava a nessun tipo di aspettativa, di obiettivo.
Mi fermo di fronte un ingresso costituito da una grande vetrata e osservo il mio riflesso sbiadito. C'è qualcosa di strano: non riesco a vedermi bene, a delineare questi contorni che ho sempre disprezzato.
Mi reco verso una delle tante stanze del reparto e infilo la porta di un bagno lasciato aperto e con la luce accesa. Osservo l'immagine che rimanda lo specchio: è sfocata, come se fosse soggetta a un micro-movimento costante che la fa vibrare, mentre tutto quello che è attorno, riflesso nello specchio, è nitido.
Mi copro il volto con le mani, deformandolo, tentando di capire se tutto questo sia reale, poi osservo di nuovo lo specchio: la mia faccia è come cancellata.
Forse mi sto disgregando, forse questa tortura sta giungendo al termine e anche io devo dare un ultimo saluto a qualcuno, ma a chi?
Tutto quello che sono lo devo alla mia famiglia e non nel significato positivo del termine. Negli anni che ho passato con loro ho imparato a osservarne i comportamenti, i dialoghi, le contromosse mirate a ferirsi, all'interno di un rapporto nato per non durare.
È così che sono cresciuta, desiderosa di capire il loro modo di fare per poter agire nell'esatto opposto. In un certo senso sono stati un modello molto utile, anche se inconsapevoli.
La lotta per il possesso era il loro conflitto più ricorrente, i litigi sui soldi erano all'ordine del giorno, il desiderio di affermarsi l'uno sull'altro in base a una scala societaria costruita sull'apparenza, era la loro ossessione e io non ho mai potuto fare a meno di pensare a quanto fosse stupido tutto questo, di odiare quei simboli di identificazione e di appartenenza.
Mia madre era solita comprare soprammobili. Ne acquistava uno ogni volta che si sentiva triste, diceva che questo le tirava su il morale: possedere un oggetto equivaleva ad avere una piccola dose di felicità. Ma adesso, fra le mura che hanno fatto da cornice scrostata alla mia infanzia, non ci sono dei piccoli graziosi oggetti disposti in maniera ordinata su mobili e pareti: c'è un cimitero di croci tutte uguali, un mausoleo della rassegnazione in cui ogni pezzo corrisponde a un momento nella sua vita in cui è stata infelice; e lei li ha esposti uno dietro l'altro, come un carcerato che segna i giorni su un muro, negando l'evidenza, mascherandola da mera consolazione.
Le persone si ingannano.
Il giorno che la mia famiglia è scoppiata ero da poco maggiorenne. È successo un casino immane, risultato di un malcontento che ribolliva sotto la crosta da troppo tempo. Quel giorno ho capito il dolore della perdita, non una perdita materiale, ma una perdita di certezze, di equilibrio, di sostegno, di fiducia, di un padre, di una madre e di una famiglia, per quanto disastrata potesse essere.
A seguire, una valanga di situazioni devastanti date dalla rabbia, dalle gelosie, dalla pretesa di sapere "da che parte stai". Lì è nato il mio distacco, il non "voler essere come loro".
Ed eccomi di nuovo qua a riassumere la mia vita: un magico mix di incertezze, over analisi e rabbia che ha plasmato un essere totalmente anaffettivo, incapace di affezionarsi e che, in sostanza, non ha nessuno a cui dire addio.
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