Concime
Assisi è stupenda come l'aveva cristallizzata nella memoria.
Ma Chiara non può esplorarla appieno. La sua rigida, stringata educazione è impartita soprattutto al telaio. Imprigionata nelle camere private di sua madre, quella sequela di appartamenti e corridoi, orla ettari di biancheria.
Tovaglie d'altare, lenzuola, arazzi, stemmi araldici, blasoni, vesti e calzoni.
Annetta si complimenta per la sua bravura, per i suoi punti allineati e precisi e affligge la piccola Beatrice, coi punti storti e le ditate impresse sulla stoffa che sta bordando.
Il ritmo cadenzato del telaio scandisce il tempo nella stanza della loro madre. È una camera da letto spaziosa, soleggiata, con i tendaggi candidi sospinti dalla brezza e un'icona di Nostra Signora riverita con devozione. Ben arredata, il marrone scuro dei mobili, la raffinatezza degli intarsi, contrasta con il biancore rarefatto delle tende, delle cortine fini drappeggianti il baldacchino, del giglio ritto nel suo vaso smaltato.
Chiara fila, le donne bisticciano e confabulano, un rettangolo di luce si proietta dalla balconata che si affaccia sul mondo. Il suo sguardo vaga, ramingo, sulle colline ondulate e dolci, sulla leggerezza aerea del paesaggio, sulla foschia argentea degli ulivi, sui tetti arroventati e bruniti dal sole d'Assisi. Sui campanili che perforano i banchi di nuvole. Sulle piazze affollate. Sulle pesti strepitanti in strada.
Desidera altro da questa vita.
Desidera qualcos'altro di diverso da questa casa.
Anche il respiro affannato di monelli che si azzuffano, infangati. Anche i pellegrinaggi mirabolanti e rischiosi. Anche gli accattoni ossuti accampati ai loro bivacchi.
Occhi che ti si piantano dentro, immensi, occhi che non si accontentano.
Che scrutano nei recessi del tuo animo e scompigliano la serenità.
Fermati. La tua moneta non mi basta. Sapessi quante ne ammonticchio ogni giorno. Dammi di più. Dammi il tuo conforto. Non ignorarmi. Non sorpassarmi.
Io esisto.
E lei? Esiste o è solo il simulacro cavo d'un'esistenza che attende d'essere travasata da altri? O magari attende di traboccare e riversarsi all'esterno, inondando il mondo?
Le tende turbinano, lo spicchio di cielo abbaglia e Chiara ricama.
Se tralci di vite che la incatenano a una vita programmata, a una farsa, o spirali di lussureggiante libertà, se lo domanda pure lei.
Le stelle congiurano contro di lei.
Avverte lo sguardo viscido dello zio Monaldo strisciarle addosso.
Una mattina le intima di fermarsi mentre sta percorrendo uno dei tanti camminamenti tra i tetti e le terrazze del palazzo. Chiara si paralizza mentre la scuta, le aggiusta la postura e pialla le grinze della tunica, scoprendo in risalto i suoi seni acerbi, in boccio.
«Hai le forme di una donna ormai, mostrale con orgoglio.»
Le forme di una donna.
A Chiara si accappona la pelle, il sangue drenato dall'espressione smorta. Forme appaganti gli appetiti brutali d'un uomo, soddisfacenti i suoi animaleschi, primordiali impulsi. L'ardore che si rizza in mezzo alle gambe, quell'arnese bulboso, la tortura del parto, la condanna da scontare...
La nostra pena, nei secoli dei secoli.
Monaldo le orbita intorno, ispezionandola, correggendola. Da quando è diventato più bacchettone di Annetta? È pignolo, ma sul lustro e l'onore del casato. Postura, eleganza e galateo interessano le donnicciole e le loro frivolezze. Non certo un guerriero come lui, un uomo nel pieno senso dell'accezione. Ma oggi pretende che stia dritta, con lo sguardo basso e remissivo, le mani giunte, le prime rotondità formose da mettere in mostra. Pretende che la donna prenda il sopravvento.
La donna. La ragazzina va soppressa.
I polpastrelli di lui scivolano sulla sua scollatura, ornata di ghirigori vegetali, roselline e foglioline, da cui fuoriescono sbuffi dell'ariosa sottoveste in lino coi lacci d'argento. L'assale un conato di disgusto. Quel suo sguardo sconcio...
Prima che Chiara possa respingerlo, lui la piglia per il polso, una stretta ferrea.
«Sanguini con regolarità?» le sussurra, il fiato pestilenziale a pochi centimetri dal lobo. «È un'informazione vitale. Una moglie fertile è ambita da molti.»
Che gli schiatti il fegato! Chiara si svincola, il polso marchiato dall'intensità di lui, rosse impronte di dita. «Ci tenete a spiarmi persino nei miei panni mensili adesso?!»
Monaldo s'incupisce. Non si aspettava un'opposizione. «Tu piccola, insolent-»
Chiara schiva il suo schiaffo in picchiata, sgusciando lontano da lui, il cuore imbizzarrito contro la cassa toracica.
Si barrica in camera, incredula, basita, spaventata, tanto spaventata. La stava esaminando come una vacca al macello, come una giumenta da riproduzione all'asta del mercato, su cui si scommette il prezzo più elevato. Si sente diffamata, sotto il torchio del suo sguardo. Un cappio che la strangola e la strangola...
Matrimonio.
Una liberazione, nella teoria.
Il crocifisso affisso sopra il suo inginocchiato spalanca le braccia, invitandola a sfogare con lui le frustrazioni che l'opprimono. Chiara si traccia il segno della croce e prega, prega, prega. I sassolini e le ciliegie non la facilitano più nel conteggio. È matura ormai, in termini di corpo e mente. È pronta per spiccare il volo.
Sarebbe pronta.
Le stanno tarpando le ali.
I suoi uccelli sembrano gli unici che la capiscono. Trattenuti in una gabbia, proprio come lei, impossibilitati a librarsi in aria. Dovrebbe liberarli? Se ami qualcuno, asseriscono i saggi, lascialo libero. Dopo, però, con chi si diletterebbe a parlare, tolto Gesù ovviamente? Le colombe sono le sue confidenti più care.
Si corteggiano dietro le sbarre, piluccando il mangime con cui Chiara le rimpinza. Nelle giornate belle riesce a inserire anche qualche semino di ciliegia.
«Dev'essere degradante.» Ha sganciato la voliera dalla nicchia sopra il vano della finestra, deponendola sopra un tavolo, le braccia incrociate e appiattite sul legno, meditabonda. «Dipendere da un padrone.»
Dio non soggioga e intimorisce, Dio non castiga e minaccia. Si comporta da padre, il suo amore smisurato e appagante. Il vero padrone dell'uomo è il vizio, che lo asservisce ai suoi volubili capricci. Il vizio tranello del Demonio. Cosa ci vorrebbe perché i suoi parenti si ispirassero un po' di più all'indole del Signore?
Magnanimo, amorevole, lento nell'ira, immediato nel perdono.
Regnerebbe la concordia tra le mura di casa?
«Deve sposarsi!»
«Sta temporeggiando! Non ci arrivate?»
«Alla sua età le ragazze stanno alla finestra a pettinarsi e farsi belle, a stordire i giovanotti con il loro fascino. Lei si tappa in casa!»
«Ha rifiutato dozzine di pretendenti!»
«Qui l'unione deve uscirne vantaggiosa. Ignoriamo i suoi piagnistei! Il marito dev'essere ricco, ricco sfondato. D'illustre ascendenza e d'impeccabile nomea.»
«Molti ci stimano a Perugia. Sarebbe apprezzabile considerare un Perugino...»
«Chiara potrebbe maritarsi anche con un Genovese dal cervello ammuffito d'alghe, per quel che mi riguarda. Basta che la pianti con le sue buffonate di religione!»
«Dobbiamo estirparle quel tarlo delle preghiere e della carità.»
«Ti sei dimostrato troppo indulgente con Ortolana Favarone! Le hai consentito libera gestione nell'educazione delle tue figlie e guarda che sgorbio ti ritrovi! Smancerie di santi e Madonne e torme di meschini approfittatori alla porta!»
«Un marito la guarirà da queste sue follie.»
La libertà di una donna corrisponde alle dimensioni del suo ricamo.
Peccato che siano gli uomini a manovrare i fili.
Una notte, non riuscendo a dormire, fa scivolare il paletto sbarrante le imposte e, nel buio illuminato di fiaccole e torce, nota un'agitazione frenetica scendere dalle viuzze alte della città e approssimarsi al palazzo.
Chiara, furtiva, si acquatta dietro una tenda, notando una processione di balordi, ragazzacci che ridono senza ritegno. Ubriachi fradici, barcollanti e stonanti in osceni canti, lazzi e sollazzi, volano insulti e tuffano i visi rubicondi di vino negli scolli generosi delle cameriere a cui s'accompagnano. Donnone corpulente, dall'atteggiamento promiscuo e senza alcun rimorso per la loro virtù mercificata.
Palpano glutei sodi, idolatrano seni pomposi. Uno, in calzamaglia gialla abbinata a una giubba verde mela, spintona una ragazza contro una parete, estranendo il fallo, accerchiandola con le cosce e incalzandola con ardore da dietro.
«Attento Giocondo!» lo mette in guardia, giocoso, uno, incappucciato dalla notte e Chiara non riesce a distinguere le sue fattezze. Dalla voce propenderebbe per Silvestro, il canonico di San Rufino, leggermente più grande della sua scalcagnata comitiva. La sua interpretazione del voto di castità dev'essere parecchio rilassata e flessibile. «Rischi un indigestione! Quella è una porzione abbondante!»
«Succulenta.» L'amico non si pone tante grane e si avvinghia alla ragazza, affondando la verga nella sua adipe prosperosa. «Ecco cos'è.»
«Ma se prima ti sei ingozzato con tre polli allo spiedo!» lo canzona un'altro. Suo cugino Rufino? Di nuovo a spassarselo con questa banda di babbuini? «Ti è risalito l'appetito? O è la carne che è debole e cede alle lusinghe di altra carne...»
«Ah, piantala Rufino!»
«Fossi in te lo prenderei in parola Rufino.» replica qualcun'altro. «Potrebbe piantarti la sua spada micidiale se continui a stuzzicarlo.»
«Basta che prima non l'abbia piantata nei polli!»
Giù di sguaiate risate. Il lezzo del vino è così pungente da far lacrimare gli occhi fin quassù. Pervertiti. Ma non hanno niente di meglio con cui divertirsi?
«Tranquillo, le uniche prede che Giocondo predilige sono quelle appiedate, con due poppe colossali e una fessura da scassinare.»
A Chiara si stanno ingarbugliando le viscere.
«Mi deludi Giocondo.» ribecca Rufino, con finta altezzosità. «Potevamo derubare quel taccagno di mio padre!»
Altre risate da sbronzi. Certi ruzzolano al suolo, suscitando un'ondata ancora più incontrollabile. I ragazzi ridono e si deridono, spalleggiati dalle gentili bellezze. L'allegria dura meno del previsto. Manca qualcuno. È rimasto indietro. La gioventù spericolata d'Assisi si guarda intorno, spaesata. Cercano lo smarrito.
Chiara agguanta le tende, la curiosità mordente. Chi manca?
«Francesco!» starnazzano gli amici, vacillanti dalla sbornia. «Francesco? Dove sei?»
Un'ombra risalta nello sprazzo di muro indorato dal bagliore d'una torcia. La brigata accorre a salutarlo, asfissiandolo di domande. Dove si era cacciato? Era stato trattenuto in taverna? Come mai è ancora sobrio? Questa notte è consacrata alla spensieratezza della gioventù, dovrebbe goderne! Spremerne i frutti!
Chiara è costernata. Si protende un poco in avanti, la nuca bionda baciata dall'alone lunare. Quel Francesco? Francesco, il viziato primogenito di Pietro di Bernardone? Francesco, consumato da un fuoco irruente, che primeggia sempre su chiunque in una competizione di vanità, spendaccione più del lecito?
Sì, quel Francesco. Quell'esemplare.
Le si buca lo stomaco.
«Perdonate.» si rivolge agli amici. «Ero perso nelle mie fantasie.»
Bernardo - il tono baritonale e squillante di Bernardo di Quintavalle è inconfondibile - l'arpiona per un braccio, battendogli una pacca sul collo.
«Dovresti più fantasticare sul colle madido di rugiada che cela una donna.»
Silvestro è inebriato. «Poesia sublime Bernardo! Sublime!»
«Salmodio verità, io.» L'amico n'è grato. Si regge malamente in piedi, ma n'è grato.
Giocondo, stufo della cavalcata, preferisce strizzare il capezzolo turgido e roseo della sua concupita, estratto dal corpetto. «Tra le cosce custodiscono l'Eden!»
Francesco, per un istante passeggero, pare offeso. «Un cavaliere non lenisce mai l'onore d'una donzella, povera o principessa che essa sia!»
Pietro Cattani, finora rimasto in disparte, lancia la sfida. «Cantaci qualcosa dalle arie cavalleresche. Orsù, Messer Francesco, aspettiamo trepidanti.»
Lo sfidante arrossisce nella pozza d'argento lunare. «Veramente...»
«Veramente non ti starai tirando indietro!»
«Coraggio Francesco, i tuoi sono gorgheggi da usignolo!»
«Esatto! Canta!»
«In caso contrario pappamolle!»
«Pappamolle!» lo pungolano gli amici in coro. «Pappamolle! Pappamolle!»
«Va bene, va bene, ma calmatevi o provocherete una sommossa!»
Incitato, si schiarisce la gola. È imbarazzo quello che gli impopora le guance? Francesco di Bernardone imbarazzato. Insolito. Le comari berciano che il fallimento dell'impresa nelle Puglie gli abbia squagliato qualche rotella. Chiara non ci crede.
«Qui bibit, dormit.» intona, soave, in latino, parodia degli altalenanti trilli di ugola durante le letture sacre. «Qui dormit, non peccat. Qui non peccat, sanctus est. Ergo, qui bibit, sanctus est!»
Latino elementare. Chiara non n'è stupita.
Tuttavia la sua voce... dolce, tumultuosa, vivace. Una commistione di sensazioni le si contorce nel petto. La brigata se la svigna nelle tenebre, cantarellando, sghignazzando, sgolandosi bottiglie e boccali.
Lei sosta lì, immobile, le guance ardenti, costernata.
Francesco ha una voce melodiosa e nessuno gliel'aveva mai detto.
Fila mattino, pomeriggio e sera, incollata a quello sgabello, lo schianto dei macchinari sul telaio scandisce lo scorrere del tempo, il mutare della luce, la quale va scolorendosi con l'incombere del tramonto infuocato.
Chiara intrica e districa gli orli, le frange e i ricami, rifinisce e disfa la tramatura, ordisce e trafora con l'ago le sue elaborate creazioni. L'immaginazione consiste nella sua unica scappatoia, una consolazione da quella monotonia.
Potrebbe imbarcarsi di nascosto su battello diretto in Terra Santa, attraversare i luoghi del Vangelo insanguinati dalle guerre, travestita da uomo! Potrebbe reinventarsi una nuova identità, una nuova storia, piantare nuove radici! Non li sopporta più queste faccende donnesche, interminabili e noiose.
Svuotano la voglia, fiaccano la curiosità, l'emozione!
Esigono che si sposi.
Sbuffa, pungendo il contorno d'un mazzolin di lavanda sul suo canovaccio circolare, imbucando il filo, riaffiorante subito dopo.
Riserva solo questo la vita? La sua prospettiva di donna? Piuttosto ristretta.
Seriamente si riconduce tutto solo a quello scopo? Riprodursi, perpetuare la discendenza, arginare la progressiva avanzata del Tempo, che a ogni rintocco di campana guadagna terreno.
Un ingranaggio incriccato nel meccanismo.
Magari... magari potrebbe dedicarsi alla santità.
Isolarsi dal mondo in un eremo, in pertugi e grotte e anfratti, devolversi alla contemplazione perenne, mortificare il suo corpo baro con cilici e flagelli, prendendo esempio dalle sante eroiche delle storie. Ah, possedere nervi d'acciaio come i loro per resistere a quelle privazioni! Sante dalla favella mistica, lingue emissarie dello Spirito Santo. Sante che levitano e digiunano a pane e acqua, che si coprono solo dei loro capelli e che si cibano delle ostie amministrate in comunioni mistiche dagli angeli.
Un qualche ruolo giocherà in questa vita, no?
È piacevole ricredersi.
In paese possono congetturare e sparlare fino a guastarsi i denti, ma Chiara scopre in Francesco non un pazzo squinternato, che dilapida il patrimonio paterno a orde di supplichevoli mendicanti, bensì un'animo sensibile, delicato, rinnovato.
Gli è stato tolto il velo dagli occhi e si rivede nella ragazzina refrattaria a procacciar marito degli Scifi. I loro sentieri si fondono, i loro occhi si ritrovano.
L'amore per l'uomo è un sentimento inspiegabile.
Chiara ama Francesco, ma non dell'amore voluttuoso e incostante della carne. La carne costituisce solo la custodia. Il tesoro risiede all'interno. Francesco potrebbe perdere il suo corpo e rinnegare il suo nome, ma Chiara continuerebbe a bruciare di quest'amore leggiadro e fuori da ogni classifica. Si classifica l'amore? Hanno concepito dei gradi? Una scala per ascendere alla cima?
E cosa dimora sulla cima dell'amore se non Dio? Ecco, Francesco è la sua scala, la sua strada, la sorgente che la disseta durante l'ardua scalata, le bacche che placano i brontolii del suo stomaco, il sole che la riscalda e la luna che la veglia.
In Dio consiste la meta, la ricompensa.
Insieme, di nascosto dai parenti di lei, esplorano la campagna, un paradiso ricreato in terra, passeggiano lungo le sponde dei fiumi sinuosi, portano comforto e sollievo agli sciagurati del lebbrosario abbarbicato su una collina non tanto distante.
Bende e impiastri, intrugli e lozioni. Chiara le spalma sulle dita monche di un appestato dal naso cascato, ridotto a due fessure, la voce rauca, sibilante tra i denti marci. Francesco sta lavando in una tinozza un suo compare dalla schiena straziata dalle ulcere, gorghi sanguinati, butteranti quanto crateri.
«L'avevi mai visto prima?» gli pone lei, curiosa, intingendo le dita nell'untuosa sostanza per far seccare le croste. «Un lebbroso intendo. Lo so che ne provavi una fifa tremenda, ma pensavo-»
«Spesso li guardavo.» La risposta di Francesco, immediata, la spiazza. «Ma non li vedevo veramente.»
Guardare
Vedere
Spesso li guardo, ma non li vedo.
Che differenza esiste tra i due? Guardare e vedere.
Si guarda tramite gli occhi, ma non si vede che con l'ausilio del cuore.
Gli occhi sono inutili quindi? Meri specchi del mondo che circonda?
I poeti decantano della freccia d'amore dardeggiata dagli occhi, uno strale scoccata dal cuore, a cui gli occhi sono asserviti, suoi arcieri. L'amore saetta dagli occhi e colpisce il bersaglio del cuore altrui, trafigge il poeta, lo trivella in una pioggia di casti, ritrosi sguardi incrociati per puro caso o per adempimento dei piani celesti.
Negli occhi possono celarsi mondi, sfere e orbite e galassie. Possono rintanarsi storie e sogni e versi di parole mai dette, che non ci si crede abbastanza coraggiosi per pronunciare a voce alta e chiara e sancire così nuovi capisaldi nella vita.
Gli occhi della vita...
Occhi grati per la vita, che ne sanno declamare la bellezza, le luci e le ombre, le passionali, meravigliose contraddizioni. Per i quali, nel loro piccolo, ogni giorno rappresenta un dono e un'opportunità, una corda tesa al finito per scalare fino alle vette dell'infinito. Infinito. Dio. Il pilastro dell'esistenza. Occhi che si abbassano alla terra per scorgerci il cielo. Chi possiede magici occhi così? Chi?
I poveri.
Inseguono un'avvenire che nessuno vede, si aggrappano con fede al futuro e percorrono le scale dell'anima. Soffrono penuria di tutto, tranne che della fede in Dio che assicura il domani, che scandisce i giorni e riassume i secoli sull'abaco del Tempo. Dio è la loro certezza, il loro baluardo. Brandendo l'immensità della povertà di Dio, di un Dio che s'è uniformato a loro, mimetizzato tra di loro, cosa li potrà mai turbare? Magari la fede altrui fosse granitica e solida quanto quella dei poveri!
Chiara si rammarica di non poter contare su una fede incrollabile come la loro.
Loro sanno che Dio c'è e lo vedono e gli rendono grazie, onore e gloria. C'è perché ha creato la piccolezza, il minimo, il minuscolo, il misero, il becero, il reietto, l'evitato. Le briciole. Sono i frammenti di tenerezza, di amore e di pane. Poco impasto e poche gocce e il miracolo si compie. L'Eucarestia.
Cos'è più deperibile di una boccone di pane? Quanto è facile rovesciare un calice, il vino che spilla e impregna la tovaglia?
Basta un minuto, una distrazione, un goffo movimento.
Eppure Dio si manifesta, esposto, vulnerabile, nudo, povero.
In quel pane. In quel vino.
Il più parco, essenziale nutrimento dell'uomo. Alla base, ai piedi. Calpestato, sprecato, insultato da quei piedi. Spezzato e percosso.
Guardato, come un relitto che s'incaglia, lentamente reclamato dal mare, eroso e corroso dalla salsedine, dai cirripedi. Dissolto. Sbiadito.
Un povero altro non è se non il relitto d'un uomo alla deriva nell'esistenza?
La carcassa spolpata delle apparenze.
È guardato, calcolato, se si è clementi tollerato.
Mai visto.
E nonostante le vessazioni, l'indifferenza, il livore, i pestaggi, gli sputi, le boccacce, conserva la sua fede integra, autentica, ferocemente vera. Ne parlano i suoi occhi. È sufficiente accovacciarsi al suo lato e vedere. Vedere nei recessi, nell'antro del suo cuore. Sondare quegli occhi. Quegli occhi d'uomo. Che non si offuscano per le ansie, le debolezze, le miserie, le tentazioni, le infedeltà, le corruzioni, le sopraffazioni e le ingiustizie. Non li avviluppa la tristezza, l'affanno, la disperazione o lo smarrimento.
Quegli occhi ringraziano - saturi, contenti - ringraziano della misericordia, della benevolenza, della lieta disposizione del Padre che ha concesso un Figlio simile a loro. Un Figlio piagato e tradito, venduto e prevaricato.
Un Figlio povero.
Bisogna sentirsi poveri, riconoscersi poveri, per entrare in simbiosi con l'Altissimo?
«Hai... hai ragione.» replica Chiara con voce incrinata dalla commozione, l'azzurro inumidito di lacrime. Oh Francesco...
La sua anima gemella, entrambi bruciano dello stesso impetuoso fuoco.
L'amore tra parenti è un guinzaglio di sangue e rispetto.
L'amore della carne è un banchetto per soddisfare appetiti e impulsi.
L'amore tra anime è uno specchio. Gli specchi non mentono. Ti riflettono nella tua ammaccata, difettosa, individuale interezza.
E non la ripugnano.
Francesco non solo ha trovato il paradiso in terra, ma l'ha scovato nel cuore di ogni uomo.
Sgranocchiano ciliegie, gambe a ciondoloni su un muricciolo scrostato, uno di quelli eretti a supporto dei terrapieni negli uliveti. Chiara succhia la polpa, preserva il nocciolo. Avrà smesso di memorizzare il numero di preghiere recitate, ma ha ammucchiato, col tempo, una piccola, accattivante collezione di semi.
Intorno a loro si spiega una coltre di papaveri a profusione.
Il cielo, mondo da nuvole, rintrona, al culmine della gradazione di azzurro a cui può giungere. Il sole riscalda. Nella radura gattini randagi si accapigliano a zampate con feroce, adorabile innocenza. Aleggia un trionfo di primavera, un tripudio di speranza.
La fragranza della rinascita, delle possibilità.
Francesco mangiucchia la polpa vermiglia, i lati della bocca pastrocchi rossastri, buffi. Che carino. Chiara arrossisce violentemente quando il suo sguardo s'impunta su di lei, rosicchiante con eleganza. Distoglie l'attenzione, lo stomaco contratto.
«È bello qui.» L'amico inala una boccata d'aria, appagato.
«Sì.» Impacciata - e ne prova vergogna - riappone i suoi occhi nei suoi e la sensazione di appartenenza, di incastro con un pezzo combaciante, di aver incontrato finalmente qualcuno che legga nel pensiero, in totale, genuina, naturale sintonia, riprende a dilagarle nelle vene. «Concordo.»
Smaltiscono la merenda spaparanzati nell'erba, scaglie di luce a pezzare le loro membra pigramente scomposte tra le viole e le campanule.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top