Capitolo 3: Il Desiderio


" Amore e desiderio sono due cose distinte: non tutto ciò che si ama si desidera, né tutto ciò che si desidera si ama "

-Miguel de Cervantes


Una quiete surreale aleggiava tra i soffitti alti della residenza. La notte aveva da poco calato il suo truce sudario sulle campagne londinesi, e una fine pioggia bagnava le terre circostanti.
Donna sedeva in penombra, accanto al fuoco tenue fisso nel camino dell'angusta cucina; rammentava delle graziose tuniche lilla, doni di Rosaline. Lanciò un'occhiata fugace sul cesto dirimpetto ai suoi piedi, il leggero respiro di Winkle era l'unica cosa udibile nella stanza. Teneva il braccio destro accanto al capo, di tanto in tanto mugolava, forse preda di brutti sogni. Il suo respirare era ansante, appena percettibile, le mani paffute stringevano i boccoli argentei con far deciso, mostrando la paura che ancora le scorreva veloce nelle membra. La ferita tra le spalle minute era ancora fresca, puzzava di marcio ed era profonda, come un abisso marino che non ha fondo, luce, vita. Una lieve infezione l'aveva rese febbricitante per due notti intere e Donna, esausta e impaurita per la sua incolumità, le era stata accanto per tutto il tempo come una madre che veglia sui suoi pargoli. Un dottore, però, aveva fatto visita alla residenza scortato da Marchen, il compare di sangue e di vita del Conte: aveva visitato la bambina e rassicurato l'indole malferma di Donna, ammettendo che seppur la situazione fosse fin troppo grave, Winkle ce l'avrebbe fatta nonostante tutto. Una sottile patina vellutata stava di già nascondendo lo storpio laido sulla schiena sottile della piccola, e il medico prescrisse pomate e impacchi naturali da applicare, sulla sbucciatura, almeno tre volte al giorno.
Di Frederick, d'altro canto, nessuna traccia. Non aveva lasciato la sua stanza da quella sera, e né tanto meno aveva richiamato Morgana o la stessa Donna per consumare il suo piccolo pasto quotidiano: il Conte viveva da eremita tra quelle mura da quattro giorni, rinchiuso nel suo stesso silenzio, steso a letto con aria assente senza muovere un muscolo. Aveva rifiutato tutti gli incarichi giunti dal Clan, congedando e non uccidendo i vassalli irritanti inviati da Charles e Gerard.
Donna interruppe il filo di pensieri e fissò a lungo la bambina, coprendo il corpicino con una coperta lanosa. Il suo pianto smorzato, le urla cariche di terrore e disperazione, il sangue che sgorgava dalla pelle scorticata erano memorie fisse nella testa della giovane. Non avrebbe dimenticato facilmente la violenza del Conte su quella bambina così innocua e vivace; una violenza che in fin dei conti, era in parte giustificata.
Un marchio, una dannazione.
Cercò di consolarsi col pensiero che da quel giorno in poi, Winkle, avrebbe vissuto una vita spensierata, tenuta allo scuro di tutto, a partire dalle sue origini benevole e l'amore dei suoi veri genitori, uno cadavere e l'altra fuggitiva. Proprio a causa di ciò, Donna sperò con tutto il cuore ormai andato in frantumi che Winkle non ricordasse mai. Che dimenticasse l'orrore appena vissuto. Lo stesso orrore inflitto dal Clan e dall'austero Sicario, suo nuovo padre, fratello, padrone.
Lilith sedeva dinnanzi a Donna da qualche ora ormai; consumava la sua cena a base di minestra e verdure insipide senza proferire parola, fissando anche lei di tanto in tanto il corpo della pargola. Da quell'episodio, qualcosa era cambiato nell'animo di tutte; qualcosa era andato rotto, seppur in maniera leggera e impercettibile, che si trattasse di fiducia o meno.
Donna ripose il suo lavoro, ripiegando accuratamente le vesti pulite destinate alla bambina. Si avviò fiaccamente verso l'uscita della stanza, ma la voce di Lilith la raggiunse chiusa in un rantolo di preoccupazione.
«Stai andando dal Conte?» mormorò, con ancora il cucchiaio stretto tra le labbra. Donna tenne le braccia tremanti ritte lungo i fianchi e le sue labbra si curvarono in una smorfia di disappunto.
Sapeva ciò che stava facendo, ma non seppe il perché.
Si limitò a lasciare la stanza, spegnendo alle sue spalle l'ennesimo mugolio della bambina, strozzata dai suoi stessi incubi. E quegli incubi non avevano altro che le sembianze distorte del vampiro, suo salvatore e Giuda Iscariota.
Suo futuro amante e distruttore terreno.
Mai ci fu constatazione simile nella vita di Donna che la intimorì e rattristò così tanto.Rimase immobile sull'uscio della camera per diversi minuti, il pugno stretto e le nocche sbiancate per il troppo stringere esitavano distanti di qualche centimetro dalla superficie liscia della porta. Il melodioso tintinnio della pioggia sui vetri aumentò, e un lampo avvelenò di luce i cieli scuri di una Londra dormiente. Il rombo attutito di un tuono si ripercosse contro le mura spoglie della residenza, invogliando Donna ad entrare. Il gracchiare della porta non parve disturbare il vampiro intento a stringere tra le mani un archetto scuro, composto da legno pregiato e crine sottile. Il Conte sedeva di spalle all'entrata, curvo su sé stesso come un fiore appassito, ancora avvolto dal tessuto in lino della camicia da notte; tra le gambe massicce stringeva la cassa colma di silenzio di un violoncello. Le sue mani erano premute sul manico da quel che pareva un'eternità, esitanti e stabili, i polpastrelli avvolgevano le corde sottili ma nessuna musica riecheggiò nell'aria stagnante di colpe.
L'ennesimo fulmine si schiantò tra le campagne deserte, illuminando la sagoma forte del vampiro e le ciocche ribelli che gli incorniciavano le spalle. Le tende erano tirate verso i lati dei vetri, un paesaggio mozzafiato divideva l'esilio volontario del Conte da cotanta tranquillità.
In quella sua gabbia d'oro, poteva vantare il suo essere una specie rara, come un animale in via d'estinzione braccato e rinchiuso.
Donna avanzò di qualche passo, catatonica, e l'archetto del Conte incontrò dopo troppa esitazione le corde tese dello strumento. La musica cominciò il suo lento crescendo, quasi fosse una commemorazione ad un rito funebre. Le spalle di Frederick sobbalzavano ad ogni minima variazione di tono, le sue dita esperte e grondanti di agilità accarezzavano ogni corda producendo una musica triste, roca, indecente per l'improbabile spettatrice.
Donna riconobbe tra una nota e l'altra quella straziante melodia. Si accomodò su di una poltroncina in raso dalle tonalità cremisi, sfilando la cuffia dal capo incassato nelle spalle. Sciolse il perenne chignon in un gesto unico e fluido; una cascata corvina le piovve sulle spalle, avvolgendo la schiena e le guance arrossate dall'emozione. In quei gesti delicati impressi sul legno antico di quello strumento, in quelle carezze che scaturivano una musica sofferta e dannata come quella di un diavolo, Donna rivide sé stessa.
Rivide il suo passato, il momento in cui concepì di voler essere solo sua e di nessun'altro.


E ricordò...

Donna sedeva nel piccolo salotto elegantemente arredato da qualche ora, intenta a divorare con gli occhi e la mente lp spartito assegnato dal suo maestro di musica privato. Più le cose tendevano a complicarsi, più l'indole caparbia e fiera metteva alla prova le proprie doti: la piccola erede seguì con lo sguardo l'inchiostro impresso tra i righi larghi, palpando con occhiate fugaci l'essenza di ogni nota sbavata. Donna amava mettere in mostra il suo talento musicale, che trovava sfogo tra un tiro d'archetto e l'altro. Adorava essere al centro di tutto, soprattutto quando lo era col suo compagno di vita e di musica, il violino dono di suo nonno paterno.
Sua madre sorseggiava del tè aromatizzato alle rose in un angolo della stanza e i soci imprenditoriali di suo padre, annoiati e grondanti di sonno, attendevano con finta ansia l'esecuzione del brano. La ragazzina, dopo attimi di esitazione, si alzò in piedi, la lunga veste dorata le scese fino ai talloni, delineando la sua forma snella e la corporatura minuta, troppo gracile e cagionevole per il mondo esterno. Un fermaglio arricchito da gemme dorate e piume di pavone le sorreggeva i boccoli lunghi e perfetti, che cascavano sfusi sulle spalle minute. Era tutta sua madre, Lady Costantine, giovane, acculturata e amante della buona musica, nipote del reggente orchestrale della regina Vittoria.
Donna poggiò gli spartiti ordinatamente, saggiando col mento il tepore dello strumento. Chiuse gli occhi ed una platea grondante di visi e occhi prese a scrutarla da un angolo della sua fantasia. Il sipario della sua mente venne tirato via, le luci soffuse e il silenzio provvisorio erano fattori dedicati a lei e a nessun'altro. Il suo concerto personale stava per iniziare, finalmente. Il suo più grande sogno sarebbe rimasto quello fino alla fine dei suoi giorni: esibirsi davanti l'intera corte della regina Vittoria.
L'archetto si posò con delicatezza sulle corde tese e la prima nota s'infranse nell'aria, ma lo stridio della porta interruppe l'inizio di quella magia.
Lo sguardo oltremare di Donna brillò di ira cieca, l'interruzione improvvisa fece scaldare i bollenti spiriti così tanto da spaventare alcuni signori intenti a parlottare sottovoce. Ma bastò un'occhiata per addomesticare qeull'astio, un singolo sguardo mandò in frantumi il suo cuore di già malato e scheggiato: sull'uscio apparvero suo padre e un uomo dalla bellezza indicibile, dalle spalle grandi e il portamento più elegante che avesse mai visto nei suoi quattordici anni di vita. Il Conte prese a fissarla dall'alto della sua posizione, annoiato e disorientato dalle chiacchiere insistenti di Bryan O'Grey. Trapelando finto interesse, Frederick tolse con lentezza cappotto e cilindro, passando il tutto tra le mani di una cameriera imbarazzata da tanto fascino etereo.
Il vampiro prese posto sul divano centrale, e tra i presenti calò un silenzio capace di intimorire chiunque. Fare affari con il Conte Stewart non era cosa di poco conto, ospitarlo anche solo per qualche ora nella propria casa era un privilegio più unico che raro. Dalle maldicenze locali e infondate, quell'uomo aveva qualcosa di malvagio, e non si trattava soltanto del ghigno sghembo che gli curvava le labbra, no; nascondeva dentro quelle iridi rosso sangue qualcosa di più spaventoso.
Come la sua eterna dannazione, ad esempio.
Suo padre la incitò con uno sguardo e Donna rabbrividì. Il Conte la stava fissando, stava scavando affondo nella sua pelle. Distava da lei solo mezzo metro se non di meno; le gambe accavallate e la guancia premuta sulle nocche bianche la misero a disagio per qualche istante.
La sua platea immaginaria era sparita, ora c'erano soltanto lui e lei.
La giovane chiuse di nuovo gli occhi e il concerto personale cominciò. Lasciò scorrere le dita velocemente tra uno spartito e l'altro, tirando fuori il meglio di sé stessa. Gli alti dignitari la fissavano a bocca aperta, stupiti ed ammaliati da un prodigio così sublime, ma Donna ignorò il tutto. C'era solo lei, la musica e...
Il suo sguardo. Lo sentiva addosso, era insopportabile. Cercò di annientarlo tra una melodia e l'altra, ma più tentava di sfuggirgli, più la presa ferrea su ciò che stava facendo aumentava a dismisura.
Un capogiro la sorprese poiché ansiosa. Mai nella sua vita lo era stata, soprattutto in un momento così intimo e personale come le sue solite sonate al chiaro di luna, durante le feste organizzate dalla sua famiglia, davanti ad una decina di volti sconosciuti e poco famigliari, intenti a scrutarla ammaliati da tanta padronanza musicale. Ma quella volta era diverso: il Conte la fissava con l'aria di chi, in cuor suo, giudicasse sempre e comunque la vita degli altri. Perché lui la stava giudicando con occhiate divertite e mezzi sorrisi, quasi volesse farle intendere di non essere alla sua altezza. Di dover dare il meglio di sé stessa, di stupirlo, di lasciarlo di sasso e sedurlo col suo talento.
Donna, a tal pensiero, aumentò il ritmo della composizione, stravolgendo il lavoro del suo insegnante privato, improvvisando. Quello spettacolino serale era divenuto una faida contro sé stessa, contro il Conte che l'osservava con sguardi indagatori, che sgualciva la sua passione più grande. Le braccia le dolevano da morire e una goccia tersa di sudore le varcò il viso contratto, infrangendosi contro le mani tese e agili. Sarebbe svenuta dallo sforzo, lo sapeva, il suo corpo non avrebbe retto quell'agitazione fisica così grande e improvvisa. Ma il tutto si concluse con una sviolinata veloce ed accanita; scosse le spalle e curvò la schiena in avanti in un inchino sofferto. Lei si concesse un lungo sospiro, riempiendo i polmoni di aria con respiri brevi e veloci, esausta.
Per i primi secondi ci fu solo silenzio. Gli sguardi di tutti erano fissi su di lei, ma nessuno parlò, nemmeno i coniugi O'Grey. Donna tenne il viso nascosto tra i boccoli scuri, e l'imbarazzo non tardò ad arrivare, infiammandole le guance di un rosso tenue.
Un applauso. Lieve, appena accennato, attutito dalla morbidezza dei guanti che l'uomo indossava.
Donna alzò lo sguardo e un vampata di calore le fece dolere le tempie con un colpo solo: il Conte scandiva con le mani un applauso dolce, carico di complimenti silenziosi e appagamento. Mai nella sua vita aveva assistito ad uno spettacolo simile, doveva ammetterlo.
Eppure il piccolo fringuello che il vampiro aveva davanti lo fissava attonito, nelle iridi blu guizzavano baleni di incertezza. E lui non poteva che gioirne.
«Complimenti, mia cara. Complimenti!»
Il vampiro si alzò supino, parandosi di fronte il viso di Donna senza smettere di applaudire. Lei rimase immobile, con la fronte aggrottata e un sottile velo di sudore fisso sugli zigomi, disorientata dalla vivacità che l'uomo le stava dimostrando.
Frederick si piegò in avanti con un inchino sentito, leciocche scure gli ricaddero dinanzi il viso sorridente. Le afferrò con delicatezza la mano, parandola davanti la bocca schiusa. Donna non percepì l'alito del vampiro contro la sua pelle, al contrario, nessun respiro le baciò le nocche arrossate.
Il Conte incrociò lo sguardo della giovane e con un sorriso magnetico la legò a sé.
«Se me lo permettete, vorrei poter duettare con voi un giorno, Donna O'Grey. Onore più grande di questo non può esistere nella mia esistenza» rivelò il vampiro, tornando composto. Il sangue nelle vene di Donna si gelò all'istante nell'intravedere due canini affilati brillare su quel volto spento. Frederick, d'altrocanto, avvicinò pericolosamente il viso freddo contro quello caldo e pulsante di imbarazzo della ragazzina, mentre i coniugi O'Grey impallidivano da capo a piedi.
«Lasciate che io sia il vostro diavolo nella musica idilliaca di ogni vostro spartito, Milady».
Donna sentì il cuore scoppiarle in un unico momento. Da quella distanza riusciva a vedere le miriadi di sfumature che gli ingemmavano quegli occhi di vetro, quasi fossero due rubini grezzi incastonati nelle orbite vuote.
«Fate della vostra musica un'arma contro la mia dannazione eterna. Fatemi santo subito, Donna. Non desidero altro».
E in quella notte di fine marzo, Donna concepì l'idea che la sua musica sarebbe divenuta l'ultima delle sue passioni terrene.
La musica cessò, così come il suo ricordare. Era trascorso un decennio o poco più da quella sera in cui l'indole fascinosa di Frederick la legò a sé, trascinandola verso il baratro più oscuro e profondo che era la sua dannazione. Da quella sera, qualcosa dentro il petto di Donna era esploso, per poi ricomporsi più forte e morboso di prima. L'amore incondizionato che provava per quell'essere non stava né in cielo né in terra, né nel cosmo e né scritto tra le vie del destino.
Perché Frederick voleva esser salvato dalla sua musica, purificato dall'abominio che era divenuto due secoli addietro. Voleva rinascere tra le note pure che scandiva Donna tra una sviolinata e l'altra, fingendosi un santo tra i santi. Ma i peccati carnali, alla fine di tutto, avevano corroso anche lei, ed entrambi erano divenuti due diavoli affamati di lussuria: ed ora lei giaceva dinanzi lo sguardo assopito del vampiro, in piedi. Donna aveva abbandonato lo scomodo bustier sulla poltrona di raso; la camicia lunga giaceva appesa alla gonna e le spalle rilassate erano scoperte, lisce come un tessuto pregiato.
La pioggia continuò imperterrita a battere contro i vetri freddi e spessi; un lampo fulmineo avvelenò i cieli circostanti, delineando la forma abbondante dei seni della ragazza. Ciò che desiderava più in quel momento, era il perdono, il pentimento che avrebbe coinvolto lui e lei tra le lenzuola di seta del letto a baldacchino. Non aveva pretese, non aveva rimpianti, non aveva nulla. Le bastò solamente lo sguardo di lui fisso nel suo, amava quel loro rendersi complici con una sola occhiata. Ma ciò che adorava di più era il dimenticare: avrebbero dimenticato il Clan, il sudicio lavoro di Sicario di Frederick, il pianto di Winkle, le moine di Morgana e gli errori passati.
Erano soli, infinitamente soli e marci dentro, mangiati vivi dall'insaziabile voglia di essere l'una incastrata nel corpo dell'altro, in un valzer che ardeva solo di passione e niente più.
Frederick scostò il violoncello contro il muro, alzandosi. Le passò due dita sulle guance calde, scorrendo i polpastrelli oltre l'incavo del scollo alzato, finendo per accarezzare in modo impercettibile la forma dei capezzoli, divenuti turgidi per quel gesto così caldo nonostante la freddezza che trasudava.
«Dimmi, Frederick...» la voce di Donna risuonò malferma. «La mia musica ti ha salvato?»
Frederick si concesse qualche istante per rispondere, non arrestando le docili carezze.
«No».
«Il mio corpo l'ha fatto?»
«No».
«Il mio sangue?» mormorò flebilmente, mentre la pesante gonna sgusciava lentamente sul pavimento. Frederick cercò di annientare l'irrefrenabile fame che risvegliava i suoi istinti più nascosti, allontanandosi di qualche centimetro dalla vena pulsante del collo di Donna.
«Per quanto tu possa sperare che io divenga un santo, Donna, non ci sono speranze. Non ce ne sono mai state. E il mio capriccio più grande l'ho saziato legando te a me».
Donna si piegò in avanti, intersecando le braccia attorno al suo collo. I loro corpi si incastrarono come tessere mancanti di un puzzle, incompleto nella sua grandezza e vuoto. I seni di Donna incontrarono il petto di lui, e cercò con tutta sé stessa di immaginare quel calore corporeo che il Conte non emanava da tempo.
«Che tu sia un santo o meno, poco m'importa. Che tu mi ami o meno, mai m'importerà» gli sussurrò in un orecchio teso, e le mani di lui si strinsero attorno le natiche infuocate di lei. «Mi basta sapere che in questo mondo, in questa casa e in questa stanza non ci sia spazio per i ripensamenti. Ho donato a te la mia anima, il mio corpo e il mio sangue. Dannati o meno, entrambi possiamo ancora rimediare».
«Come due amanti?» domandò, rapito dal leggero tocco della giovane sfiorargli il membro.
Donna chiuse gli occhi.
«Come due amanti».
Sciolsero entrambi quell'abbraccio all'apparenza timido e Donna lo condusse verso il letto che non aveva accolto la sua presenza per settimane intere. Frederick le sgusciò addosso con lentezza, stringendo tra le mani i seni rotondi e Donna si lasciò cullare dalla freschezza delle lenzuola. Le labbra si sfiorarono con dolcezza, pacate e avvinghiate le une alle altre, ma l'insaziabile voglia di avere il sapore di lei sulla lingua vinse su tutto: le bocche di entrambi si schiusero affamate, i canini argentei del Conte si scontrarono con la lingua chiara di Donna, e una lenta danza umida cominciò tra i sospiri ricolmi di piacere.
Si susseguirono altri baci, carezze e indugi, sopprimendo l'imbarazzo che in fin dei conti non c'era mai stato: Frederick fu il primo uomo, o meglio vampiro, ad ottenere ciò che Donna aveva da sempre preservato con cura e dedizione; la verginità che le sarebbe stata tolta dal suo futuro sposo, compagno di vita e artefice della sua prole.
Ma Frederick era piombato nella vita della giovane come un fulmine a ciel sereno. Lei non si tormentò e mai l'avrebbe fatto, perché anche il solo sentire il sesso duro di lui premere contro la coscia la faceva sentire viva.
La foga irrazionale del Conte arrivò, forte e disonesta, tanto da lasciar senza respiro la donna imprigionata sotto il suo corpo glaciale: le bloccò i polsi con uno scatto, mentre la sua lingua delineava il perfetto incavo del collo della ragazza. Lei gemette smorzatamente nel sentire quell'umidità scendere con lentezza, fino ad avvolgerle un capezzolo, e Frederick giocherellò con esso con la punta della lingua, succhiandolo e tirandolo con forza. La mano libera incrociò il calore dell'intimità impressa tra le cosce aperte, gustando affondo il desiderio che gli bagnò i polpastrelli tesi. Continuò quel suo lento gioco, moderando l'andamento e accrescendo a suo piacimento i gemiti smorzati di Donna, ormai persa in una sorta di appagamento personale più unico che raro.
L'attrazione che legava Frederick a lei era così forte da mandare in frantumi l'ultimo briciolo di coscienza che gli era rimasto, e lasciò che i canini affilati scavassero nella pelle rabbrividita del suo fianco. Lei inarcò la schiena in avanti, ormai giunta al culmine di ogni piacere, premendo il capo sul cuscino setoso. Ma il calore non arrivò, le vampate di piacere non ci furono e Donna poté solamente riprendere fiato, stanca di già e amareggiata dal brusco smettere di Frederick. Lui staccò le labbra dalla pelle tirata del fianco e rivoli cremisi sgorgarono dai fori appena aperti.
Si risollevò, incrociando nuovamente il viso di Donna. La presa attorno ai polsi si ridusse e per un momento furono solo gli occhi a parlare per entrambi.
«Giurami che sono il tuo unico amante» le mormorò, sfilando velocemente la camicia di lino. Donna si avvinghiò alle spalle del Conte con forza, quasi avesse paura di sprofondare in un baratro senza via di uscita, ma non rispose. L'eccitazione di lui le premeva contro l'intimità, annebbiando ogni parola e conforto nella sua testa.
«Giuramelo Donna...» annaspò lui, immergendo il viso tra i capelli scuri.
«E io lo sarò?»
«Per sempre» le rivelò e con un colpo di bacino le fu dentro. Le unghie di lei si piantarono nella pelle marmorea e morse forte la lingua pur di non urlare. Finalmente erano una cosa sola, un unico e complicato groviglio di sensazioni e graffi, morsi, l'uno stretto tra le braccia dell'altra. Come due demoni alla disperata ricerca di luce.
Passione, lussuria, brama di sangue e illusione. C'era tutto. C'era sempre stato tutto quello, in un modo o nell'altro.
«Invecchierò... prima o poi...» sussurrò lei tra un gemito e l'altro, intersecando le gambe sulla schiena curva di lui. Il Conte lasciò aleggiare nel vuoto le preoccupazioni di Donna, mordendo nuovamente all'altezza della spalla scoperta, dissetandosi per la seconda volta. Il digiuno durato quattro giorni era finalmente concluso, quel sangue così dolce seppur ferroso lo allietò, gli inzozzò la gola, l'anima, la mente. Frederick si muoveva con lentezza, alternando colpi rapidi e momenti di quiete, ormai del tutto fuori controllo.
Si lasciò cullare tra i sospiri di Donna e con l'ultimo seppur sofferto colpo di reni, raggiunsero entrambi il culmine della loro passione.
Rimasero fermi, stretti in quella posizione per un'eternità, poi lasciò che Donna capovolse i ruoli, finendo sdraiata sul petto di lui.
Frederick la morse un'ultima volta, stringendola tra le braccia forti. Gli occhi della giovane si chiusero lentamente e precipitò in un lungo sonno, grata della presenza di Frederick sotto di lei.
Il vampiro non mosse un muscolo. La fissò dormire pacatamente, come un bambino stretto nel grembo materno.
Sospirò.
E il pianto di Winkle avvelenò per un'ultima volta le sue memorie.

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