Seme
A Chiara piacciono le ciliegie.
Quelle mature, quelle bacate, pestate, quelle verdognole. La mamma le ha suggerito di usarle come sostituto dei sassolini che adopera per recitare le sue orazioni quotidiane, piegata sull'inginocchiatoio foderato di raso.
A Chiara piacciono anche i suoi sassolini. Lisci, porosi, bucherellati, dalle forme strambe, appuntiti e levigati. Ciottoli, ghiaia, trucioli di roccia e gesso. Li raccoglie per strada, quando passeggia con la balia e la corazzata di altre bambine. Sua sorella Penenda, le sue cugine Bona e Pacifica. La mamma è pregna di un altro bimbo. Sperano tutti che sia un maschio. Lo zio Monaldo sbraita scongiuri perché non nasca l'ennesima, pulciosa, costosa femmina. Ringhia che la mamma è buona solo a sputare fuori fardelli da quel suo orifizio signorile.
Loro non sono fardelli, sono bambine, ma Annetta, la balia, borbotta sottovoce di non ribattere allo zio permaloso, se non vogliono sentirsi la mandibola volare, le orecchie fischiare e innescare la sua collera. Perché? Lei l'ha saggiata?
Chiara prega anche per la sua anima nera, comunque, in ossequio ai precetti impartiti da Gesù. Amate i vostri nemici e pregate per chi vi perseguita. Le persecuzioni dello zio Monaldo sono più verbali che fisiche e lei e le altre non si devono nascondere nelle catacombe come i primi cristiani, ma Chiara, che ama tanto Gesù, si sforza di compiacerlo e prega perché lo zio rettifichi i suoi modi iracondi.
Nel maniero di Sassorosso, il loro feudo, con il fortilizio in pietra arroccato sul versante opposto del Subasio da cui si ammira il diadema merlato della Rocca Maggiore, baluardo della nobiltà come loro - siete privilegiate, rammenta Annetta con costanza, siete nobili rampolle di un illustre casato, non dimenticatelo - c'è un frutteto zeppo di alberi di ciliegio. In certe giornate assolate si recano in visita, Chiara e Penenda e la mamma e il papà e gli zii e i cugini, e i bambini si divertono a scapicollare sulle colline rosseggianti di papaveri e ridenti di fiori campestri, tarassaco e gladioli e violette e mughetti e le speronelle purpuree.
Si arrampicano sui rami e tirano le pietre sul rigagnolo che zampilla accanto alle casupole costeggianti la strada polverosa, butterata di buche. Suo cugino Rufino si fregia, ruffiano, del titolo di vincitore. I suoi sassi rimbalzano spediti sull'acqua. Quelli di Chiara affondano con un tonfo, schizzano e provocano un'increspatura ad anello che si propaga fino alle rive folte di canneti. Deve avere ingegnato una strategia, suo cugino. Chiara giura che un giorno lo sbaraglierà.
Il lato avventuroso - immancabile un lato avventuroso - risiede nelle ciliegie rubacchiate dagli alberi. Ne fanno una scorpacciata, impiastrandosi la bocca di rosso appiccicoso e zuccherino. Chiara le mastica vorace, conservando poi i noccioli in tasca. Penenda, schizzinosa, le rifiuta.
«Una signorina non si sporca!»
Una signorina non si arrischierebbe nemmeno a salire sulla colombaia, svettante slanciata nel cielo, annessa al fabbricato dalle tegole a coppe. Ma Chiara osa e si inerpica sui pioli infissi lungo la torre tondeggiante, la gonna sollevata, una cacofonia di zoccoli raschianti nella corte e i villici sbriganti le loro faccende. Galline razzolano sulle pietre, ingeriscono vermicelli e beccano briciole e mollica di pane raffermo.
Oggi i contadini mietono e inforcano covoni di grano dorato, rugosi e incartapecoriti, bruciacchiati dall'asprezza della vita all'aria aperta.
E pagano le imposte al feudatario, suo padre.
È il giorno della riscossione.
Il cortile è invaso da muli e carrettate di letame e oche e bestiame e Penenda si tappa il naso, nauseata da quella puzza. I grandi tracannano birra, ingurgitano pietanze e il tesoriere trascrive puntiglioso sul libro mastro cifre e qualità dei prodotti. Se infima, grezza, buona, eccellente. Se frutterà o si risolverà in un cattivo investimento. I grandi sono affaccendati e Chiara ne approfitta per cogliere il frutto proibito.
Sgattaiolare consiste nella sua specialità.
Adora la colombaia, come adora le ciliegie e i sassolini, e il frullo d'ali degli uccelli, i loro batuffoli di nidi, lo spiumio svolazzante delle piume, candide o bigie come tracce d'angeli. Secondo Penenda è un antro fetente, immondo - una cloaca per le carogne brutte e cattive - e una damigella di fine lignaggio non dovrebbe giammai interagire con quelle creature.
Ti imbrattano di escrementi e ti punzecchiano con il loro beccaccio e magari, se sono losche, ti beccano nell'occhio.
Chiara, stamattina, è accolta da un festoso schiocco d'ali e tre colombe si appollaiano sul braccio che allunga, amichevole. Altre si prodigano in giravolte fenomenali e le tortore spiccano il volo in acrobazie mozzafiato.
Cosa darebbe per poter parlare con loro!
Non ha rinunciato ai sassolini.
Li alterna ai noccioli di ciliegia e li ha suddivisi per colore. Quelli grigi ai Paternoster. Quelli arancioni, antracite, ai Gloria. I bianchi, candore virginale, agli Ave.
Chiara inanella trafile di preghiere, profumata di cielo. Arraffa ciliegie dai cesti nelle cucine e le succhia polpose, gustose, i noccioli il suo bottino.
Lei e Penenda posseggono delle bambole.
Pupattole dal volto stilizzato, capelli posticci, crespi, in legno e bambagia. Naso diritto, una linea dipinta, sopracciglia abbozzate con un semplice tratto di pennello, bocca rossa atteggiata nel sorriso e spruzzi di rosso sulle guance. Parrucche di fibre naturali o di capelli veri stanno applicate sulla testa calva. Le braccia sono articolate o addirittura smontabili, mentre le gambe, inesistenti, cedono il posto a una gabbia conica di cerchi di legno che funge da supporto alle ricche vesti sostenendo il balocco oppure a un bitorzoluto cuscinetto imbottito.
Nelle loro cuffiette inamidate e linde, inginocchiate tra i giocattoli sparpagliati sul folto tappeto, Chiara e Penenda si fingono mammine e inscenano episodi di vita quotidiana, ispirandosi a momenti che hanno visto davvero.
Cullano, imboccano, allattano a boccali in miniatura, rimbrottano, conducono a passeggio le bambine di pezza su un carretto. Il guardaroba è sterminato. Svestono e rivestono, truccano e pasticciano, puniscono con la verga e Penenda cucina con le minuscole stoviglie della cena, tra le quali il pentolino della pappa con dentro il suo apposito cucchiaino. Caccia la bambolina nel lettino di vimini e augura la buonanotte a tutti i suoi figlioletti, barcollando da Chiara con due pupi fasciati sottobraccio.
«Che fai?»
Ha disposto le sue bimbe con le mani giunte, un sassolino davanti a ciascuna. Un coro intonante le preghiere dei Vespri. Penenda aggrotta la fronte.
«Non è così che si gioca!» frigna. «Hai proprio l'indole di una vecchia in chiesa.»
Seccata, sua sorella rapisce le sue bambole, profanando il suo coretto, e si apparta, in disparte, trafficando coi suppellettili a misura d'infante.
Ortolana racconta alle figlie dei suoi pellegrinaggi
Chiara ascolta assorta, immaginandosi oltremare, tra le sabbie e i crepacci della Terra Santa, in una carovana di timorati di Dio assolventi ai loro doveri di buoni cristiani. A chi prende a sciabolate un Saracino è promessa l'indulgenza da tutti i peccati, addirittura i più nefasti e orrendi. Lei non sa se ne sarebbe capace. Ma intanto si smarrisce con la fantasia. Nell'Ispania, a visitare il Sepolcro di Giacomo. A Roma, a versare l'obolo sulla Tomba del Principe degli Apostoli.
La mamma racconta alle sue figliolette del mare, che danza in sfumature cangianti, smeraldine presso la riva, turchesi all'orizzonte. Un calice tracimante di zaffiri, il cielo rivoltato all'incontrario. Si annidano le sirene, negli abissi, e i leviatani e le balene ghiotte di marinai, che si arenano a pancia in sù in isolotti di alghe e muschi e nidi e ingannano gli sprovveduti e i relitti s'incagliano negli interstizi dei loro denti.
Ad Assisi il mare non c'è.
Ma permane il coraggio di mamma.
E permane il cielo dove sfrecciano gli uccelli.
Caterina assomiglia a un pulcino spennacchiato e grinzoso, vermiglia come una ciliegia e strilla vigorosa. È un'altra femmina, la terza, e lo zio Monaldo non esita a esternare il suo più acceso disappunto.
«Favarone, così non ci siamo: ripudia tua moglie o nomina erede qualcuno di noi, fratelli, nipoti. Chi più favorisci. Non ti sforna altro che una sfilza di femmine.»
Chiara la prende in braccio, soppesandola. La sua nuova sorellina si dimena e si contorce. Annetta la piglia, si scopre la mammella ballonzolante e gonfia di latte e ci appiccica la neonata, che si quieta, la smette di piagnucolare e sugge famelica.
Penenda non è pienamente soddisfatta. «Piange e si lagna tutto il tempo!»
«Credi che tu fossi diversa alla sua età?» la redarguisce Annetta.
Il capezzolo della balia è tondo e marchiato dai morsi, dai segni delle gengive, colorito come una ciliegia.
La piazza è gremita, il Calendimaggio un evento atteso, una ricorrenza cardine dell'anno festivo.
Non altrettanto di quello liturgico, giacché i clerici tuonano sui pulpiti che si radichi in una festività pagana, un culto turpe e depravato, di bestiale lussuria, efferata immoralità e tutto il repertorio di parolone altisonanti di cui fanno largo sfoggio i preti, per enfatizzare l'ineluttabile e il marcio.
Probabilmente anche i pagani celebravano la rinascita come loro. Chiara vorrebbe sapere se veramente gozzovigliavano in orge. Ha chiesto una volta alla balia in cosa consisterebbe questa orgia. È una festa? Un rito? Una cerimonia? Annetta le ha assestato un sonoro scapaccione, ammonendola di non azzardarsi mai più a porre domande simili. È indecente che una fanciulla voglia indagare su questi orrori.
Tutta Assisi partecipa alla parata del Calendimaggio. Guerrieri e sodali d'arme, crociati e capifamiglia, la borghesia e il clero. I giovani, baldanzosi cavalieri giunti dai castelli confinanti, vestiti a festa, alle redini di destrieri muscolosi e allenati, con le bardature bordate di bronzo e d'argento, i colori del casato campeggianti sulle gualdrappe, le insegne ricamate sulle sopravvesti, stendardi di seta sbandieranti al primo sole di maggio. Le dame che assistono, riparate sotto una struttura di baldacchini e teli, montata sopra un basamento in legno, troneggianti da scranni intarsiati con rosoni e ornamenti vegetali, gli stemmi dipinti sullo schienale.
Piccioncini amoreggiano sulle fontane, si scambiano effusioni e promesse d'amore eterno. A Chiara ricordano le tortore, i piccioni, il loro tubare amoroso e fedele. A Calendimaggio si rinnova la primavera, gli alberi si addobbano di ghirlande e nastri colorati e rinasce l'amore e alla febbrile euforia non sono immuni nemmeno i pennuti.
Tutti i signori dei dintorni sono venuti al luogo del raduno a godersi lo spettacolo, benedire i figli, fratelli, sposi, a bearsi della parata. Agghindate colle vesti e i monili più appariscenti, con cestini carichi di fiori e corone al braccio per gettarli ai cavalieri amati, agli spasimanti, ai musici e ai ragazzi rullanti ai tamburini, le donne rizzano il collo, si accalcano concitate, un turbinio di veli svolazzanti e sottane che strusciano.
È una festa di signori e per signori, inneggiante al decoro, alla pulizia, all'eleganza, al pudore.
Ai giovani i costumi più arditi e la caccia notturna alle donzelle! I contadini, quelli dalle mani lerce, i denti neri e cariati e le brache rattoppate, non compaiono, non esistono. Chiara trova ingiusta questa esclusione. Loro, che si massacrano a lavorare e coltivare i campi da cui poi questa gente riscuote, con sprezzante alterigia, i suoi guadagni, accamparebbero più diritto di chiunque a meritarsi un posto in prima fila, per distrarsi dalle fatiche e ammirare lo spettacolo.
Il cielo, con il suo azzurro intatto, intonso, completa il quadro di questo mondo perfetto, le case di pietra lo incorniciano.
Solo chi presta attenzione alle fronde delle querce che circondano i palchi, si accorgerebbe che ondeggiano troppo vivacemente per essere mosse dalla brezza sottile che circola nell'aria. Ma la musica e l'eccitazione impediscono ai signori di accorgersene, catturati come sono dall'ostentazione maniacale, dal lusso.
Se ci ponessero maggiore attenzione, trascurando per un istante lazzi e fronzoli, scorgerebbero brillare tra le foglie tanti occhi, visi vispi di bimbi che fin dal primo mattino si sono arrampicati lassú, loro, prole di contadini e branchi di malandrini, dai palmi bronzei e callosi, sulle spalle incurvate dei loro genitori, sopra i loro cappelli flosci e sfilacciati, per vedere la festa magnifica dei signori.
Ma nessuno li nota.
Solo la piccola Chiara, alla cui sorridente curiosità nulla sfugge.
Sta imbustata in un opprimente abitino di raso e velluto, una cuffietta trinata annodata sotto il mento, Penenda e lei ritte e silenti alle mani della madre. Anche lei è stato offerto un cestino e con le sue stesse manine lo ha riempito di fiori cogliendoli nel frutteto insieme alla sorella: viole e pervinche, narcisi dalla tromba gialla e vivace e margherite dal pistillo di sole, papaveri sonnolenti e primule.
La balia le ha insegnato pure come intrecciare una ghirlanda, e quando i cavalieri sfilano lungo i palchi, Chiara se la mette in testa, ingemmata di margherite e ranuncoli e fiordalisi. Penenda arrossisce ai passanti, i bei ragazzi, come li chiama. È certa che, un giorno, competeranno in gare e lizze per l'onore di un suo bacio. Ha letto che i cavalieri omaggiano le fanciulle di baci, le salvano e le sposano. Da grande, ha dichiarato, desidera venira impalmata da un cavaliere. Chiara le ha chiesto cosa intendesse con impalmata e Penenda, saputella, le ha detto, senza tanta cortesia, d'andare a informarsi dalla mamma. I grandi sono pratichi di questi particolari d'amore. Il giorno dopo sua sorella era in castigo, esonarata dal dolce a cena per una settimana intera. E impalmata non conosce ancora un significato.
Dopo i cavalieri fulgidi nelle loro armature e nel loro corredo di spade e stendardi e fanfare squillanti di trombe, i tamburini si destreggiano sulla piazza. Sono ragazzini agili, scalmanati, dalla bellezza conturbante e scatto atletico, le gambe tornite fasciate da calzamaglie aderenti, il pube valorizzante certe protuberanze, una piuma sul berretto calcato. Sono spartiti nei colori d'Assisi, il blu e il rosso.
Annetta si sventola con una mano, accaldata, ma ancora più turbata dalla scandalosa visione della prestante virilità adolescenziale esibita con tranquillità, come se fosse una cosa naturale! Non è consono che le bambine assistano a certe oscenità. Le mode la rimbecilliscono, si è arresa nel tentare di capirle. Sono passeggere come le onde sulla battigia e si augura che l'esibizione dei tamburini duri poco.
Lentamente, frenando con le briglie i vivaci destrieri, i giovani compiono il giro dei palchi, in fila, solennemente, inchinandosi ad ogni palco. Le dame talvolta donano un oggetto gettandolo al cavaliere o infilandolo sulla punta dell'asta. Legano fasce intorno al braccio dei concupiti, una consuetudine della tradizione quale auspicio che l'uomo tornerà presto dall'amata sano e salvo. E i cavalieri sostano piú a lungo dove attendono un pegno, un gesto d'amore.
In un rullio di bacchette, i tamburini marciano ordinati dietro di loro.
Un bel cavaliere si indugia sotto il palco dei Fiumi e una giovane dama si strappa una manica dell'abito di broccato, la bacia e la butta piangendo al cavaliere.
«Madre.» chiede Penenda eccitata. «Posso farlo anch'io?»
«Che cosa?»
«Strapparmi una manica per donarla a un cavaliere.»
Chiara non si priverà certo di quest'esperienza. «Anch'io!»
«Bambine!» sussurra Ortolana, il viso ingabbiato in un catafalco di veli e soggoli, piano, perché vicini non odano. «Siete troppo piccole!»
Troppo piccole. Penenda imbastisce il broncio, Chiara storce le labbra, piccata. Non ama nessuno, apparte Gesù, ma quell'assaggio proibito al mondo dei grandi la esaltava. Sentirsi una donna, adulata e incensata da un paladino.
Sentirsi adulta.
Perché non può regalare una manica del suo abito a un cavaliere? Annetta assente e rincara la dose, asserendo che rovinerebbero i loro bei vestitini. Al diavolo i vestitini e le apparenze! Un cavaliere, in battaglia, se ne infischia di vestitini e apparenze e il ricordo della dama, intriso nel fazzoletto, nella bandiera, nello scampolo legato attorno alla sua asta, quasi assurgente a talismano di protezione, lo conforta.
Conta più la valenza del dono che il dono stesso.
Combattere le lacrime si rivela vano. Rigano le gote di Chiara e lei se le spazza con il polso, incandescenti e calde, silenziose. Una dama non consente mai alle sue emozioni di prevalere in pubblico, pontifica Annetta.
Forse è il luccichio di quelle lacrime ad attirare l'attenzione di un giovanotto corvino, un tamburino segaligno, pallido, e indurlo a scindersi dal gruppo. Menava bacchettate alla membrana di pelle ch'era una meraviglia guardarlo, sorridente e brioso, perfettamente a suo agio nella comitiva.
Si ferma sotto il palco, il naso teso all'insù verso Chiara.
Quando le lacrime le permettono di scorgere qualcosa, vede due occhi grigi che la fissano dal basso, occhi ridenti che paiono chiedere qualcosa.
Pongono mille domande e lei non detiene la risposta per nulla.
Chiara si asciuga le lacrime con la manica del suo abito e si specchia in quel grigio temporalesco, burrascoso, intrigato e guardingo, si specchia dell'abito suddiviso nei colori, nel tamburo a tracolla, nel pennacchio appuntato in bilico sul cappello.
Il ragazzo attende. Lei.
Allora Chiara si leva lentamente la ghirlanda di viole, pervinche e giacinti e fiori di campo e la infila sulla bacchetta in legno che lui porge.
Il tamburino se ne trotterella via, ricongiungendosi alla brigata. Sorridente e contento, le strizza l'occhiolino e riprende a picchiare il legno sulla membrana, non prima d'essersi deposto la ghirlanda in testa, sopra il cappello.
«Uno sciocco adulatore.» Penenda è gelosa. Chiara ha ricevuto carinerie e dolcezze e a lei non l'hanno degnata d'un fico secco. «Te ne dimenticherai, vedrai.»
Ma Chiara non lo dimentica.
A Perugia ogni cosa è provvisoria.
Il loro esilio è provvisorio. L'infanzia è provvisoria. Le alleanze sono provvisorie. La guerra è provvisoria. Vinceranno, schiacciando quei manigoldi cani rabbiosi dei popolani, dei mercanti e dei borghesi. Le dimore espropriate saranno riprese con la forza, i beni confiscati, le sale deturpate, gli oltraggi ricevuti.
Zio Monaldo giura che questo affronto verrà pagato.
«Dovevamo stroncarle sul nascere, quelle larve.» grugnisce e ingolla vino al tavolo, in combutta con altri esuli. «Invece li abbiamo sottovalutati, abbiamo lasciato che s'insinuassero nelle nostre case, che germinasse in loro il seme della vendetta, che complottassero, meditassero, che tramassero i loro intrighi. Ci hanno pugnalati alle spalle!» Picchia il pugno, la cristalleria trema. «Ma ingoieranno l'amara fiele dell'umiliazione, della sconfitta, che i miei antenati mi siano testimoni!»
«Monaldo.» lo ragguaglia Favarone, più bonario, aperto a riconciliarsi senza che abbia luogo una mattanza. «Doma il tuo animo fratello. I delitti si perpetrano solo in caso di leso onore. Siamo pragmatici, vi prego.» Si rivolge ai commensali, combattuti tra lui e la furia del fratello. «Il Comune è disposto a negoziare una tregua con la fazione dei ribelli. Le due parti stringeranno un accordo, un patto di rispetto reciproco, di pace e uguaglianza difronte alla legge. Perché insozzare le strade della nostra favolosa città di altro sangue? La politica è una strada sicura.»
«La politica è un ricettacolo di briganti Favarone.» Monaldo parteggia per una opposta, totale risoluzione. «Appena avanzi d'un passo ti ritrovi derubato di tutto.»
«Non nutri fiducia nella diplomazia?»
«Fallibile. La spada non fallisce mai, basta affilarla con una cote adatta.»
Il trionfo sugli insorti, evidentemente, a differenza di tutto, non è provvisorio.
Non lo è neanche perire in battaglia in giovane età, con un firmamento di stelle negli occhi e il sospiro d'un nome sulle labbra.
Per alleviare la sua solitudine - o forse, per sollecitarla a emergere con maggiore assiduità dalla sua cappella trasudante nembi d'incenso e noccioli di ciliegia - le comprano una voliera portatile, una gabbietta in ferro battuto e legno laccato in un susseguirsi di riccioli e decorazioni floreali, abitata da alcune colombelle.
Chiara l'appende al gancio sopra il davanzale della finestra. Infila un dito tra le sbarre, le colombe scrollano la testolina piumata in un fremito d'ali. Non hanno un nome. Il venditore di fiere da cui le hanno acquistate ha ritenuto conveniente assegnare loro un nome? Sono tre e non sa se si tratti di esemplari maschili, di femmine o altri ibridi ermafroditi che ha letto in un libro sulle amenità abominevoli e sui fenomeni prodigiosi che pullulano nei reami alle estremità dei continenti.
Tre. La Trinità Santissima. La Sacra Famiglia. Ma attribuire nomi sacri e venerabili a volgari pennuti potrebbe apparire blasfemo. O arrogante. Gesù non si offende. Quindi bocciati Gesù, Giuseppe e Maria. Potrebbe chiamarle come le stagioni. O con nomi inerenti agli Evangelisti. Pessima idea. Il gruppo sarebbe a corto di un membro.
Oh... le balugina il trio perfetto! I tre Santi Arcangeli!
«Michele, Gabriele e Raffaele!» proclama euforica.
Le colombelle saltellano, oscillano sul trespolo. I loro artigli ticchettano e graffiano il legno che sigilla il fondo della gabbia.
Beatrice è piccolina, chiassosa, il suo pianto demolirebbe un palazzo, potente a sufficienza da assordare. Ricorda una bambolina, ma più proporzionata, dotata di capelli veri, ciuffi radi e setosi, e che reagisce se pizzicata o spupazzata. I suoi pugnetti tozzi si serrano intorno alle dita di Chiara, le stritolano e se li conducono alla bocca vorace, per ficcarsela dentro e succhiare.
Succhiano tanto i lattanti. E con una bocca vera, turgida, carnosa.
Il suo corpicino aderisce al petto di Chiara, infagottata nella seta in tinta vinaccia quando gliela pongono in braccio. Emana calore, le ossa s'arcuano, piegano, rientrano, molli, appena accennate, le scapole come protuberanze, come un dedalo di solchi e cavità di ali mozzate. Ali. Ali d'uccellino?
O ali d'angelo?
Le anime dei bambini sono incorporee, limpide essenze, alito di Dio impastato con l'argilla e cotto nel forno della terra... oppure prima di appropriarsi di un nome, di un'identità, di connotati e domicilio... si rincorrevano nelle sfere celesti?
«Un'altra femmina.» ringhia lo zio Monaldo e non esulta.
I compiti di una fanciulla benestante prevedono apprendere il cucito, l'arte del ricamo, preparare unguenti e medicamenti e cosmesi, saper gestire e comandare una casa, e, se i suoi genitori lo ritengono appropriato, saper leggere, scrivere, contare.
I compiti di una fanciulla cristiana, pia e devota, prevedono la carità dispensata ai più bisognosi, agli emarginati, ai poveri. Povertà. Indottrinano le sue coetanee a disprezzarla, a esorcizzarla, a scongiurarla con qualsiasi anatema. La povertà coincide con la disfatta dell'uomo. Sul ciglio del baratro. Chi è povero è finito.
Chiara, sarà controcorrente, ma non scorge in essa la fine. La speranza non guarda in faccia al censo, alle finanze. La felicità se ne frega dei tuoi abiti sgargianti, dei tuoi pizzi, delle tue sete. L'amore incatena i cuori anche senza un tallero bucato.
Sgraffigna tozzi di pane e croste ammuffite, tranci di carne, torsoli di mela e lische di pesce con carne sulle ossicine biancheggianti. Gratta rimasugli di zuppe dai fondi delle scodelle e, nei giorni fortunati, le capita anche di appallottolare un involto con intere, fragranti e croccanti pagnotte ancora calde dal forno. Si ammucchia la refurtiva nell'ammasso di gonne e pieghe, sbroglia il catenaccio al portone e si slancia fuori, nei vicoli di Perugia, ai ripari degli indigenti, dei pezzenti cenciosi che mendicano pigiati ai crocicchi, ai lati delle strade, dei bimbi scheletrici dalle costole sporgenti, andatura goffa e claudicante e occhi acquosi che ti straziano il cuore.
Bona e Pacifica l'aiutano, collaborano con lei in questo piano, s'inventano scuse e sotterfugi e, a volte, distribuiscono cibarie in sua vece, quand'è trattenuta in casa.
«Se ci scoprono ci bastonano come minimo!» geme Bona di rientro da una delle loro sortite. Sempre fifona lei. «Sai che tuo padre inorridirebbe.»
Mescolarsi con quella lurida marmaglia? Inaudito!
«La causa è più nobile del nostro sangue.» Chiara non arretra d'un passo.
Dopotutto, nessun sangue è più nobile di quello versato da colui che immolò la sua vita in cambio della salvezza di molti. Colui che visse una vita da miserabile.
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