Prologo
"Io sono le due lune Lilith. Quella nera è completata dalla bianca, perché la mia purezza è la scintilla della sua depravazione, e la mia astinenza l'inizio del possibile. Io sono la donna-paradiso che cadde dal paradiso, e sono la caduta-paradiso"
Joumana Haddad
LILITH
Il suono dei miei passi sembra risuonare nel silenzio della notte, volontariamente immergo i piedi in ogni pozzanghera che incontro sul mio cammino per fare ancora più rumore. Le gocce di pioggia scendono fresche dal cielo e vengono a salutarmi. Alzo il volto verso quella cappa oscurata da nuvole grigie per andarle incontro. Dispettose mi schiaffeggiano le guance per poi serpeggiare esauste su di esse. Trasalisco a quel contatto ghiacciato, subito la mia pelle risponde inondandosi di brividi. Respiro a pieni polmoni e l'odore di terra bagnata immediatamente pervade le mie narici, voglio tutto. Voglio tutto ciò che questa terra ha da offrirmi.
Beneficiare appieno di ogni rumore, ogni sensazione che questa nuova vita può darmi. Finalmente non sono più un'entità rarefatta, ho un corpo. Un corpo con il quale poter interagire con il mondo.
Alzo la braccia al cielo e comincio a ballare sul bordo della carreggiata sotto la pioggia. Saltello qua e là come una bambina, ma mi accorgo ben presto che le scarpe che Eleonor ha indossato non sono affatto adatte per la pioggia. Scivolo.
È talmente tutto così veloce che non mi accorgo di nulla, mi ritrovo in una manciata di nanosecondi con entrambe le gambe ancora in aria e il sedere ben piantato sull'erba. Il fondoschiena mi dole e avverto i palmi bruciare. Li alzo per portarli davanti agli occhi. La pelle è completamente sbucciata e piccoli aloni rossastri compaiono preannunciando un prossimo sanguinamento.
Una risata fragorosa si libera dalle mie labbra, non posso crederci sono felice anche del dolore. Con la testa appoggiata al suolo inspiro nuovamente, chiudo gli occhi e avvolgo dolorosamente il nastro della mia esistenza. Quasi posso sentire il calore delle fiamme ustionarmi le braccia e le urla dei dannati negli orecchi. Per anni o meglio secoli quella dimensione era stata la mia casa, mi aveva accolta quando nessuno voleva darmi asilo perché Lui mi aveva ripudiato, mio marito Adamo. Un calore mi pervade e sento le viscere sciogliersi come cera a causa di quell'incendio chiamato rabbia.
Riapro di scatto gli occhi quando l'ennesima goccia mi raggiunge. Devo muovermi altrimenti quei figli di puttana mi troveranno e riporteranno in quella villa di campagna che loro chiamano casa.
Mi rimetto in piedi e mi sfrego le mani sui jeans per togliere i rimasugli d'erba rimasti attaccati. Un paio di enormi fari si fanno strada tra la foschia, quasi ne vengo accecata. Mi porto un braccio sopra gli occhi per proteggerli da quel fascio di luce improvviso, mentre un acuto stridere mi raggiungere. Abbasso la mia protezione fatta di carne e muscoli per osservare il volto di un uomo affiorare al di là del finestrino.
«Hai bisogno di un passaggio bellezza?».
Un sorriso depravato gli incide le labbra trasformando il viso in una maschera oscena.
Uomini, per loro siamo solo un organo riproduttivo che deambula, siamo solo una valvola di sfogo per le loro perversioni sessuali. É arrivato il momento di farci valere, di dimostrare che non siamo quelle sgualdrine che pensano siamo, ma donne con pari diritti. Non possono continuare a pensare di essere superiori solo perché Dio gli ha fatto dono di una chiave piuttosto che di una serratura.
Senza esitare salgo sul suv.
Gli occhi scuri dell'uomo mi inchiodano al sedile, accarezzano ogni centimetro del mio corpo soffermandosi più del dovuto sul mio décolleté. Sono completamente bagnata, zuppa dalla testa ai piedi. Il cotone bianco della maglietta è ormai divenuto invisibile e consegna, alla mercé del suo sguardo, il mio seno.
Lo vedo inumidirsi il labbro inferiore per poi intrappolarlo tra i denti mentre un film erotico viene trasmesso nella sua fantasia.
«Puoi portarmi alla stazione dei pullman?», domando con voce da incantatrice riponendo i capelli dietro la schiena.
«Ti porto dove vuoi!».
Ingrana la prima, le gomme slittano sull'asfalto inondato dalla pioggia.
Il sole ormai si è nascosto oltre l'orizzonte e le tenebre ricoprono ogni cosa come un mantello. Solo quando i lampi squarciano il cielo improvvisi flash di luce illuminano l'abitacolo.
«Perché vagavi per la strada da sola?».
Mi riserva sguardi sfuggenti per studiare la mia reazione senza distogliere troppa attenzione dalla strada. Rimango in silenzio e lascio che a prendere il posto della mia voce siano il rumore incessante della pioggia battente e quello degli instancabili tergicristalli.
Improvvisamente la sua mano calda mi avvolge l'interno coscia. Sale fino a raggiungere il mio punto più intimo. Subito mi volto arpionandomi al suo sguardo famelico.
Cosa potevo aspettarmi se non un così squallido e rude tentativo di abbordaggio da uno che esordisce dicendo bellezza?
Blocco quella mano assetata del mio corpo posandovi sopra la mia, la premo leggermente sulla mia fessura già palpitante sotto il tessuto mentre con la mano libera raggiungo il poggiatesta. Lascio che dalla bocca sfugga un finto mugolio di piacere solo per vedere l'effetto sul mio pretendete. La sua bocca si è dischiusa, già arida dall'eccitazione. Gli rivolgo un sorrisetto malizioso prima di avventarmi sul suo collo. Il suo alito caldo mi sfiora l'orecchio, è sovraccaricato dall'alcool e non posso fare a meno di chiedermi come faccia a guidare in quelle condizioni. È nauseabondo tanto quanto l'odore sgradevole della sua pelle.
Gli poso un bacio all'altezza della carotide, leggero, delicato quanto basta per far schizzare il suo testosterone alle stelle. Quando lo sento sospirare appena sopra la mia testa afferro al volo le cinture di sicurezza e con un movimento rapido le passo dietro il poggiatesta per poi annodarle più volte intorno alla gola. Spingo verso il basso stringendo più forte. In pochi secondi il viso gli diventa paonazzo e suoi occhi quasi escono dalle orbite. Comincia ad agitarsi convulsamente sul sedile, mentre con una mano continua a reggere il volante per evitare di andare fuori strada e con quella libera tenta di afferrarmi il viso. Le sue unghie mi lacerano uno zigomo procurandomi un graffio come quello di un gatto.
Stringo ancora di più mentre scattando in tutte le direzioni tento di sfuggire alla sua resistenza.
Una lotta alla vita che dura un paio di minuti.
Afferro al volo il volante, ormai padrone di se stesso, per evitare di finire fuori strada e tiro il freno a mano.
La macchina si arresta di sguincio al centro della carreggiata. Guardo velocemente nello specchietto retrovisore. Bene, non vi è alcun barlume di fari, solo nebbia. Scendo velocemente dall'auto e corro al lato del guidatore facendo attenzione a non cadere.
Dopo aver snodato quel cappio mortale lo afferro per le spalle e richiamando tutte le forze in mio possesso sui bicipiti lo tiro fuori dall'auto. Guardo il cadavere rotolare all'interno del fosso che costeggia la statale finché non si riversa sul fondo. Le fiamme che gli avevano colorato il viso durante la colluttazione si affievoliscono mentre un alone violaceo comincia ad apparire proprio dove le cinte gli hanno tolto il respiro.
Velocemente raggiungo il posto di guida e con la sua auto mi inoltro nella nebbia più fitta per raggiungere il centro città.
Le luci della stazione si allungano tra le ombre del grande parcheggio illuminandolo a sprazzi. Sosto proprio davanti all'entrata.
Oltre il vetro noto la presenza di un paio di ragazzi che giacciono sulle sedie rigide della sala d'attesa, annoiati anche dalle chiacchiere si guardano attorno alla ricerca di un passatempo per ingannare l'orologio e un uomo sulla quarantina che parla con la donna addetta alle vendite dei biglietti. In quel momento mi rendo conto di non avere con me nemmeno un quarto di dollaro.
Sciocca, avrei dovuto depredare le tasche di quell'idiota prima di farlo diventare cibo per i vermi. Apro il portaoggetti nella speranza di trovarci qualcosa, rovisto tra fogli assicurativi, mappe stradali e qualche snack al cioccolato liquefatto dal calore.
«Andiamo!», sussurro allungandomi con la mano ancora di più al suo interno.
Urto con i polpastrelli sul fondo di plastica, ma non appena sposto la mano di lato sento qualcosa.
Lo afferro e quando lo estraggo i miei occhi si illuminano. Speravo di trovare almeno qualche spicciolo e invece ho trovato qualcosa di meglio. Uno spesso rotolino di banconote stretto da un elastico giallo. Spingo indietro la schiena facendo cigolare lo schienale, che si inclina di poco sotto la mia pressione, per alzarmi dal sedile. Infilo velocemente in tasca quella piccola fortuna che può garantirmi un lascia passare e senza pormi il problema di chiudere o nascondere l'auto scendo.
Corro sotto la pioggia e raggiungo in un batter d'occhio la biglietteria.
«Salve, il primo autobus in partenza?».
La mia voce appare inaspettatamente tremante. Sono così eccitata all'idea di poter vivere una vita tutta mia dove nessuno può più dirmi cosa fare e cosa non fare che anche le mie corde vocali fanno le capriole.
«Chicago!».
La mancanza di educazione della donna viene esplicata non solo dal suo tono annoiato e abbastanza scocciato, ma anche dai suoi occhi, che rimangono fissi sullo schermo del pc senza degnarmi di un'occhiata.
«Perfetto, un biglietto per favore!», rispondo infilando una banconota da cento dollari sotto il vetro.
La signora dalle cattive maniere mi porge il resto senza proferire parola, l'afferro bruscamente sbattendo la mano sul bancone al ché la donna alza gli occhi dal computer per fissarli nei miei.
Le riservo uno sguardo sprezzante.
Mi dirigo verso l'esterno, nel grande parcheggio riservato agli autobus in attesa dell'arrivo della mia libertà.
Alzo gli occhi al cielo. Ha smesso di piovere, l'aria è ancora intrisa di petricore e soffia leggera tra gli alberi. Quella folata di vento dolciastra mi raggiunge e mi avvolge in un freddo abbraccio a causa dei miei indumenti bagnati. Annodo le braccia al petto, mentre il mio corpo viene scosso da brividi. La temperatura si è abbassata notevolmente a seguito del temporale e io ne sto risentendo gli effetti; per secoli il mio corpo era stato esposto alle temperature torride dell'inferno e per questo motivo questo freddo improvviso mi destabilizza, ma allo stesso tempo mi rende felice, finalmente sono libera.
La volta celeste è incredibilmente scura, non vi sono luci che la tingono di blu piuttosto ai miei occhi appare di un bellissimo nero, tanto cupo da far risaltare quei piccoli sbrilluccichi argentei che comunemente prendono il nome di stelle.
Un enorme coperta trapuntata di diamanti.
Ricordo tutte quelle notti trascorse ad osservare il cielo. Erano più luminose un tempo.
Avevo chiesto spesso a mio marito di guardarle insieme, mi sembrava così romantico poterci sedere sull'erba a guardare quello spettacolo. Ma, a lui non interessava. Preferiva ronfare sotto una quercia piuttosto che passare del tempo insieme a me ad osservare le stelle. Adamo era così, un uomo povero di attenzioni, ma ricco di boria. Ogni qualvolta gli chiedessi di trascorrere un po' di tempo insieme lui sembrava esserne seccato, si avvicinava a me solo quando il desiderio carnale lo travolgeva e anche in quel momento di piacere lui doveva primeggiare. A lui era concesso il potere, a lui spettava decidere in che posizione giacere, mentre a me era dato il compito di sottostare al suo volere senza oppormi, poiché io, donna, ero stata creata solo per ottemperare ai suoi desideri. Ciononostante, anche nel momento in cui venivo posseduta come fossi un animale, non potevo far a meno di chiedermi perché mai dovevo essere io tra i due a chinare il capo. In fondo, cosa aveva Adamo più di me? Entrambi eravamo stati modellati dalle mani sapienti dell'Onnipotente, generati dalla stessa polvere e nello stesso momento. Entrambi eravamo nati per essere liberi, non per essere ridotti in schiavitù.
Lo sbuffare dell'autobus mi coglie di sorpresa come la marea o le rughe sul volto di una donna. Quando le porte si aprono sento le gambe diventare di gelatina tanta è l'emozione. Inspiro a fondo cercando di ritrovare il vigore muscolare necessario per salire. Mostro il biglietto appena acquistato all'autista, profuma ancora di inchiostro fresco. L'uomo accenna ad un sì con il capo dandomi il suo consenso a salire. Cammino nel piccolo corridoio costeggiato da sedili di stoffa blu aggrappandomi con le mani ad ogni poggiatesta. Mi accomodo negli ultimi posti, per arrivare a Chicago ci vorranno all'incirca otto ore e io voglio vedere l'alba sorgere al di là del finestrino senza il fastidioso chiacchiericcio dei passeggeri.
Dopo qualche minuto i motori si accendono e nello stesso momento il sedile comincia a tremare sotto il mio fondoschiena. Involontariamente allaccio le cinture di sicurezza e artiglio le dita ai braccioli mentre i muscoli si tendono. È la prima volta che prendo un autobus, in realtà sono tutte prime volte. Guardo fuori dal finestrino e osservo le luci dei lampioni sfrecciare veloci indietro creando scie luminose.
Ogni cosa su questo mondo per me è una novità, quando ero ancora sulla terra non vi era nulla di tutto questo, era tutto incontaminato. Vedere ora quanto tutto sia cambiato e quanti progressi abbia fatto l'essere umano è così entusiasmante.
Avevo pregato Helel di interrogare tutte le anime dannate che giungevano all'inferno prima di consegnarli ai loro carcerieri per placare la mia insaziabile fame di conoscenza. Sono sempre stata curiosa e Helel lo sapeva, amava sentire il rumore delle mie rotelline in funzione, diceva che non aveva mai incontrato una donna tanto intelligente e perspicace. Per questo acconsentì.
Imparai tutto quello che c'era da sapere su questo nuovo mondo, gli uomini e le donne destinati alla dannazione eterna mi raccontavano di ogni cosa, me le facevo ripetere così tante volte fino alla nausea che ormai ero perfettamente capace di vivere in quello strano mondo fatto di cemento e asfalto.
Mentre cammino sulla strada dei ricordi sento le palpebre improvvisamente pesanti. Mi sforzo di tenerle aperte, ho paura che se chiudo gli occhi al mio risveglio il cielo sarebbe scomparso e al suo posto avrei visto di nuovo quell'infinito muro di pietra e terra ergersi a perdita d'occhio, ma la stanchezza prende il sopravvento sulle mie ansie.
Chiudo gli occhi arrendendomi a morfeo.
Quando mi risveglio la prima cosa che vedo sono le iridi dello stesso colore della passione di Helel.
«Dove sono?», domando stropicciando gli occhi con il dorso delle mani.
«A casa mia Regina!».
La sua voce calda come le fiamme del suo regno agisce come arnica sui miei trapezi tesi. Guardo più volte a destra e sinistra, siamo nella nostra camera da letto, niente è cambiato. I mobili in noce compongono quella mobilia lussuosa degna di una camera imperiale, le mura in pietra ci proteggono delle temperature elevate che minacciano mancamenti nei nostri sudditi, anime che ci sono state consegnate a causa della loro vita sconsiderata. Poso i piedi nudi sul pavimento freddo come le mura del nostro palazzo e quando mi alzo la seta nera della mia veste scivola raggiungendo le caviglie.
Helel drizza la schiena e si appoggia alla testata del letto. I capelli selvaggi gli ricadono sulle spalle, incorniciano un viso che trasuda mascolinità in ogni lineamento. Le sopracciglia castagne e la barba folta aiutano lo sguardo da serial killer a far ribollire il sangue a qualunque donna incontri.
Il petto nudo si abbassa e alza seguendo il ritmo lento dei suoi respiri mentre i suoi occhi vigili mi accompagnano verso la terrazza.
Poggio entrambi i palmi sul parapetto in muratura e mi affaccio. Scorgo dalla cima della nostra dimora quell'enorme distesa di case in legno e pietra che costituiscono il nostro regno. Grazie ai racconti dei nuovi arrivati posso immaginarlo come uno di quei reami medievali di cui si parla nelle favole. Un piccolo bosco circonda la rupe su cui si erge il nostro palazzo e ci separa dal resto della plebaglia.
A circondare il tutto un enorme cerchio di fuoco delimita i confini del nostro regno, al di là di esso la desolazione. Terra arida e rossastra dove non vi è neppure un filo d'erba come monito di vita. Helel aveva creato quel confine di fiamme e cenere perché nessuno potesse abbandonare questo luogo, se lo avessero fatto sarebbero morti tra le fiamme e nello straordinario caso in cui fossero riusciti a superarle sarebbero morti poco dopo a causa della siccità.
Sento il frusciare delle lenzuola che si scostano, il mio Signore si è alzato. Le sue mani mi raggiungono prima del suo corpo che si adagia pochi secondi dopo sulle mie forme. Si tiene alle mie spalle quando con una mano mi accarezza una guancia. È straordinario il modo in cui quelle mani forti e vigorose spesso chiuse in due pugni possono essere capaci di tale gentilezza. Mi volto tra le sue braccia per pormi vicino al suo viso.
Con una mano a coppa gli avvolgo anche io una guancia e lui chiude subito gli occhi privandomi di quelle fiamme che mi fanno ardere il sangue.
Con il pollice gli sfioro il sopracciglio sinistro e accarezzo la cicatrice che lo divide in due. Mi sposto ancora e intreccio le dita in una ciocca dei suoi capelli. Quelle onde tremendamente sauvage e sexy si scaldano assumendo una tonalità simile a quella del miele quando le fiamme lontane gli illuminano il volto.
«Ti amo!», mi sussurra lui riaprendo gli occhi.
Il mio cuore aumenta i battiti in maniera esponenziale, sento il mio corpo sciogliersi come cera tra le sue mani. Lo amo anche io, lui mi aveva salvata dalla solitudine donandomi una nuova vita al suo fianco. Per lui ero diventata un demone e a lui io avrei donato la terra, luogo che ci fù ingiustamente strappato.
«Ho fatto un sogno, ero tornata sulla terra con le sembianze di una ragazza».
«Riusciremo a realizzare questo tuo sogno amore mio, insieme ci riprenderemo la vita che ci è stata sottratta. Insieme diventeremo i sovrani del mondo intero, te lo prometto!».
Un sorriso nasce sulle mie labbra dinanzi a quell'istantanea di me e Helel sdraiati sull'erba a guardare le stelle. So bene che manterrà la promessa, così annodo le braccia intorno alla nuca e lo bacio con tutta la passione che riservo a lui. Un bacio lungo, fatto di lingue, saliva e sesso. Voglio perdermi in quelle labbra perfette disegnate direttamente dalle mani di Dio. Quelle labbra che sono da sempre destinate ad intrecciarsi con le mie.
Le sue mani scivolano sui miei glutei, mi alza da terra come se il mio peso fosse quello di una piuma e in risposta avvolgo le gambe alla sua vita premendo l'inguine contro il suo.
Sento il desiderio crescere tra le sue gambe mentre la mia femminilità chiede di essere liberata da quella prigione fatta di pizzo e seta pregiata.
I suoi bicipiti prendono vigore, raddoppiando di volume o forse triplicando. È un Dio, il mio unico Dio.
Improvvisamente sento le mani bruciarmi, un calore che va via via espandendosi lungo le braccia. Mi stacco da lui riportando i piedi sul pavimento. Mi guardo le mani con occhi pieni di terrore, la mia pelle è integra, non vi è alcuna traccia di ustione, eppure sento il calore divampare sulla cute trasformandola in brodaglia. Posso sentire il sangue ribollire nelle vene e i muscoli sciogliersi come neve al sole. Comincio a gridare e ad agitarmi nervosamente sul posto. Continuo a battere le mani sulle braccia come a voler spegnere delle fiamme che esistono solo nella mia testa.
Helel mi guarda attonito, non riesce a capire.
«Cosa succede?», domanda afferrandomi per le spalle costringendomi a porre fine a quella strana danza.
Alzo gli occhi dal mio corpo in fiamme per riportarli nei suoi.
«Sto morendo!».
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