Pianticella
Nota di precisazione: l'avrete già capito da un pezzo, ma ci tengo a ribadirlo. Al fine di farvi immedesimare quanto più possibile nell'atmosfera popolare, campestre e umile dell'Italia duecentesca, opto per scelte lessicali che, sebbene io sappia si scrivano con tutt'altra grafia e correttezza, quali, avrete notato, vabbè o sennò (quest'ultimi considerati però corretti dalla Crusca🤣), preferisco declinarle in una versione più "volgare", con derivati spesso antiquati, simile al linguaggio che Francesco avrà sentito dagli esponenti bassifondi scarsamente istruiti che frequentava.
Tutto questo per rassicurarvi sull'uso di ciliege qua dentro🤣una grafia risalente al secolo scorso.
Nelle storie gli innamorati avventurieri, i trovatori giramondo che si struggono in tremiti roventi d'amore per le loro punzelle in tresche adultere, recano un pegno a ricordo della loro donna. Un cammeo, un ritratto, un suo nastro o fazzoletto. Una pietra dai poteri magici, capace di operare miracoli e prodigi innaturali. Una gemma dalle proprietà curative, non dissimile in questo da altre gemme che, se tritate e polverizzate e miscelate a infusi e tisane, recano giovamento ai malanni.
Cuciono pietre cristalline sul giustacuore, lì dove batte la pompa del sangue, dove il muscolo della vita irrora le vene del corpo e la sua linfa vitale s'innerva, rombante come un tuono. Le cuciono accanto all'assurdo carbonchio dalla luce nera. Accanto al prezioso rubino araldo di sventura. Accanto allo smeraldo virtuoso e sincero.
Francesco le chiede solo toppe da rammendare, stralci di stoffa e scampoli strappati dal suo mantello - ma questo Chiara non lo confessa - sul suo saio rabberciato.
Il conforto di una dama al suo cavaliere.
I frati, intanto, reperiscono per il suo convento una notevole quantità di lana, ceste traboccanti di matasse e bandoli, di scadente, grezza qualità, il massimo che sono riusciti ad adocchiare, insieme a una vecchina che insegni alle monache a filarla e tesserla. Bisogna realizzare abiti caldi per i bambini prima che spiri il freddo.
Nel parlatorio installano un telaio di legno con un grande pettine di canne e le monache si alternano allo sgabello della tessitrice per muovere il pesante palco, che all'ordito intreccia i fili trasversali.
Chi non siede al telaio, fila la lana o si occupa gli abiti, scarda le fibre e le libera dai garbugli, dai nodi o dalle impurità, raffinandole e mondandole, intingendole nel colore, secchi d'acqua putrida che schiumano e ribollono, raddensando le tinte nello stanzone torrido d'umidità. Oppure aiutano in cucina, sempre intente a cuocere grandi paioli di zuppa e forme di pane.
Bussano a frotte al convento di San Damiano: donne in difficoltà, pargoli che si sono fatti male, con fratture, sbucciature, febbri che non scendono, vampate e brividi, uomini singhiozzanti, aggrappati a un tenue filo di speranza per i loro cari.
Anime provate, esasperate dal mondo. Allestiscono un'infermeria e un ospizio, attiguo al loro fabbricato in mattoni. Ogni giorno è un viavai di garze e bende, di impacchi applicati e ossa riassestate, di cataplasmi e beveroni fumanti. Di rassicurazioni, moine, facce buffe per tranquillizzare i bimbi. Di pianti e gemiti e lamenti e preghiere accorate, di nenie e pizzicotti e buffetti sotto il mento.
Un bambino macilento, la pelle che si stira sulle costole sporgenti, le viene appioppiato in braccio. La madre, prostrata nella contrizione, ha provato tutti i rimedi possibili ed immaginibili, ma la febbre non molla la presa. Ha sentito parlare di lei sotto una luce favorevole, che guarisca ammalati e esorcizzi indemoniati. La implora, esasperata, di intervenire, di salvare il suo piccolino. È l'unico figlio che ha.
Chiara adagia la creatura su una stuoia ruvida, le canne scricchiolanti.
«Tornerò a s-stare bene...?» farfuglia il bimbo, gli occhioni strabuzzanti.
Lei gli abbozza un sorriso materno. «Ovvio.»
Il piccolo presenta uno sfogo cutaneo sulla schiena: un bubbone infetto. Prende un coltellino, incide un piccolo taglio e pus spurga, nerastro, suppurante. Non prima d'aver tracciato il segno della croce nell'aria.
Affidarsi a Dio in ogni azione.
La maternità spirituale è forse più sentita, più forte, di quella nata dalle viscere?
Francesco le manda cinque giovani che, secondo il suo parere, si ambienterebbero bene in convento, nuove reclute nelle schiere delle vergini.
Chiara le esamina, queste cinque ragazze. Ne accetta quattro, una la rifiuta. Il velo non è la sua vocazione. La giovinetta è spiantata, triste. Frate Filippo Longo, accompagnante il gruppetto, le riserva un'occhiata interrogativa.
D'uopo fornire una spiegazione al trattamento ricevuto.
«Non persevererà in convento.» sentenzia perentoria.
La grinta e la tenacia non sono doti che il Signore distribuisce a tutti per sopportare una vita di privazioni, stenti e penurie.
Filippo sbatte le palpebre, esitante. «Ma Francesco-»
«Illustragli le mie ragioni, ma rammentagli che non devo render conto a lui.»
Non è una passiva esecutrice delle volontà di Francesco. Ambedue osservano i comandamenti di qualcuno di superiore. Questo Francesco lo sa.
E, per ciò, la stima e la rispetta.
Quando potremo muoverci per il mondo?
È la tacita domanda che regna nei suoi occhi a ogni incontro con Francesco. Chiara scalpita dal desiderio irrefrenabile di predicare, di viaggiare, di salpare per il Marocco e trapiantare il seme della Parole in terre straniere, magari anche versando il suo sangue alle scimitarre degli infedeli, perché no?
Una donna ne conserva la forza. Oh, marciare sulle strade dissestate e sorprendenti dell'umanità! Quale sogno!
Rimarrà un sogno, appunto.
Francesco si incassa nelle spalle. Non risponde.
Chiara ha imparato a non assillarlo.
Becchettano galline nel pollaio, stizzose pennute che si aggirano nel recinto in rami intrecciati, chiocciolanti, spiluccando le briciole e le molliche che lanciano. Si rimpinzano benone, quelle gradasse. C'è una gallina sovrana, prepotente, che tiranneggia sulle altre e becca sempre per prima.
La gattuccia del convento poltrisce sugli scalini che escono nell'orto, stiracchiandosi e balzellando con superbia ammaliatrice, strusciandosi addosso e profondendosi in fusa. Chiara l'ha adottata e Sora Gattuccia è una loro prediletta compagna.
«Buongiorno sorellina.»
Francesco, in visita, le gratta la testolina e la felina, di tutta risposta, sfrega il muso contro il suo palmo.
A Calendimaggio, mentre sta spazzando il chiostro, le setole di saggina che graffiano sul pavimento rustico, una baraonda di bambini, sotto l'egida di Piccardo e Giovannetto, fa irruzione. Chiara trasalisce, allargando poi un bonario sorriso.
«Benvenuti piccoli.» li saluta, riponendo la scopa. «A cosa devo imputare questa visita inaspettata?»
Sfoggiano ghirlande di roselline e viole tra le chiome e tra le manine soffici sbandierano insegne floreali. Girasoli, gigli, iris, giacinti, grano avvoltolato con mazzi di papaveri e fasci di fiordalisi. Steli piegati e annodati. Spiccano, però, rami di...
... ciliegio?
Ciliegi candidi, boccioli tendenti al rosato. Quando vengono scossi piovono petali d'inconsistente leggerezza che volteggiano pacati, planando sulle piastrelle polverose. Chiara non coglie immediatamente il significato insito nel dono, spaesata dall'ambasciata di piccoli intrusi.
Francesco. Logico.
«Siamo una delegazione dello zio!» intona Piccardo con tono cerimonioso, gonfiando il petto. «E portiamo doni alle Povere Dame dei Poveri Paladini di Gesù!»
A un suo cenno i furfantelli se la svignano all'interno del convento, regalando le profumata aste alle dame in questione.
Nell'ora afosa del mezzogiorno, Chiara mostra a Frate Bentivenga - nuovo arrivato tra i frati che devono assistere al loro fabbisogno - il loro appezzamento, che dal muro del convento, fiancheggiato da cipressi, sul sentiero di ghiaia si spinge fino al lento pendio di una collina, la quale dal discrimine piú ripida scende verso la campagna frinente di grilli perdendosi nel bosco, fitto di arbusti, a fondo valle.
È un tiepido giorno di maggio e l'aria, guarita dall'invernale asprezza, gravita molle sulla terra già tutta impregnata dei fermenti esuberanti e goderecci dell'estate.
«Vedi.» gli indica Chiara, il braccio includente tutta l'ampiezza del terreno.
Il suo giardinetto, piccolo e modesto, attende chiuso nella terrazza, da cui si gode di una panoramica mozzafiato, veramente sensazionale, della vallata. I paesini naufraganti nei poderi, i casolari diroccati, le stradine calcinanti che ricordano suture sulle cuciture rattoppate dei campi di grano, colza. Pezze argillose, terrose, paonazze di papaveri sontuosi, odoranti di pula e caprifoglio. S'incamminano tra i gigli e le violette e le rose e lo spiazzo incolto voluto da Francesco per i fiori selvatici.
La terrazza raccoglie il sole che vi picchia inclemente nella maggior parte della giornata, un martello dorato sull'incudine di mattoni e calce, protetta dai venti piú freddi e infidi della stagione invernale, tiranti dal Subasio, che imperversano, alle volte, anche in piccole bufere. La parte bassa, lungo il parapetto, dove ristagna l'acqua dei rivoletti sgorganti dalle grondaie quando piove, l'hanno convertita in orto.
«Vieni, ti mostro il nostro umile orticello.»
Scendono, Chiara in avanscoperta, Bentivenga dietro, procedendo con discrezione su una scaletta scavata nel fianco del colle. Le verdure amano l'acqua piú di ogni altra coltura e l'umidità di una bassura si addice loro assai bene.
Il luogo piú basso - hanno diviso in aiuole recintate di canne - viene infatti coltivato a lattughe, il cui verde pallido si stende in filari nitidi e puliti che emergono dalla terra accuratamente sarchiata. Accanto alle lattughe corrono sottili file di rapanelli e senapi, ciuffi di foglioline pallide trapelanti dalle zolle rivoltate, affiancate da sedani appena trapiantati, come suggeriscono i monticelli di terriccio che ne proteggono la base del fusto. Verso la parte piú alta chiudono l'orto i filari d'agli e cipolle, anch'essi trapiantati di recente dove il terreno si fa un poco piú asciutto.
«Un gradevole fazzoletto di terra.» commenta Bentivenga, ancora giovane, inesperto, e alle prime armi nel servizio alle rinomate Povere Dame.
«La curiamo con amore. E lei, nostra Madre, ci ripaga.» Chiara riprende a inerpicarsi lungo il pendio. «Vieni. Mia madre mi ha avvisato che siamo a corto d'olio. Lavo l'orciolo e te lo lascio sul muricciolo a secco. Sei tu l'incaricato della questua oggi.»
«Lo sono sign-» Si corregge, impacciato. Nutre un rispetto reverenziale per la badessa in fama di santità, altrettanto per il reverendo Padre Francesco, benché Francesco prediliga farsi chiamare madre. «Chiara.»
«Ci metto poco, non temere.»
Chiara provvede a raccattare l'orciolo in terracotta dalla cucina, mondandolo dai coaguli untuosi d'olio sotto il getto zampillante dalla fontanella marezzata di muschio. Lo lava con cura, gli schizzi rimbalzanti sulle pietre. Dopodiché lo depone sul muro del giardino, in attesa che Bentivenga giunga a prenderlo e rifornirlo.
Attende infatti. Cinque minuti. Dieci. Nel frattempo stende il bucato, i lenzuoli diafani ornati di rampicanti e tralci di vite che andranno donati a una canonica sotto la giurisdizione della diocesi d'Assisi. Attende ancora. Venti minuti. Mezz'ora. Non deve porre fretta alla Provvidenza, lo sa bene, ma ad Assisi l'olio è di casa, l'amicizia per i fraticelli consolidata. Quanto ci impiega Bentivenga a implorare un poco di spremitura da una delle numerose macine di cui pullula la campagna?
Non è che si è dimenticato? Corre a controllare, per sicurezza.
Se avrà cannato, per lo meno si sarà tolta uno sfizio. Davanti al muricciolo, nella parte affacciata sul loro giardino, s'è ammassata una folla di sue consorelle e fratelli questuanti. Riconosce Leone, Filippo, Balvina, sua madre, Beatrice, Pacifica. Bentivenga. Occhiate sbigottite si dirottano su di lei quando si palesa, inoltrandosi nel gruppetto. Mormorii si rincorrono, un brusio incerto.
Che succede?
Bentivenga quasi strabuzza gli occhi, cereo. «V-Vi siete burlate di me per caso?»
Chiara inclina il capo. Ma di che parla?
«Scusami?»
Il giovane frate trema, spaventato che la badessa possa incenerirlo con lo sguardo per quello che s'arrischia a dichiarare. «Mi sono affrettato per recuperare l'orciolo, volevo portarvi sollievo... v-veramente! Mi sporgo sul bordo del muro per afferrarlo e lo sento... lo sento pesante. Impossibile, cogito tra me e me. Lo a-apro per sincerarmi che dentro non si sia nascosto nulla o che non vi abbiano giocato uno scherzo qualche pestifero di passaggio e... e-ecco...»
Le mostra il recipiente d'olio, l'orciolo, colmo d'olio verde, splendente, fine.
Chiara sbarra gli occhi, incredula. Immerge una mano, si lecca le dita. Il sapore è sopraffino. Non producono un olio di una qualità così superba qui ad Assisi, ma da nessuna parte, neanche nel frantoio più attrezzato!
«L'hai riempito tu Leone? O tu Filippo? Balvina? Madre?»
Negano, stupefatti quanto lei, letteralmente spiazzati.
Chiara osserva il cielo, affrancato da nuvole. Un'infinità vertiginosa. Il balenio di un sorriso le attraversa l'ovale del volto.
Grazie della tua misericordia, oh Signore.
L'idea balza in testa a Francesco.
Sono maturate rapidamente, tutte insieme, le ciliege dei tre grandi alberi dell'orto, perché non approfittarne? La sua pianticella è ghiotta di ciliegie!
Le monache più giovani ne hanno raccolte quante hanno potuto, arrampicandosi sui rami più bassi e resistenti. Si divertono, spassandosela, appollaiate lassù, nelle loro vesti in tela di sacco. Ciliegie volano da un ramo all'altro e s'odono, argentine, improvvise risate, cinguettanti, amene. Ne riempiono ceste fino a strabordare, gremendone il porticato del convento. Alcune ciliegie, belle rotonde e succose, le espongono al sole perché secchino, raggrinzendosi. Le più belle le recapitano in omaggio ai feudatari confinanti, ai popolani, alle genti d'Assisi, i quali ricambiano a loro volta con ceste di ciliege, magari di altra qualità, ma pur sempre ciliege.
Anche i loro alberi erano venuti a maturazione nello stesso tempo.
Bona sforna composte, torte, salse piccanti per le carni, marmellate zuccherine e dolcetti dolciastri. Alla richiesta di Francesco di preparare i suoi adorati mostaccioli gli scaraventa, con taciturna eloquenza, il mestolo in zucca. A un certo punto notifica, chiaro e tondo, che non vuole piú vedere entrare in cucina una singola ciliegia.
Ma le ciliege continuano a maturare, in questi albori di giugno, piegando i rami. Spuntano con le loro teste rosse tra le foglie, al mattino, maturate nella notte per effetto del sole del giorno prima, tumide di succo, abbondanti per la gran pioggia e il calore che le succede. Non se ne sono mai viste tante, cosí grandi, cosí saporite.
La calura arrostisce, distorce i paesaggi in lontanza, solleva onde, e le ciliegie crescono e crescono e crescono.
A Francesco sovviene l'idea di invitare tutti i bambini della contrada e destinare al loro arbitrio alberi e ciliege. Chiara concorda. Si divertiranno e Bona non avrà più da brontolare sul ritrovarsi sommersa dalle ciliegie. O da domande inopinabili.
Preparano tanti pani dolci, piccoli e tondi, che nessuno rimanga a mani vuote. Il risultato? Perseguito, ampiamente perseguito e riuscito.
I bambini, chiamati casa per casa dalla scalcagnata banda di Francesco, invitati senza costrizioni, compaiono il pomeriggio di Pentecoste. Si sporgono timidi sull'uscio dell'orto, guardando curiosi. Dopodiché, sollecitati dalle monache, entrano silenziosi e composti, alla spicciolata, prendono un panino dalla bella cesta di giunco che hanno posato sulla tavola bianca sotto la pergola, si accostano a uno degli alberi di ciliege, a naso in su, e in un attimo sono spariti tra il fogliame. Sono liberi di mangiarne quante desiderano le loro budella affamate, largo all'ingordigia, e portarsi a casa quelle, ingozzati, che non riescono a finire.
Si arrampicano in silenzio, destreggiandosi con abilità fino ai rami piú alti, agili, svelti e sicuri come gatti. Sora Gattuccia, perplessa, si limita a ronfare sugli scalini con alterigia. Adocchiano il ramo più ricco, le ciliege più polpose, e, da veri professionisti, si rimpinzano e colmano le loro bisacce. Attuano coscienziosamente, alla luce del sole, quello che hanno sempre fatto, di nascosto, su alberi proibiti, in dispetti e birichinate.
Per qualche tempo le fronde dei ciliegi si agitano silenziose, mosse da piccole mani veloci. Poi, toccata la sazietà tra rutti e sospiri, le gambe a penzoloni, le teste oscillanti, i bambini si rendono conto che a quest'abbuffata sono gli ospiti d'onore e non occorre bisogno alcuno di celarsi o tacere o bisbigliare con cautela.
Facce macchiate di rosso appiccicoso spuntano tra il fogliame, lanciare richiami striduli verso altri alberi. Si intrecciano discorsi in un linguaggio misterioso, che adulti, le monache e gli altri, non comprendono più. Scoppiano improvvise, scroscianti risate, trilli e strilletti, che si comunicano da un albero all'altro. I bambini, seduti a cavalcioni dei rami più robusti, a loro agio, come su comodi troni.
Mangiano i panini dolci, sbocconcellando a morsicate, e discorrono tra loro, pacati, sempre in quel loro strano linguaggio nato dal sodalizio della fame e del gioco.
Estraggono, da tasche e cappucci e bisacce a tracolla, zufoli di canna, pifferi, tamburelli, sonagli e altri strumenti fabbricati con le loro mani, intagliati dai loro coltellini e prendono a suonare, a casaccio, senza accordarsi, in una sgangherata, divertente orchestra. Chi non possiedi strumenti canta, a squarciagola, una sua canzone, stralci di una ballata distorti e contraffatti in grottesche riproposizioni, con aggiunte di particolari sconci, macabri e giullareschi. Giovannetto batte due bacchette su un vecchio tamburello dalla pelle sgualcita. Un tamburello?
Chiara occhieggia Francesco, maliziosa.
«Potrebbe... averlo ereditato...»
Sospetta da chi. «Stava stipato tra i tuoi averi?»
L'altro polarizza la sua attenzione sui nipotini. «Giovannetto, la conosci una canzone sul Calendimaggio?»
Piccardo si sente legittimato a intervenire al posto del fratellino.
«Ne conosciamo a bizzeffe zio!»
«A me piace quella della vecchia colle mutande bucate!» ghigna Giovannetto, un lucore birbantello negli occhioni azzurri. «Tutti le vedono le chiappe mosce...»
Piccardo storce la bocca in una smorfia disgustata. «Era orribile!»
«Era divertente.»
A calmare le intemperanze dei bimbi subentra lo zio.
«Che ne pensate di cantare una ballata del Calendimaggio a Sorella Chiara per ringraziarla di questa scofanata di ciliegie?»
I bambini ne sono entusiasti.
«Sììì!»
«Una dolce!»
«Una affascinante come lei!»
«Ma non è maggio!»
«L'occasione è sempre buona!»
Francesco, modestamente, n'è un intenditore, tanta ballate ha strimpellato a suo tempo in romantiche serenate sotto le finestre delle più soavi fanciulle d'Assisi, Chiara compresa nel novero, a un certo punto.
«Conosco io quella perfetta!» Batte il piede sudicio sulla terra crepata dal sole crudele. «Mantenete il ritmo, d'accordo?»
Il coro trova una sua armonia.
«È qui il ridente Maggio. È qui quel nobil mese che sveglia ad alte imprese i nostri cuori. È carico di fiori, di rose e di viole, dipinge come suole, ogni riviera. E se non ci credete che maggio sia arrivato, eccolo qui piantato. E se non ci credete che Maggio sia partito, eccolo qui fiorito. È qui la primavera. È qui il tempo novello, tornar mai più che bello e più giocondo, acciò che tutto il mondo sia colmo di allegrezza di gaudio e di dolcezza e di speranza. Su e giù per ogni stanza, la vaga rondinella, che in questa parte e in quella fa il suo nido e se non ci credete...»
Francesco s'inchina al suo cospetto, le stampa un baciamano galante sulle nocche. Chiara avvampa, non riesce a trattenere un sorriso. Lui, suo specchio, lo riflette.
«Mia pianticella, mia discepola, mio ramoscello e mia cristiana, mia stella e mia colomba argentata.» Si fionda ad abbracciarla. «Grazie per la tua preghiera coraggiosa, per salvare questo disgraziato in fieri...»
«Non sei un disgraziato.» ridacchia sommessa lei, carezzandogli il viso, la barba pruriginosa e il contorno arrossato degli occhi. La sclera risalta di capillari, quella sfumatura malsana di quando non dormi o ti è entrato qualcosa di fastidioso tra le palpebre o, come nel suo caso, sei infetto. Eppure, nonostante i malanni, Francesco persiste a sorridere. Il sorriso: la sua arma. «Sei solo eccessivamente severo.»
«Con te?»
«Con te stesso.» Quel principio di glaucoma non le piace. «Promettimi che consulterai un medico e che riposerai...»
Dalla gola di Francesco gorgoglia una risata. La prende sul ridere, niente affatto serio. Ma Chiara non scherza.
«I medici! A che servono? A prescriverti purghe, salassi e cataplasmi di sterco di mucca con pediluvio nell'urina di capra?»
«A curarti.» puntualizza Chiara, metodica. Vuole ascoltarla?
Francesco è sordo. Ride e canta e gioca. Dimentico delle diatribe flagellanti il suo Ordine, delle critiche feroci, delle polemiche, degli appelli perché scriva una Regola più indulgente verso i nuovi fratelli, felice e spensierato, l'acchiappa per mano, trascinandola in un girotondo ameno.
«Ah pianticella mia, perché incupirti con discorsi di malanni e fanfaroni in maschera e tenaglie? Guarda che giornata radiosa!» Spalanca le braccia, annusa lo zefiro. I bambini danno l'assalto agli alberi, suonano e stonano. «Ringraziamo il Signore che ci ha donato la possibilità di viverla e crogiolarci al tepore di Fratello Sole!»
Per poterne godere di altre, di sfilze di altre, dovrebbe anteporre la sua salute, a discapito di quanto Elia e Ugolino possano esercitiare sollecitazioni per ricavare quella benedetta, urgente, Regola. Ne va del suo bene!
«Francesco.»
Lui piroetta, brandisce un ramo caduto e lo mulina a mo' di spada, lieto tra i bambini, scolorito tra gli uomini giudiziosi e critici.
«Altolà marpione! Tentavi di derubare la principessa?»
Il marpione avrebbe i tratti distintivi di Giovannetto. «No zio, sono un angelo io!»
Il chiasso gli impedisce di sentire o davvero è ostico ai suoi consigli?
«Francesco.» Chiara stritola un pugno contro il fianco. «Ti prego.»
Lui le spizzica un rapido bacio in fronte, sul soggolo. «Ammira intorno a te le bellezze della vita, le bellezze del Creato! Quanto siamo fortunati!»
Si rituffa nella mischia. Chiara rimane inchiodata sul posto, una voragine nel cuore.
Francesco sta male.
E non strettamente in senso fisico. Mangia a stento, dorme e malapena, massimo due ore per notte. Marcia a ritmi insostenibili, sotto il sole cocente, nell'arsura, nella neve e nel gelo, nelle raffiche e nell'acquazzone. Gira fino a cinque villaggi al giorno, predicando, allestendo spettacoli, facilitando l'ascolto della parole di Dio alle masse analfabete, ignoranti del latino ampolloso della liturgia.
Ma sta male nell'animo. È tormentato dai dubbi, roso dalle domande. La relazione con i novelli, pretenziosi frati è giunta a un bivio inconciliabile. Francesco preferisce la semplicità dei pastori alle loro disquisizioni teologiche, la schiettezza ilare dei bimbi ai loro battibecchi, la pace sovrumana degli eremi, delle grotte, dei ripari sui monti ai loro schiamazzi e al loro pretendere, pretendere, pretendere ossessivo...
Tartassa Chiara delle risposte che non riesce più a reperire. Dio vuole che si isoli in contemplazione o deve restarsene tra la gente a diffondere la sua Parola? Sarebbe stato meglio se avesse messo sù una famiglia di carne invece che questa travagliata, frammentata, famiglia di spirito? Ha sbagliato? Ha frainteso il Vangelo? La sua incompetenza ha portato a questo casino, non è vero?
Scrive e riscrive, corregge, cancella, lo obbligano ad ammorbidire la Regola, a stemperare l'asprezza. Nella sua ottica questo è un oltraggio a Madonna Povertà. Rimuovono passaggi scottanti, rimodellano, alterano.
I primi compagni non sanno più come trarlo fuori da quella situazione.
«Francesco sta male Chiara.» Il viso di Leone è un spicchio roseo nella penombra del parlatoio, oltre la grata. «Ti scongiuro, a nome di tutti, aiutalo.»
Come può liberarlo dalle sue incertezze se lui continua, sfacciato, a sostenere che fili tutto benone? A respingere gli approcci di chiunque?
Il massimo che le riesce è raddoppiare le preghiere.
Distacco dalle donne, ammonizione ai frati che le frequentano.
Questo Francesco ha inserito nella redazione finale della Regola Bollata.
Alle donne i conventi, la solitudine della clausura imposta. Chiara è sconvolta, ma mantiene una maschera impassibile dinanzi alle sorelle turbate. Montano grate, sistemano lucchetti, assemblano porte. Ugolino le vuole - e non concepisce altro per delle donne - murate vive nel silenzio contemplativo.
Francesco non sacrificherebbe mai il loro sogno congiunto, di comunità di fratres e sorores collaboranti a vicenda per apportare benessere alle classi svantaggiate, per servire gli ultimi, per umiliarsi nell'amore.
Giusto?
Ma Francesco sta male.
La bile del tradimento - lui non l'ha tradita, doveva farlo o l'Ordine si sarebbe sfaldato, si è ritrovato le mani legate - le corrode la trachea.
Occorre di più, però, per scalfire il loro legame indissolubile.
Francesco continua a scrivere manco fosse a corto di tempo.
Lettere. Grazie a Dio la Regola è terminata. Ai fedeli. Ai chierici. Ai reggitori dei popoli. A Elia. A Frate Antonio, stabilitosi a Padova. A Leone. Altre lettere ai Custodi. Dal suo corpo martoriato detta lettere indirizzate a lei, alle sue sorelle, alla Francia.
Scrive preghiere. Lodi e Ufficio. Saluti alla Vergine. Benedizioni.
«Distruggerti non ti attirerà il compatimento di Nostro Signore.» lo rimprovera, secca, durante una sua visita. Le ha ridotte, sporadiche ormai, da quando è entrato in vigore il divieto di avvicinamento. Per entrare nei conventi serve un lasciapassare da parte dei potenti. «Non lo compiaci uccidendoti Francesco!»
«Ma io s-sto bene...»
Il glaucoma si è aggravato, le palpebre irritate, stropicciate. Accusa febbri abominevoli e fitte allucinanti allo stomaco, in prossimità della milza, nel fegato. Non sta bene. Lo capirebbe anche uno stolto che non sta bene.
«È un miracolo che sei vivo e per favore, per favore.» Lacrime le pizzicano sotto le ciglia. «Restaci vivo. Per me, per noi. Per Dio.»
«Siamo operai nella sua vigna mia pianticella.» Sputacchia, vittima della tosse, gocce di sangue. Noncurante, si pulisce il mento imbrattato con la manica. Scorge un solitario filo argenteo nei suoi capelli arruffati, una cometa nella notte. L'unico che gli vedrà mai in questa vita. «A lui spetta il giudizio...»
«Le nostre azioni corrispondono ai disegni della sua Volontà, lo so, non possiamo conoscere i piani imperscrutabili di Dio, ma-»
Il volto di Francesco è pervaso da una dolcezza paterna. «Ma dobbiamo accontentarci Chiara. Lui impugna passato, presente e futuro. E Lui sa.»
È la certezza su cui Chiara ha fondato la sua intera vita.
«Me ne rendo conto.» Alleggeriamo un po' adesso. «Ma ho visto leoni di marmo con occhiaie meno evidenti. Da quant'è che non dormi?»
«Tre...»
«Ore?»
«... giorni...»
«Francesco!»
«Se Fratello Sonno intralcia nella preghiera è colpa mia?»
Ha giorni buoni e giorni cattivi.
Durante questo suo soggiorno a San Damiano, rinfrescato nell'ombra della capanna e nell'oliveto, i giorni buoni scalzano quelli cattivi. Giorni pigri, lenti, soporiferi, intessuti di sole e ozio, caratterizzati da risate e memorie agrodolci di un tempo ormai relitto, inabissato negli anni, da premure e attenzioni che giù, alla Porziuncola, i nuovi, malmostosi confratelli hanno disdegnato di offrire al loro fondatore.
Francesco si appisola, floscio, in grembo a lei, le ginocchia elette a guanciale, ben bendato, sotto coperte di lana spessa. Chiara gli somministra un infuso di semi di cumino e anice per liberargli il fegato e risanargli le viscere malandate. Di solito non funziona, non sempre. In mancanza del latte materno necessario a preparare la pomata per gli occhi, si serve dell'aglio e il grasso d'oca avanzati in cucina.
Una sera, all'ora di cena - che per lui viene molto prima dell'orario consueto, stanco com'è lo ficca a nanna al primo sorgere della luna - le chiede, con voce tremante, un roco pigolio, non un intruglio o una coppa di latte caldo.
Ma una bevanda di quelle propinate ai bambini, una miscela di miele e sciroppo e latte condito con menta.
«M-Maman me lo p-p-preparava se-sempre... puoi?»
Certo che può, per arrecargli sollievo può tutto.
Russa nel dormiveglia, sbavando sul cuscino, quando rinviene con quanto richiesto. L'aiuta a sostenersi per berla fino all'ultimo sorso, un rigagnolo che gli inzuppa la barba. Francesco si addormenta in un baleno. Chiara sosta a vegliarlo, al lume d'una lantena, fino al sopraggiungere di Leone.
L'indomani è di buonumore. Quando dorme bene è sovente di buonumore. Un segnale positivo. Si accocola contro Chiara all'ombra di un ulivo ingobbito.
«Hai un buon p-profumo...»
Gli carezza, lenta, la fronte madida. «Grazie. E che profumo emano?»
«Di garze, basilico, gerani e lavanda...» Sbadiglia, comprimendolo contro il suo avambraccio, a cui si appiglia, sonnacchioso. «... di mamma...»
«Di mamma?» Trilla un risolino da parte sua.
«Mmmh...» Si avvicina l'ora del pisolino pomeridiano. «... m-mamma...»
Francesco l'artiglia disperato, a tratti morboso. Non lasciarmi, il messaggio in codice, che Chiara decifra da quella tensione, da quella stretta intensa, dalla sua spalla riconvertita in ufficioso cuscino. Non lasciarmi. Ho bisogno di te, almeno di te. Tu non mi critichi, non ripudi la povertà, non pretendi nulla. Non lasciarmi.
Ha bisogno di qualcuno che gli assicuri che andrà tutto bene.
Chiara non ha mai vacillato.
«Francesco?»
«Mmmh?» bofonchia, rintronato. «Co... cosha...?»
Suonerà una domanda inopportuna, scortese. Deve sradicarsi questo macigno dal cuore. «Mi aspetterai dall'altra parte?»
Silenzio. Richiami di uccelli. Forse è crollato dal sonno.
«T-Ti aspetterò fino a-alla... fine del mondo se s-sarà... necessario...»
Chiara cerca di occultare le lacrime. Non è consigliabile che la senta piangere, non nelle sue delicate condizioni. Gli imprime un bacio sulla nuca.
«Grazie.» sussurra e sa che non può sentirla. Russa fragorosamente che è una meraviglia saperlo finalmente dedito al riposo. «Grazie.»
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