La festa


Nella Terra dell'Infinito era calata la sera.

Voci allegre e festanti risuonavano per tutta la foresta, mascherando il timore per quanto sarebbe potuto accadere in futuro.

Quella sera, però, le paure dovevano essere lasciate da parte e per questo era stata organizzata una festa in onore dei quattro giovani provenienti dalla Terra che, l'indomani, sarebbero partiti per recuperare il pugnale di Caio il Grande.

Federico, appoggiato a un albero, osservava quelle strane creature divertirsi, ma per qualche strana ragione provava ribrezzo nel guardarle.

I suoi amici erano seduti, in silenzio, davanti ad una tavola riccamente imbandita.

Dopo aver lasciato la stanza del Grande Mago, lui ed i suoi compagni non avevano più proferito parola; ognuno di loro era immerso nei propri pensieri.

Federico non riusciva a smettere di pensare alle parole di Gregorio il Giusto e più ci ripensava, più si convinceva che c'era qualcosa che non tornava, ma non riusciva a capire che cosa fosse.

«Non ti stai divertendo?» gli chiese un uomo che, se ricordava bene, si chiamava Alessandro.

«È una bella festa, ma...».

«Niente ma, ragazzo! Questa sera tu e i tuoi amici dovete divertirvi. Non vi capiteranno più serate come queste quando partirete. Il che è un bene perché...».

«Perché?».

Alessandro balbettò qualcosa che Federico non riuscì a comprendere. Pensò che non potesse essere ubriaco, poiché, da quello che aveva potuto vedere, gli sembrava che avesse bevuto non più di un bicchiere di birra.

«Massì, ragazzo, divertiti. È questo che conta, no? Divertirsi!».

Forse quell'uomo si era bevuto il cervello, piuttosto che la birra.

«Sai, posso capire che tu ti senta fuori posto. Però ci sono i tuoi amici con te, non tutti sono così fortunati».

O forse no? Com'era possibile che da un discorso privo di senso fosse riuscito a passare a un discorso serio?

Alessandro si allontanò e Federico rimase di nuovo solo accanto all'albero.

Guardò ancora per un po' le persone intorno a lui e poi andò dai suoi amici, sedendosi sorridente con loro. Le parole di quell'uomo l'avevano colpito: forse c'era molto più da scoprire di quello che sembrava e a lui piacevano le sfide e le indagini.

A un certo punto Giulio disse: «Non so voi, ma io non mi fido di Gregorio. Trovo che abbia un'aria sinistra. Forse non dovremmo partire».

«L'ho pensato anch'io. Trovo molto strana tutta questa faccenda» annuì Federico.

«Già. Sono stati tutti troppo gentili. E, poi, credo che non fosse neanche necessario andare dal Grande Mago: mi è sembrato che Brandir e Bossolo sapessero già che cosa volesse dirci» continuò Sonia.

I tre ragazzi si voltarono verso Giovanni aspettando che dicesse qualcosa.

Questi aveva riflettuto su tutto quanto era accaduto quel giorno e non gli sembrava ancora possibile di non essere più a casa sua, a Torino, ma in un altro mondo la cui entrata, di fatto, era sempre stata di fronte ai suoi occhi. Forse si trattava di un sogno e presto si sarebbe svegliato.

«Gigia? Riprenditi! È da un pezzo che fissi il vuoto» lo richiamò alla realtà Giulio.

«Si, scusatemi. Mi sono distratto un attimo! Dicevamo... Secondo me, anche se nessuno di noi vorrebbe, dobbiamo recuperare quel pugnale, altrimenti non potremo più tornare a casa! Non so se il mago ha detto la verità, ma noi siamo comunque costretti a credergli! Non conosciamo nessuno qui e l'unica nostra possibilità per tornare a Torino è provare a fidarci di lui».

«D'accordo. Speriamo solo che tutto vada per il meglio» affermò poco convinta Sonia.

Quest'ultima si alzò e andò a vedere la strana danza che stavano ballando i folletti. Non le piacque per niente. I loro movimenti, lenti e cadenzati, avevano qualcosa di spettrale.

«Non stupirti se non ti piace il loro balletto. Ria e Alessio sono sempre stati un po' stravaganti e macabri: inventato i passi di danza in base a ciò che vedono o pensano di vedere» disse Brandir avvicinandosi a lei.

«Allora devono aver visto qualcosa di molto brutto! Il ballo dovrebbe trasmetterti serenità, tranquillità, allegria... Invece il loro trasmette solo tristezza, angoscia, paura».

«Provi tutto questo guardandoli?».

«Si, te l'ho appena detto. Tu cosa senti, invece?».

«Nulla, non sento nulla. Generalmente non mi faccio trasportare dalle emozioni per cui, quando suono il flauto o vedo qualcun altro fare lo stesso, cantare o danzare, io non provo mai niente. Eseguo solo e guardo solo».

«Quando andavo all'asilo facevamo ogni anno una recita scolastica. Mi ricordo che una volta, io avevo avuto la parte di un angioletto che aveva il compito di insegnare agli altri che cosa fossero la pace e l'armonia. Io ripetevo le battute senza capirle e senza immedesimarmi. Era solo un compito che io dovevo eseguire perché così avevano deciso le maestre. Poi, però, ripetendo la parte ai miei genitori, essi mi hanno spiegato il significato di quelle parole e mi hanno detto che, se volevo far capire al pubblico che quello che stato dicendo era vero e far provare loro la sensazione di essere realmente di fronte ad un angelo, avrei dovuto immedesimarmi, provare le stesse sensazioni, emozioni del mio personaggio. Allora mi sono lasciata andare e, durante tutta la recita, mi sono sentita, per la prima volta, un piccolo angioletto».

L'elfo guardò sorpreso la ragazza e sussurrò: «Io non potrò mai essere così, non riuscirò a lasciarmi trascinare dalle emozioni».

«Non devi farti trascinare, devi solo farti accompagnare da esse. Poi il resto verrà da sè».

Brandir non disse niente. Poi salutò la ragazza e si allontanò.

«Scoprirò cosa nascondi, mio caro elfo!» pensò Sonia.


*


Il giorno dopo, all'alba come stabilito, i quattro ragazzi si presentarono dal Grande Mago.

Si erano cambiati e avevano indossato gli abiti tipici della Terra dell'Infinito per non destare sospetti durante la missione.

Giovanni, Giulio e Federico, oltre alla cotta di maglia, indossavano una camicia bianco panna con le maniche lunghe sopra la quale vi era un gilet rispettivamente di colore beige, blu e grigio-argento. Attaccato alla cintura dei pantaloni avevano ciascuno una spada.

Sonia invece aveva un vestito azzurrino con del pizzo bianco lungo le braccia che le arrivava poco sopra le ginocchia. Come i suoi amici aveva uno spadino attaccato alla cintura. Portava poi degli stivali bassi. Ognuno di loro, compresi i loro compagni, indossava un mantello e avevano uno zaino nel quale vi era tutto il necessario per la missione: cibo, bevande, mappe, altre armi, denaro...

Avevano deciso di accompagnarli, oltre Brandir e Bossolo, Alessandro, il folletto Asdrubaleo e lo gnomo dell'Arcobaleno Coco.

«Mi raccomando, fate attenzione. Il sentiero è pieno di ostacoli e pericoli!» si raccomandò Gregorio il Giusto.

«Ti assicuriamo che veglieremo su di loro» affermò serio Brandir.

«Ne sono certo. Ora andate, la strada da percorrere è lunga».

Quest'ultimo, dopo che gli altri si furono allontanati, chiamò Andromalius e gli ordinò di seguirli.

Il pugnale andava assolutamente recuperato e non erano ammessi errori.

Quando il Darkoth, a sua volta, se ne fu andato, riunì Astharot, Baal, Balam e Barbatos.

Era ora di dare inizio ai preparativi per la guerra ormai imminente.


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