Germoglio
Il canto riecheggia, vibrante, sotto l'imponente volta affrescata.
Arabeschi d'incenso vengono effusi dai pesanti turiboli. La messa domenicale è ufficialmente iniziata. Il rito si svolge in un saliscendi di note e contralti, in una pacchiana gara di ostentazione del lusso. Croci e pettorali ingemmati penzolano ai petti dei presenti, iniziali, emblemi, anelli con sigilli brillano su ogni dito.
La mobile luce dei ceri illumina debolmente i volti dei parrocchiani e i ricami argentei della sontuosità con cui Chiara è abbigliata. Un diafano, etereo indumento d'un candore virginale, immacolato, il viso contenuto in un soggolo bianco, da cui diparte, con inconsistente leggerezza, un velo finissimo, candido, simbolo d'incorrotta castità e indiscutibile purezza. Una fanciulla illibata e dignitosa immagine del casato, coi suoi integri, sani principi. Inorpellato di nastri e infiorettature argentee, le prude terribilmente, voluminoso e languido in cascanti drappeggi all'altezza della vita.
Francesco sembra passarsela peggio di lei.
Lo sguardo di Chiara fugge, ogni tanto, a quella testa chinata, imbacuccato nella giubba cobalto con abbinata cuffia in risvolti in oro e gemme, e se ne ritrae immediatamente, un velato sorriso appena Francesco la intercetta. Il suo amico segue la messa a sprazzi, attirato dalla moltitudine incredibile di poveri rimpiattati in fondo alla chiesa, un assembramento caotico di cenci e toppe.
Il cuore di Chiara sanguina per loro.
Decide di mantenere lo sguardo fisso innanzi a sé, nel vuoto, un salterio tenuto in mano, genuflessa sull'inginocchiatoio che le spetta, come ha sempre attuato quando Francesco era uno scocciatura più che un amico. Canta e non le ronza per il cervello a che cosa pensi Francesco. Chiara stessa, cantando, non pensa propriamente a nulla. Non vuole pensare a nulla. Allo sguardo di Francesco premente su di lei, che la cerca, la chiama. Ha bisogno di lei. Perché? Per quei poveri. Deve contenersi. È in chiesa. Il primo istinto sarebbe quello di correre da loro e soccorrerli, protendere una mano di sollievo e vicinanza, ma c'è suo padre. E c'è suo zio.
La punirebbero gravemente se si cacciasse in un guaio del genere, se desse sfogo alle sue bizzarre inclinazioni, svilendoli davanti a tutti.
Il libretto, fibbia in filigrana dorata, le trema in mano.
Sente un turgore crescerle dentro, una palpitazione che non è riconducibile alla paura, come se il canto le stesse germogliando in corpo, si stesse dilatando, avvolgendola nelle sue verdi spire e stesse concimando in lei i semi di una strana dolcezza. Forse Chiara sorride, non lo sa. Non riesce a trattenere lo sguardo, che si volta su Francesco alla sua panca. E i suoi occhi si imbattono in quelli di lui.
L'altro boccheggia, suda, si slaccia il colletto in preda a un malessere improvviso. Che ha? Chiara è preoccupata. Pietro di Bernardone squadra il figliolo, un'occhiataccia bieca che permette poco spazio a diverse interpretazioni. Piantala di fare il pagliaccio o a casa regoliamo i conti io e te. Francesco sembra annaspare, pallido, gli occhi lucidi. Barcolla, fa per sedersi. I genitori provvedono a farlo restare in piedi.
Messer Pietro dissipa gli sguardi corrucciati dei compaesani con un sorriso. Ne riserva uno zuccherino a lei, la presunta fidanzatina del suo figliolo.
Non è niente, solo un giramento di testa.
Francesco accusa sempre più caldo, cereo come un lenzuolo, ruscellando sudore, la fronte grondante, luccicante di sudore. Si sfila la cuffia, un impiccio. Cerca lei tra le volute di fumo e i canti che crescono, s'intensificano.
Aiutami Chiara, scagionami da questa prigione.
Lei inclina il capo. Quale prigione?
Francesco deglutisce e trascina gli occhi infelici, vacui, sul crocefisso tempestato di gemme, solenne, austero, in foglia d'oro e maestosa corona sul capo.
Urla. La messa s'interrompe. Tutti i volti schizzano su di lui.
«No!»
Scansa la manata incollerita del padre che sta per acchiapparlo, il palmo della madre che gli tappa la bocca. Ruzzola sulla navata centrale, si rimette in piedi, fissando costernato il crocifisso. Tenta di farsi il segno della croce, il braccio crolla, floscio, braccato dai brividi. Francesco indietreggia, terrorizzato.
«No...» geme, quel crocefisso una negazione del Cristo che ha incontrato negli ultimi.
Nel brusio dei cittadini Francesco scappa e Chiara esulta interiormente.
Sorride.
Vai Francesco, ripara le macerie del nostro mondo.
Perché nel confuso stridio delle rondini le balena il pensiero all'arazzo raffigurante il liocorno? Se lo chiede più volte, tempo dopo, quella sera, senza rinvenire una risposta convincente. In questo momento, mentre l'aria imbrunendo si fa rapidamente fresca e pungente, ritiene doveroso affrettarsi a terminare il ricamo del liocorno.
È costituito da un grande, maestoso lavoro d'ago dei tempi di Perugia, a cui si dedica insieme alle sorelle, alle amiche, alle cugine, alle vicine di casa, nelle lunghe, interminabili sere che accompagnano l'autunno e l'inverno. Morire di noia non l'alletta come prospettiva. Caterina e Beatrice, sua madre, Annetta, Bona e Pacifica di Guelfuccio, occasionalmente Penenda, dal ventre sempre più prominente.
Si accendono candele e lucerne allora, negli appartamenti delle dame, in quella teoria di stanze e alloggi comunicanti rasentante un gineceo, e tutte insieme lavorano a quel grande arazzo, adoperandosi con aghi, frange, orli, nappe, le teste ciondolanti, in un confabulo sommesso, segreto, intimo, serpeggiante di ciance e bisbigli e civetteria, seguendo il disegno che Chiara medesima ha tracciato sulla trama.
Quando, ancora esuli a Perugia, Chiara aveva avanzato l'iniziativa alla madre, un giorno, Ortolana l'aveva lodata per la sua avvedutezza. Una buona padrona di casa deve pensare a queste attività per il suo corteo di donne e parenti, le aveva detto. Ideare un passatempo che invogli, che tenga le mani occupate invece che lasciarle a oziare nell'indolenza crogiolo delle tentazioni e dei peccati.
Una grande cesta al centro raccoglie i gomitoli di seta colorata, palle soffici. In un paniere di vimini si fruga alla ricerca di accessori, guarnizioni, gemme con cui abbellire il disegno, rovesciando il contenuto e scartando gli orpelli inutilizzabili. Ortolana distribuisce i colori che devono riempire le varie zone del grande arazzo e le compagne se li spartiscono, l'arazzo adagiato sulle ginocchia. A ognuna di loro è stato assegnato un ruolo, ognuna è responsabile di una sezione prestabilista, come ettari di un campo alle dipendenze di diversi mezzadri.
Pallido azzurro per i numerosi fiori che spuntano nel prato e lucente blu cobalto, un blu schiarente nel verde in quel limbo che assume il nome di verde acqua, per il grande prato in cui tutta la scena se ne sta immersa. L'ambientazione onirica. Giaggioli, narcisi, bottondoro, giacinti, papaveri, campanule sbocciano nell'erba.
Rosso cremisi per il padiglione che vi sorge in mezzo, sontuoso, regale, un santuario alla nobiltà, punteggiato di gigli d'oro, la cui apertura lascia intravedere all'interno un rosso piú tenue, delicato, quasi rosa, dai riflessi di velluto. Dietro il padiglione una foresta di querce si staglia sul rosso con le sue fronde verde pallido, color di foglie nascenti a primavera. Ma ai lati del padiglione, quasi a segnarne la soglia, svettano due alberi di melograno, le scorze corpose, gravide di chicchi, incastonanti gli spicchi tagliati a metà. Un piccolo rigagnolo in filato d'argento, lucente, cinge il rigoglioso paradiso su cui s'erge il padiglione trapunto di gigli, come a serrarlo in abbraccio di diamante, a imprigionarlo in un serraglio d'aria circondato da un fossato di luce.
Le donne ricolmano quegli spazi di seta multicolore, in un fruscio di veli e cigolii di legni, in un brusio sommesso, di uccelli in voliera più che da dame aggraziate. Sono curiose. Smaniano di conoscere la ragione dietro a quel misterioso soggetto.
Chiara è pia, estremamente religiosa. Rattoppa più che ricama, mormorano. Scappa più che starsene mansueta e obbediente dietro il marchingegno del telaio, recalcitrante a sottostare alla paterna volontà com'è. I temi profani, cavallereschi, dei romanzi cortesi e di paladini galanti, l'affascinano assai poco.
Perché questa dama senza volto? E il liocorno?
Non capiscono come mai abbia optato per cingere il padiglione con un corso d'acqua che lo isoli, come su un'isola.
Una gabbia.
Ma ancor meno comprendono che cosa significhi il bianco liocorno, che, piegando le zampe anteriori ai piedi della dama, zoccoli vaporosi di peluria, fissa adorante, stregato, i suoi occhi di zaffiro in quelli invisibili di lei. Davanti all'apertura del padiglione, illanguidita con atteggiamento pensoso, di quello che si riscontra nei bersagli del morbo d'amore, siede su una roccia una dama, alta e sottile, in un abito di broccato azzurro ricamato, come il padiglione, a gigli dorati.
Anche la dama fissa il liocorno. Ma il suo volto non è ancora stato benedetto dall'ago e dai colori: spicca come una macchia bianca, un vuoto, un'assenza.
L'indefinita irregolarità nella regolare, ripetitiva litania del cucito.
Lavorano a lungo, stasera, Chiara e le sue sorelle, terminando le parti non finite: la coda di un cane bianco, animaletto domestico - o consolazione dalle pene del cuore? - della dama, le ali rosate di un uccelletto sorvolante il prato, fiordalisi e margherite lungo il bordo, la fibbia alla vita della dama e altri particolari rimasti incompiuti.
Quando le donne depongono l'ago, stanche, l'arazzo è completo, tranne il volto della dama e le bande di capelli che sfuggono, sbarazzini, dal cerchio d'oro e perle, gocce opalescenti, che le orna la fronte bianca, accuratamente rasata.
Chiara si dichiara compiaciuta del risultato, poi ringrazia sorelle e amiche. A poco a poco si ritirano, prendono congedo, si stirano le dita usurate dal lavoro. Ora che si concedano del riposo. Rimane solo lei e si attarda in silenziosa contemplazione davanti all'operato, all'indefinita bianchezza della dama senza identità.
Senza volto. Senza personalità. Non ancorata al passato, non vincolata a nessun obbligo famigliare, non scrutante nel futuro. Una dama che è nessuno.
E tutti, contemporaneamente.
Chiara estrae un bandolo celeste dal cesto, e conferisce sguardo, essenza e profondità agli occhi della dama. Con della seta scintillante di polvere d'oro i capelli dell'effige adesso sprigionano bagliore e con del bianco dorato imbelletta il viso malinconico. Poi si si scioglie le treccine, ciocche le ammantano le spalle, intercettando sfavillii di fiammelle e candele.
Ciocche bionde, garbugli d'oro cesellato, lascito dei suoi avi longobardi.
Come quelli della dama.
I liocorni sono attratti dall'aroma della verginità. Una delizia e un tranello. I cacciatori, bramosi del suo vello, del suo corno dalle proprietà magiche, del suo sangue che assicura l'immortalità, sfruttano questo stratagemma. Una fanciulla illibata siede nel bosco. Il liocorno, assuefatto dalla sua purezza, si avvicina, e depone il muso sul grembo inviolato di lei. Quando si ha la certezza che la creatura dorma i cacciatori sferrano l'attacco e il liocorno, braccato, cade in trappola.
Il male che contamina...
Francesco è stato attratto da lei, ma Chiara non si pensa pura. È umana, piena di difetti, di mancanze, imperfetta. Cosa ci ha trovato Francesco in lei?
Cos'ha trovato lei in Francesco?
Il suo amico non è il liocorno, certo che no. È solo una coincidenza. Così com'è solo una coincidenza che la dama sia bionda. Il biondo è una tinta ricercata. Incarnato di neve e boccoli di sole spopolano nelle corti, in voga. È un aspetto normale.
Perché sente di stare mentendo a se stessa?
Francesco rinuncia alle bugie del mondo per annunciare la verità di Dio, dell'unico padre che non lo amerà con l'auspicio di ricevere da lui qualcosa in cambio.
Disonora suo padre in pubblica piazza. Si denuda in pubblica piazza. Gridano allo scandalo, alla follia, alla degenerazione dei costumi, all'onta macchiante la famiglia di Pietro di Bernardone. Gorgogliano risate dalla gola di Francesco. Lui saltella e piroetta e ruota e capitombola e ride, ride, ride.
Dispiega le ali e s'erge in volo.
Il cuore di Chiara, estatico, rimbomba all'unisono con quello di lui.
Vola tu per me.
L'inverno attutisce i rumori, li ovatta nella bambagia di nuvole occultanti un sole scialbo, svigorito. L'inverno amputa le emozioni, le ingrigisce, smorte, fiacche, pigiando il mondo in casa e comprimendo le persone in strati di abiti che le portano a somigliare a buffe cipolle, intabarrati dietro mantelli e sciarpe e cappelli.
Febbraio, mese di sporadiche nevicate e cieli smorti.
Rannicchiata sul davanzale della finestra, Chiara disegna pigramente, svogliata, scarabocchi sul vetro, alitandoci sopra, il dito suo stilo.
La noia le scivola addosso. Sbuffa, un palmo piedistallo del mento. Le richieste alla sua mano fioccano più dei fiocchi volteggianti nell'etere saturo di neve e gelo pungente. Che mortorio. Mai nulla di originale.
Attende trepidante notizie su Francesco. Dopo il rinnego dei beni paterni s'è avviato in direzione di Gubbio, dove un vecchio compagno di ventura, nonché parente del vescovo Guido, Federico Spadalonga, l'ha ospitato nella sua dimora. Dicono che la mattina successiva abbia bussato all'uscio d'un monastero di benedettini dove sarebbe stato assunto come rimpiazzo temporaneo dello sguattero.
Si vocifera addirittura che, durante il tragitto, la neve crocchiante e i suoi piedi nudi che ci affondavano soffici, sia incappato in un manipolo di briganti.
«Chi saresti tu?» avrebbero latrato quelli sgherri dai grugni rognosi.
Francesco non conteneva l'euforia. «Io sono l'Araldo del Gran Re!»
Tra ghignanti risatacce, l'Araldo sarebbe stato malmenato, pestato a sangue, lasciato agonizzante della neve. Chiara è impallidita, trasecolando per lo spavento, quando le hanno riportato l'ultimo succulento pettegolezzo.
Rianimato da un fiotto di sole, il disgelo sgocciolante intorno a lui, Francesco si sarebbe scrollato di dosso gli acciacchi, arraccando verso Gubbio illividito e infreddolito e un poco frastornato, cantando lodi al Signore.
La brina si cristallizza in ghirigori sui vetri appannati. Nei vicoli grigio pattume si raggruma, indurendosi in insidiose croste.
Ha terminato l'arazzo.
Suo padre si complimenta con lei per il suo evidente talento - laboriosa e mite, eccelsa al telaio, una sposina coi fiocchi! - e gongola su quanto questo comporterà, positivamente, per il suo futuro concupito. Fa sistemare il suo arazzo nel salone principale, sopra la cappa del camino.
Chiara lo contempla, critica, e medita.
In quell'intrico di fili e orli le si dischiude il senso ultimo, folgorandola.
Il paradosso.
Un filo per formare un arazzo. Una nonnulla per perfezionare la completezza di qualcosa. Come un tassello in un mosaico. O una pennellata in un ritratto. Un piccolo per il grande. Un chicco per una distesa di grano. Un seme per un albero.
Uno per molti.
Poco per tutto.
Quale concreto paradosso! Logico nella sua illogicità, una formula nelle equazioni di Dio. L'illimitato si fa limite. Una vergine partorisce. Il Re serve. Attraverso la Morte la Vita sbaraglia la Morte stessa. Un corpo umano, di carne e sangue e nervi, è assiso nei cieli, tra gli angeli, alla destra del Padre. Un ribaltamento delle convenzioni. A Dio piace sbalordire. Arricchisce i poveri e depone i potenti tracotanti.
Non conosce limite.
Limiti da cui l'uomo è invece circoscritto e che gli ha imposto, per scoprirsi, in questo matrimonio del Tutto col niente e del niente col Tutto, forziere dei tesori, ampolla di creta per il balsamo sublime. L'ha reso povero perché, coi suoi limiti, si sentisse spronato a cercare chi o cosa a limiti non è vincolato. L'illimitato. Lui.
I limiti possono liberare, dunque. Chiara è illuminata.
Basta accettarli. Basta tenere a freno le ali e cessare di sbatterle contro la propria gabbia, una gabbia forgiata dall'uomo. I limiti che ti caratterizzano.
Lei è Chiara, figlia di Favarone di Offreduccio degli Scifi. Nativa di Assisi, fiorente nell'adolescenza. Sagace, istruita, sveglia e testarda. Dolce, spigliata, scaltra, premurosa. Si preoccupa del benessere altrui. È amica di Francesco di Bernardone. È una particella di finito che agogna l'infinito. Non serve a nulla ribellarsi alla propria natura, sognare d'essere altro, di vivere altrove, d'indossare differenti panni.
Questo, quest'amalgama mista e cangiante, questa miscellanea di temperamenti e sogni e forza latente. Questo Dio l'ha creata.
Questo l'ha voluta.
Un filo nell'arazzo. Un nodo nel ricamo.
Si marcia in direzione di Dio sulle gambe che lui ha plasmato per te.
Non si chiede in prestito il destino di qualcun'altro.
Ci pensa solo una volta, una tentazione effimera, a come deve essere.
A come ci dovrebbe sentire a... a indugiare nei piaceri carnali, a liquefarsi nell'abbraccio protettivo e muscoloso e forzuto di un uomo, a baciare.
Baciare sulla bocca, addentrare la lingua nella commessura, schiudere i denti e duellare, lingua contro lingua, vischiosa saliva nel palato e una passione infiammante i lombi, saettante nelle vene, surriscaldante l'atmosfera.
Dev'essere simile a un fumo che intossica, lo paragona Chiara, le sorelle che l'attorniano a letto, dormienti, in questa nottata di pensieri girovaghi.
Prova a immaginarlo. Serra gli occhi. Il cuore martellante nel petto, i sensi vorticanti, all'erta, i muscoli tesi negli spasmi come corde d'arco pronte a scoccare, accanendosi sulla preda con ferina voracità. Gli istinti primordiali, animaleschi che acquisiscono il sopravvento, assoggettando la mente, dominando sulle membra, sugli arti in un'incostante, movimentata, sfrenata danza. Bacini cozzanti, labbra che tracciano parole, il sangue che affluisce alle gote, incendiandole.
Cosa si prova a baciare?
Quale bufera di sentimenti, quali fremiti sconvolgono il tuo corpo? Quali pulsazioni predominano mentre i visi si avvicinano, frontali, allineati e le labbra si sfiorano, premute le une contro le altre, quasi il tuo amante bramasse di risucchiarti il fiato dai polmoni e privarti delle forze, della dignità, del pudore con cui sopravvivere?
Come ci si sente a boccheggiare, spompato, esaurito, le parole seccate sulla lingua e il cervello completamente fuso, prosciugato del senno?
I cantanti e i poeti esaltano l'amore, l'amplesso carnale. Magnificano l'atto e l'inventiva è potente sulle metafore. È una metamorfosi, un'estasi mistica, un ratto delle proprie facoltà. Ti estranei e non esiste più nulla all'infuori del labirinto di cavità e rientranze, di pelli strofinanti su altre pelli, di brividi e languore. Parafrasano in versi e strofe l'atterraggio nelle braccia di lei, il suo seno ingrossato, l'indolenza successiva all'accoppiamento, la verga ritta, che penetra e rivendica e perfora, la lacerazione membranosa, quello schiocco schizzante rivoli di sangue sulle lenzuola, il pigro, caldo, soffice torpore che anticipa un sonno stremato dopo tanto ardore.
Uomini che montano, che incalzano coi fianchi, che placcano contro il torace o il materasso, obbligando, forzando. Violentando.
Chiara n'è nauseata.
Ma un bacio, un bacio innocente, casto, un bacio rubato...
Istintivamente le sale la mano alle labbra e i polpastrelli percorrono il contorno rosso e carnoso, il bocciolo delle sue labbra. Sussulta. Le labbra di un uomo a posarsi contro le sue, a espettorarle il respiro, saggiare il nettare che spilla...
Le labbra di... di...
Scende la mano, furtiva, si infila nella camicia da notte e palpeggia il seno immaturo, strizza e titilla i capezzoli, inturgidendoli. Emette un gemito gutturale, compiaciuto. Cala più in basso, le dita si arricciano, voluttuose, sulla prominenza dell'inguine, quella cima ammantata di peluria rada, nebbia dorata e fosca. Circoscrivono con lentezza lo spiraglio, s'insinuano, lì dentro, dove si annida...
No! Chiara ritrae la mano, sconcertata da se stessa, balza giù dal letto e si precipita dinanzi al crocifisso, cadendo in ginocchio, lacrime sgorganti.
Cosa stava facendo?! A quale rozzo peccato stava cedendo?! La libidine, la libidine irrefrenabile, volgare, incivile, quella fame che accomuna l'uomo alle belve. Si prostra, i singhiozzi che le occludono la gola. Non le hanno insegnato a formulare certi profani, laidi pensieri. Mai! Dev'essere stato il diavolo.
Il diavolo sghignazzante.
Chiara si prostra, fronte a terra, le spalle sussultanti. Stava per concedersi al Signore delle Mosche, disonorandosi così! Solo per insulse fantasie!
«Perdonami...»
Quando riappone lo sguardo sul crocifisso, l'alone delle candele lo circonfonde.
Gesù. L'uomo completo, l'uomo che non la tradirà mai, abusando del suo corpo come una bambolina che, una volta stufi del gioco, si abbandona a deperirsi con brutale indifferenza, il legno infranto, schegge dell'amore svanito disseminate ovunque.
Gesù l'ama per quello che è.
Chiara si accovaccia in ginocchio, stendendo le braccia, proponendosi a lui.
In un mondo dove persino il tuo corpo equivale a una merce, quale moneta vale di più, pregiata, unica, della propria virtù?
È tutto quello che può offrire.
La tentazione si dissolve. Il miraggio di Francesco che le scosta i capelli, le inclina il collo, godendo della sua bellezza, assorbendo la sua luce, bevendo il suo respiro, si scheggia, disgregandosi nei fondali della sua mente.
Resiste solo Dio.
Chiara si rilassa, inspira. Il cuore ha placato il suo tumulto insistente.
D'ora in poi si renderà giglio aulente, giardino chiuso, fontana sigillata, roccaforte inviolabile, radura incontaminata, fonte pura, fresca e dissetante, colonna d'avorio, anfora d'alabastro che, frantumata, inonderà unguenti, esalerà essenze disorientanti, soavi. Spillerà mirra e nardo, si tramuterà in uno stelo forte, radici radicate, profonde. Una pianticella che le avversità non abbatteranno, le cui fronde non si spezzeranno, ma crescerà, crescerà, da virgulto a quercia vetusta, secolare.
Innaffiata da Francesco.
«A te la mia verginità, oh Signore.» dichiara Chiara, solennemente.
Allo sposo il tesoro prezioso della sposa.
«Chiara?» In un sibilo di cortine del baldacchino e anelli tirati sulle stanghe, Caterina e Beatrice, assonnate, accorrono da lei, la sostengono, confuse dalla sorella in orazione a quest'ora tarda. «Chiara, che ti prende?»
Si immerge nel loro abbraccio, trasfigurata da una nuova luce.
«Rinfrancatemi con pomi sorelle, poiché sono malata d'amore...»
Siede su seggiola bassa, dai braccioli a voluta artificiosa, il mento sostenuto nell'incavo del palmo, il gomito svogliatamente poggiante sul legno. Guarda l'arazzo, soffermandosi sui contorni, sul manto serico del liocorno, e rivanga col pensiero ai momenti in cui lo ha composto, dal primo abbozzo di vegetali, paesaggio e alberi fino a quella sera in cui, sola, ha terminato con gli ultimi fili di seta il volto della dama.
Di ogni segno, di ogni colore, le pare d'aver afferrato il significato - il significato vero, intrinsenco - soltanto dopo. Dopo. L'amarezza del dopo. Dona un senso di ritardo. E il senso di tutta la composizione le è sovvenuto solo alla fine, quel mattino in cui negli occhi di Francesco ha scorto i suoi stessi occhi. Gli occhi del liocorno.
Ma lei, che cos'ha disegnato nell'arazzo? Cos'ha impresso? Il suo destino? O il suo desiderio? E qual'è il suo destino? Cosa cova per lei il futuro? Cos'ha pianificato per lei la Provvidenza? Appassire in casa, ventre da inseminare e grembo per generare nidiate di eredi e cadetti? O la libertà sconfinata di Francesco? Desidera questo? Arruolarsi nelle milizie dell'Amore, militare con Francesco nei ranghi dell'Amore puro, certo, indistruttibile, che niente e nessuno corroderà, ossiderà e batterà?
Certo qualcosa dentro di lei deve aver guidato la mano, pilotandola nel dedalo di fili e intrecci. Qualcosa che deve provenire da un recesso remoto, oltre la sua coscienza.
Oltre la realtà sensibile.
Non si tratta del destino. Forse l'attesa. Il desiderio che qualcosa accada, che un ingranaggio si azioni e metta in movimento l'intero macchinario della sua esistenza, che un evento irrompa e sconvolga e infranga i confini dell'isola di solitudine, gettando un ponte tra lei e la vita. La vita. La vita dei poveri. Del mondo.
La vita di Francesco e dei suoi.
Ora sa che cosa significava il suo sguardo concentrato negli occhi del liocorno.
La chiama, la provoca, la stuzzica a cogliere l'occasione propizia.
È una tacita sfida.
Francesco le sta aprendo uno spiraglio. Ci entrerai tu, Chiara?
Oh, ci si catapulterà.
«Riponi la tua fiducia nella croce.» le amministra Francesco nei loro colloqui clandestini, sul limitare del bosco. Lui scortato dai alcuni suoi frati, lei dalle sue migliori amiche. «Appendici ad essa te stessa. Serba questa vita per la ricompensa dell'avvenire. A piccoli passi. Comincia con ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E, all'improvviso, ti sorprenderai a compiere l'impossibile.»
Francesco sta tirando il suo filo. Dolcemente. È il legno alimentante il fuoco che la consuma. La combustione dell'amore.
«Un uccello, quando spicca il primo volo.» mormora Chiara, il sole indorante cespi di rose che s'avvinghiano intorno a un rudere romano divelto nelle sterpaglie. «Teme il vuoto. Ci balza dentro e scopre di saper fluttuare nell'aria, sostenuto dal vento.»
«Dio.»
Il Dio dell'impossibile.
«Sono pronta Francesco.» dichiara con innata sicurezza. «Sono disposta a compiere quel tuffo nel vuoto, a immergermi nell'abisso dell'amore, ad anteporre Lui a tutto.»
Un sorrisetto gli arriccia le labbra. L'aveva intuito. «A tutto?»
«Completamente a tutto.»
Rinunciare.
Azzardarsi a compiere il salto nel vuoto.
Anche la vita e la morte sono due facce della stessa medaglia. La medaglia del paradosso. Si vive per morire. Si muore per accedere a un'altra vita. Certi vivono morendo dentro, l'oasi dell'anima appassisce, trascurata, inaridita.
Si oltrepassa un varco qualunque scelta si intraprenda.
E Chiara la intraprende la sua scelta. Quella libertà, quelle rotte divine e inesplicabili, quel fruscio di ali e piume, va conquistata. Con il coraggio, con lo strappo, con la propria volontà. O ci si schianterà al suolo a furia di dimenare le ali senza una meta prefissata, senza uno scopo. Bisogna rivendicare la propria libertà agendo.
Ne avverte l'esigenza.
Ne avverte la necessità corporale e spirituale.
Sgombera la porta dei morti, un nome profetico, ostruita da calcinacci, travi, catene, mattoni. Il palo imponente, pesante, è rimosso. Il chiavistello scardinato.
La porta cede. In un impeto, con una giravolta nel cuore, Chiara è fuori, lo zefiro di questa notte di marzo rivoluzionante la sua vita, riscrivente il suo destino, che le azzanna le guance. Frizzante arietta primaverile. Soffio spirato dalle labbra di Dio.
Il mantello le volteggia sulle spalle, lo strascico si gonfia nella foga della corsa spericolata. Le babucce puntellate di perline incedono sull'acciottolato. La chioma, imbrigliata in una ragnatela preziosa di retine, le sobbalza sulle spalle. Chiara respira, respira forse per la prima volta, i polmoni ardenti, scoppianti. Sta per nascere in un mondo nuovo, un mondo che riformerà da capo. Partorita dalla fede, le sue doglie stanno in questa fuga segreta, in questa trasgressione. In questa scommessa.
No. Con Dio non si parla di scommesse.
L'amore non va in cerca di spiegazioni e di garanzie, non si ferma di fronte all'assurdità e al paradosso, perché sa che nel sepolcro sta germinando la vita. L'amore infrange barriere, demolisce ponti, abbatte muraglie.
Spezza catene. Apre gabbie.
Ha liberato i suoi uccelli prima di scappare, baciandoli uno per uno mentre spiccavano il volo dalle sue mani. Michele. Gabriele. Raffaele. Riuniti ai loro angeli.
La chiave per la nostra libertà risiede nelle nostre scelte.
Chiara, questo ventotto marzo milleduecentoundici, ha scelto e non se ne pente.
Ha scelto per l'eternità.
L'incenso intontisce, pervade la cappella e ottunde i sensi, perturbante. L'icona di Nostra Signora sfarfalla di bagliori dorati. Ultraterreno faro nell'oceano di torce.
Chiara scioglie il velo dei suoi capelli e scioglie di velo di maschere e iniquità. La sua vita, adesso, subisce un taglio netto, proprio come le sue ciocche, recise a sforbiciate ticchettanti da Francesco. Tappezzano la ruvida pietra d'imbrogli dorati.
Boccoli volano, si librano, atterrano placidamente, cospargendo il nero fumo.
Presto sorgerà l'aurora caliginosa, dalle brume lattescenti, lacrimanti rugiada.
Chiara contravviene alle norme, ai dettami, ai precetti e alle leggi.
La sua evasione scatenerà delle ripercussioni, fuor da ogni dubbio. Ma ha scelto. Ha scardinato lo sportello della gabbia. Francesco le prende la ciocca, la soppesa, leggera e pura tra le sue mani callose e spellate, dissonante quasi. Le forbici calano, infieriscono, troncando quel viluppo di fibre, tonsurandola.
Tic. Tic. Tic.
Rarefatta, dai pensieri trasparenti e cristallini, la vecchia Chiara è morta quando, questa notte di vittoria, di conquista, di traguardo, ha varcato la soglia di Santa Maria degli Angeli affiancata da un corteo di fiaccole ardenti.
I ripensamenti costituiscono il tarlo degli imbelli.
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