Santarosa
Le dita picchiettano i tasti,
sono spunti di battiti irregolari;
certi rapidi,
certi più lenti,
quando mi fermo a pensarti che leggi.
Leggi di notti insonni passate al lume di una foto,
di mani che sfiorano il niente,
che stringono il niente,
che toccano il vuoto,
di dita che impattano forte
su lettere sparse che avevo imparato,
a mettere insieme in un mucchio di foglie
che volano al vento scoprendone il prato.
E volano via, voltano lato e volano via,
volano via appena ti penso,
appena ti immagino china sul foglio,
muovere gli occhi per leggerle meglio.
E volano via, le piccole lettere e poi le parole,
i versi di cenere e dopo le strofe che gridano note,
note che suonano senza la musica,
senza spartiti o chiavi di volta,
che tanto la musica sta nei tuoi occhi,
nei canti tribali e le grida di liuto che porti nell'alma.
Volano via e seguono il vento
lungo la scia di un profumo celato:
zucchero e mura di edera verde,
oltre le quali fiorisce l'impasto:
non alle onde, al canto dei lupi o le stelle brillanti
ti paragono,
non alle piogge che aprono i fiumi
facendo fiorire i terreni di nuovo,
ma a un piccolo dolce che odora di forno,
di casa e di autunno,
di mani e di tempo,
di strade lontane e distanze percorse,
di abbracci infiniti,
di andata e ritorno.
La Santarosa nata in clausura,
per dimostrare come ribelle,
che anche dal niente può nascere tutto,
come anche dal niente sei nata tu.
La Santarosa che è un po' di passato,
un po' di presente e futuro vicino,
che unisce le bocche e le strade lontane,
come un uomo maldestro e l'amore che sente.
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