14 - Cocente premessa

"Ci sono momenti in cui la follia diventa così vera che non è più follia"
Charles Bukowski

RAYLEE

Nonostante abbia fissato un appuntamento, mi hanno tenuta inchiodata sulla sedia della sala d'attesa per più di un'ora, prima che la ragazza del punto d'accoglienza mi dia il consenso di accomodarmi nello studio del signor Goldberg.
Non appena apro la porta, l'aria permeata d'inchiostro e polvere mi colpisce lo stomaco facendomi sussultare, tuttavia a farmi arricciare il naso dal disgusto è il mordace olezzo di colonia maschile, con cui l'uomo sulla sessantina al di là della scrivania sembra aver cosparso, in maniera fin troppo abbondante, ogni centimetro del suo corpo polputo.
«Buongiorno, lei deve essere la signorina Jenner» il signor Goldberg è il primo a salutare porgendomi educatamente la mano. Esito qualche istante sulla soglia, sperando che il conato di vomito, provocato dal cattivo odore, si arresti prima di risalire l'intero esofago. Pregando una qualsiasi entità superiore di porgermi il suo aiuto per superare quel colloquio senza inondare l'intero studio con i residui della mia colazione, stringo tra le dita il manico rigido della borsa e mi avvicino a lui.
«Sì, sono io. Raylee Jenner» una strana e sgradevole sensazione a cui non so dare un nome mi brulica nel petto quando la sua mano, umida e appiccicaticcia, avvolge la mia in una stretta tenace, quasi invadente, pertanto, presto e un po' bruscamente, pongo fine a questo spiacevole contatto e prendo posto nella poltrona di fronte. L'impulso di abbandonare questa stanza, ma soprattutto allontanarmi da quest'uomo, mi sfiora più volte la mente, tuttavia mi impongo di non lasciarmi persuadere dall'istinto, anche se un sentore d'allarme riecheggia con gran fracasso tra le tempie come una sirena impazzita. Devo rimanere qui se voglio trovare uno straccio di occupazione che mi permetta di vivere dignitosamente, per cui l'unica cosa è sperare che le pratiche da compilare siano poche e il tutto abbastanza celere.

«Allora, ha portato con sé la documentazione e la copia della sua cartella clinica? Dobbiamo allegare tutto alla sua domanda» l'uomo si ritaglia un piccolo spazio di lavoro spostando i vari faldoni, per valutare i miei incartamenti e stilare un mio profilo personale in base a essi.
«Certo, ho portato tutto ciò che la ragazza del centralino mi ha chiesto» ricordo la sufficienza e l'inerzia che trapelarono dalla voce acidula della centralinista. Vorrei consigliargli di scegliere meglio il suo personale; è risaputo che l'immagine dell'azienda la fa il dipendente, e lei ne sta dando davvero una pessima, ciononostante mi mordo la lingua e mi limito a porgergli i documenti.
«Signorina Jenner» tenendo gli occhi incollati sulle mie ultime analisi, richiede la mia attenzione mentre con il pollice e l'indice si liscia il folto paio di baffi argento, che al pari di un tetto spiovente gli copre buona parte del labbro superiore. «So che sta affrontando un momento tanto delicato quanto complicato della sua vita, ma per prassi le devo porre delle domande abbastanza...» si prende alcuni secondi, valutando bene quale termine sia il più adatto ad esprimere il concetto. Quando lo trova, le iridi cacao infossate negli zigomi alti e marchiati da chiazze brune si sollevano dal piano per raggiungere il mio volto, «intime».
«Chieda pure» a disagio mi umetto le labbra arse e screpolate dal vento dei giorni scorsi. Non amo parlare di me e di ciò che mi è accaduto, non sono ancora pronta ad affrontare l'argomento con qualcuno, soprattutto se quel qualcuno è un estraneo come lui, ma purtroppo se il protocollo lo esige devo farlo, anche se non comprendo cosa mai possa dirgli io in più di quello che già trova per iscritto nei documenti. Non ho memoria di nulla e tutto ciò che so di me stessa è stampato lì, nero su bianco, può accedervi tranquillamente senza il bisogno di parlarne con me.
Appesantito dall'ingente quantità di adipe che rende la sua figura tozza e agile quanto quella di un novantenne in sovrappeso, allunga il braccio per afferrare una biro dal portapenne in resina nera, riposto alla destra del computer. «In questo momento c'è qualcuno nella sua vita?».
Confusa, aggrotto le sopracciglia scure in due linee, ostiche e diffidenti, e tento di capire quale sia lo scopo di quella curiosa domanda. In generale, detesto quando qualcuno ficcanasa nella mia vita privata e in questo momento il dottor Goldberg sembra voler annullare qualsiasi concetto di privacy: «mi scusi, non capisco. Questo cosa c'era con la mia iscrizione alla sua associazione?».
Dopo aver lasciato cadere la penna sui fogli, con un sospiro profondo e annoiato l'uomo si rilassa contro lo schienale «lei in primis sa bene che l'amnesia retrograda non è un handicap, certo è un deficit della memoria correlato ad un grave danno cerebrale, ma non per questo le persone segnate da tale lacuna devono essere estraniate totalmente dal mondo del lavoro». Le parole gli fluiscono via dalle labbra con una loquacità meccanica, quasi siano diventate un mantra da recitare ogni qualvolta una persona estranea varca la soglia del suo ufficio per richiedere il suo aiuto. «Noi siamo qui per questo, siamo qui a dare una mano alle persone come lei a ritrovare un impiego e come può ben immaginare c'è una lista che va in base alle esigenze, dove chi ha più necessità va in testa, comprende?».

Le sue parole dovrebbero sollevarmi, in fondo secondo la logica del suo discorso dovrei rientrare tra i primi posti, eppure l'esistenza di una lista d'attesa mi spaventa. La preoccupazione di dover abbandonare il mio grazioso appartamento a causa di una probabile insolvenza mi punge il cuore come una spina, costringendomi ad abbassare mogiamente lo sguardo sulle gambe coperte dalle calze. «Certo».
«Per stabilire quale sia il suo posto in graduatoria, ho bisogno di sapere se ha qualcuno vicino che possa supportarla anche economicamente: un fratello, un genitore...un fidanzato». L'odore pungente della sua colonia si fa più intenso, con gli occhi bassi percepisco il movimento dell'uomo che puntella i gomiti sulla scrivania per sporgersi in avanti, verso di me.
«No, non ho nessuno che possa aiutarmi» ammetto più a me stessa che a lui.
«E del padre cosa mi dice? Sa dove sia o chi sia?».
Scuoto debolmente il capo senza rialzarlo, celando al suo sguardo indagatore la mia delusione «non so niente al riguardo, ma a quanto ho capito non sembra molto interessato né al bambino né a me, altrimenti mi avrebbe rintracciato in qualche modo». Ci ho rimuginato spesso, non ho fatto altro che pormi le medesime domande per giorni interi senza mai trovare una risposta che fosse diversa da quella che ho dato al signor Goldberg. Forse questo bambino non è il frutto di un grande amore come ogni donna sogna, il tassello mancante che renderebbe perfetto e bellissimo il quadro della mia vita, piuttosto solo un'inaspettata conseguenza di uno scomodo amplesso di una notte trascorsa tra fiumi di alcool e pugni di pasticche, o nella peggiore delle ipotesi una sorpresa non desiderata, dalla quale colui che ne deve essere padre non se ne assume le proprie responsabilità. Ciò potrebbe spiegare il suo totale disinteresse nei miei confronti, ma soprattutto in quelli del nostro bambino. Tuttavia, qualsiasi supposizione sia vera, lui ci ha rinnegati. Abbandonati. Esclusi dalla propria vita, per sempre.
«È sola e senza un passato quindi» stranamente la sua voce si abbassa di qualche tono, carica di una primordialità che mi fa sussultare. Circospetta, alzo il viso per guardarlo e nelle iridi ambigue, con le quali mi fissa dapprima le labbra dischiuse e poi le forme rotonde dei seni, di giorno in giorno sempre più floridi, vi scorgo il riverbero di una sconveniente malizia che mi mette a disagio. Un sogghigno perverso gli distende i baffi ispidi come le setole di una spazzola, fomentando in me il desiderio di fuggire da questo studio.
Indignata e con un'agitazione crescente a spezzarmi il respiro, arpiono le dita ai braccioli, graffiandone il pellame dozzinale con le unghie. Incapace di emettere anche un mugolio o muovere un solo muscolo, non rispondo.

Conscio della mia fibrillazione, se ne compiace «bene». Il signor Goldberg artiglia le mani massicce e irsute al bordo dello scrittoio e con forza si da una spinta per indietreggiare con la sedia, aggira la grande scrivania in vetro e si accomoda sulla poltrona al mio fianco. Il lezzo del suo profumo torna a schiaffeggiarmi lo stomaco, che di riflesso si attorciglia; la sua vicinanza mi rende ancora più irrequieta.
Con un moto di disgusto ad effigermi la bocca, gli osservo il viso pingue. Non c'è niente di bello o affascinante in lui che possa anche solo farmi pensare di poter sopportare il suo gravitarmi attorno, né la sua fronte bassa e convessa parzialmente nascosta da un riporto canuto o il naso adunco, depresso alla radice, che cade sulla linea sottile delle sue labbra, dove i denti hanno preso, con gli anni, una tinta scura, al pari di quella della corteccia di un albero secolare.
«La sua scarsa possibilità economica la colloca quasi in vetta alla mia lista, ma come potrà ben immaginare nel suo stato» con un lieve cenno del mento indica la piccola rotondità del mio addome, che ancora riesco a tenere ben nascosta sotto la stoffa dei vestiti «sarà difficile trovare qualcuno che sia disposto a concederle un lavoro».
E se le sue orbite indugiano sull'orlo della mia gonna, per un attimo le mie vengono catturate dalla disgustosa oscillazione dei tessuti molli che gli pendono tra il mento e il collo, rendendolo ributtante. «La mia gravidanza non è un handicap proprio come non lo è la mia amnesia» irritata dalla sua insinuazione, corrugo la fronte e stringendo in ambe le mani il lembo della sua distrazione con uno strattone deciso lo tiro verso il ginocchio, coprendomi le cosce.
«Non ai miei occhi» armato di un ghigno poco rassicurante, accavalla le gambe con un fare seducente, almeno secondo lui. «Ma a quelli di un presunto datore di lavoro si. Però magari...» con l'indice mi scosta una ciocca di capelli dal viso, avviandola lentamente dietro l'orecchio, poi ne approfitta per sfiorarmi il lobo con i polpastrelli ruvidi «...oliando i giusti ingranaggi io potrei aiutarti».
Offesa delle sue intenzioni promiscue, la mia mente viene assediata dalle scabrose immagini di lui nudo su di un letto intento a trastullarsi il membro, piccolo e grinzoso, in attesa del mio arrivo; con lo stomaco sottosopra dal ribrezzo, schiaffeggio brutalmente via la sua mano e mi alzo di scatto, mentre la rabbia e l'indignazione crescente mi chiazzano il volto di rosso, quasi abbia la scarlattina «per me può oliarli e metterseli su per il culo, signor Goldberg».
Senza guardarmi indietro, a passo sostenuto esco dallo studio e mi incammino verso l'ascensore, sperando che quel viscido verme non abbia l'ardire di seguirmi e trascinarmi in un qualsiasi ufficio per approfittare di me. Con la tachicardia ad affaticarmi il respiro, pigio ripetutamente il tasto di chiamata e quando le porte si aprono mi fiondo al suo interno.

Cavolo!
Con una mano adagiata sul seno sinistro, sento il mio cuore palpitare all'inverosimile, tanto veloce da non riuscire a distinguerne i battiti, un rivolo di sudore freddo mi cola lungo la schiena ridisegnandomi la colonna vertebrale, le ginocchia mi tremano. Finalmente sola e al sicuro, lascio che l'angoscia, accumulata fino a questo momento, mi travolga come la più temibile e disastrosa delle tempeste. Sono stata una sciocca a non aver dato ascolto al mio istinto quando mi ha avvertito di alzare i tacchi. Ho lasciato che il ragno tessesse attorno a me la propria tela pensando che le mie fossero solo delle sciocche fantasie, sono tanto atterrita dalla paura del futuro che non ho dato il giusto peso agli atteggiamenti deplorevoli di quell'uomo.
A causa dell'epinefrina in circolo che mi squassa ancora il petto, reclino indietro la testa succhiudendo gli occhi, la chioma corvina oscilla lungo la schiena fustigandomi delicatamente i lombi con le punte.
Che figlio di puttana! Di quante ragazze si sarà approfittato sfruttando la sua posizione? Tante, forse a decine. Dovrei denunciarlo. Si, raccontare ogni cosa alla polizia e impedire a quel viscido verme di cibarsi delle paure di povere donne che sperano di poter ritornare ad una vita normale, di poter riprendere in mano i progetti che hanno lasciato indietro. Di poter vivere senza aver timore del domani.
Il suono squillante dell'ascensore mi ridesta dai miei pensieri di vendetta facendomi sobbalzare, sgattaiolo fuori di corsa desiderosa d'aria fresca. I tacchi tintinnano sul marmo del pavimento, echeggiando tra le mura silenziose della hall. Mentre incedo in direzione dell'uscita getto uno sguardo fugace verso il punto d'accoglienza, ormai deserto, dove solo un'ora prima un'avvenente ragazza dalla pelle scura e le forme prosperose mi ha dato il lasciapassare per l'ufficio del pervertito. Squallido e traviato com'è, quell'uomo sicuramente avrà irretito anche lei e forse quest'ultima avrà acconsentito più volte a rimanere oltre l'orario prestabilito per tenersi stretto il proprio lavoro, non mi stupirebbe se le cose siano andate così. Ripenso nuovamente alla centralinista, ai suoi modi poco cordiali e al perché non l'abbia licenziata, adesso la risposta è più eloquente che mai. Probabilmente, non importa quanto le dipendenti siano disponibili con il pubblico, ma quanto lo siano con lui.

L'aria fredda del crepuscolo mi sferza sulle guance accaldate, sono ormai le diciannove inoltrate e il sole ha ceduto il posto alla luna che, piena e bellissima, si fa spazio tra gli alti palazzi mietendo il buio con la sua luce evanescente. È una serata splendida, resa ancora più eccelsa dalla presenza dell'uomo più bello che abbia mai visto. Lo osservo con la testa inclinata da un lato, completamente soggiogata. Com'è possibile che Dio abbia concesso così tanta perfezione ad un unico essere umano? Essendo egli stesso l'essere più caritatevole, vuole forse farci dono di una parte di paradiso mandando qui, tra i comuni mortali, il più vezzoso dei suoi angeli? O al contrario vuole punirci dei nostri peccati mostrandoci la quintessenza della bellezza, a cui noi vanesi non potremmo nemmeno pensare di auspicare?
Avvedendosi della mia presenza, Christopher smette di sistemarsi il polsino della camicia, che fuoriesce di poco dalla manica del raffinato montgomery, e mi guarda, impietrita, in cima ai quattro gradini dell'edificio.
Appoggiato alla sinuosa fiancata della sua lussuosissima BMW, accavalla una caviglia sull'altra e infila le mani nelle tasche del soprabito «hai intenzione di rimanere lì a fissarmi ancora per molto? Finirai per congelarti».
Rinsavita dal suo ineluttabile fascino, mi schiarisco la voce. «Hai ragione».
Uno strano baluginio illumina le sue iridi mentre rimira la mia andatura flessuosa. Come catturato da ogni particolare del mio corpo, osserva le mie décolleté di vernice nere, le gambe velate dalle calze scure, le balze del vestito che leggiadre mi accarezzano le cosce ad ogni passo e i capelli lisci e scintillanti sotto la luce bianca dei lampioni.
«Ho una gran fame» confesso avvertendo un vuoto all'altezza dello stomaco.
Le sue labbra disegnano un sorriso delicato che ha il potere di spezzarmi il fiato, prima di staccarsi dalla portiera e aprirla facendomi segno di accomodarmi «Allora cosa stiamo aspettando?».

Nell'abitacolo, noto subito il concentrato di tecnologia che rende sontuosa, ma allo stesso tempo sportiva la plancia: dal quadro digitale al monitor, grande quasi come lo schermo del mio portatile, che svetta sul cruscotto; le bordature nero lucido dello sterzo e dello sportello rimandano la luce fredda dei led interni, i finestrini scuri, come ogni parte di quest'auto, mi permettono di ammirare il mondo in completo anonimato.
Quando Christopher prende posto al mio fianco, l'odore di pellame dei sedili ergonomici viene soverchiato da quello pregiato del suo dopobarba, reso ancora più intenso dai getti d'aria calda del climatizzatore.
«Allora...» Hale spinge il bottone d'accensione alla sua destra, appena sotto il volante, il motore si avvia non producendo alcun suono, quasi sia ancora spento. Con il gomito sinistro appoggiato allo sportello chiude le dita attorno allo sterzo e con la mano libera ingrana la prima, immettendosi nella carreggiata «com'è andata?».
«Non bene» ammetto con difficoltà e riluttanza. Vorrei fingere, dire che l'incontro è stato fruttuoso e chiudere lì il discorso, ma non sono brava a mentire e l'agitazione, che ancora tende i miei nervi, di certo insospettirebbe.
Sotto le sopracciglia aggrottate, le sue iridi abbandonano momentaneamente la strada per scivolare nell'angolo dell'occhio, mi guarda di sottecchi in una silenziosa ma al contempo esplicita richiesta di maggiori informazioni.
«A quanto pare esiste una lista d'attesa e se le mie mediocri risorse economiche mi collocano all'apice, il fatto che sia incinta mi fa precipitare agli ultimi posti. Tuttavia...». Dal nostro ultimo incontro nella caffetteria ho trascorso ore a fantasticare sul mio medico, sulla serata che ci attende. Ho immaginato di cenare in qualche ristorante sfarzoso o magari di guardare le stelle sulla battigia del Lago Michigan, tuttavia nei miei numerosi film mentali, repleti di frasi romantiche e gesti galanti, mai avrei pensato di dover parlare della perversione di quell'uomo. «Avrei potuto recuperare posizione se fossi stata abbastanza...gentile con il signor Goldberg».
«Stai dicendo che ti ha fatto delle avance?» la sua voce ha perso ogni traccia di leggerezza, non manco di registrare il piccolo guizzo che gli contrae la mascella e il modo in cui stringe con maggior vigore il volante.
«Spudoratamente, ma ho saputo mettere in chiaro le cose» per non turbarlo troppo e non rovinare il resto della serata, decido di non entrare nel dettaglio e di arginare il problema mettendolo al corrente della mia intenzione di sporgere denuncia «quell'uomo deve pagare, con me non ha potuto cantar vittoria ma chissà di quante ragazze avrà approfittato. Deve essere fermato».
Per qualche motivo le mie parole non lo rassicurano affatto, all'opposto sembrano non riuscire nemmeno a raggiungerlo. La sua mente è lontana, dissociata dal presente e da questo stesso abitacolo, persa in chissà quali torbidi pensieri. Gli occhi, fissi sulla strada, rifulgono di una luce sinistra mentre il sangue gli defluisce dalle nocche e le vene, scure e gonfie, guizzano in superficie ricoprendogli minacciosamente il dorso delle mani.

«Chris?» tento di abbattere la cortina di tensione che sembra tenerlo lontano da me, ho sbagliato non avrei dovuto raccontargli ciò che è successo nelle mura di quell'ufficio. Prima di parlare avrei dovuto pensare alle conseguenze, eppure in mia discolpa credevo dovesse saperlo, in fondo era stato proprio l'ospedale a consigliarmi quell'associazione, se non li avessi messi al corrente, se non avessi messo al corrente Hale, avrebbe inconsapevolmente continuato a mandare giovani donne nelle subdole mani di quel verme e...
«Dobbiamo fermarci a fare rifornimento!» precipito bruscamente nel presente udendo la sua intonazione piatta, atona e priva di qualsiasi briosa inflessione, mi fa pensare agli annunci registrati della segreteria telefonica.
Con il palmo aperto, svolta leggermente a destra per accostare sotto una decadente pensilina, al fianco del distributore automatico, il mio corpo come di gomma accompagna quel dolce movimento oscillando da quello stesso lato.
«Dammi cinque minuti».
Delusa dalla piega che sta prendendo il nostro primo appuntamento, cerco di scacciare i pensieri negativi; non siamo nemmeno arrivati a destinazione che potrei ritenere la serata una vero fiasco, eppure il suo repentino cambio d'umore in qualche modo mi dà da pensare. Mi sento un po' come tra l'incudine e il martello, da un lato non so se essere lusingata dalla sua reazione, forse il suo turbamento non è altro che il secreto di un'inconscia gelosia, dall'altro potrei considerarla eccessiva e del tutto fuori luogo, dato che la nostra conoscenza si riduce ad un'ora, massimo due, di conversazione.
Per smorzare l'agitazione crescente prendo a mordermi le unghie sottili fino alla carne, mentre sposto lo sguardo nello specchio retrovisore di destra, alla disperata ricerca del riflesso del viso inasprito del mio cavaliere. Spero di trovarvi un dettaglio, un suggerimento che mi aiuti a risolvere l'intricato mistero chiamato Christopher Hale, tuttavia noncurante dei miei rovelli mentali, se ne sta elegantemente appoggiato alla fiancata ad armeggiare con il suo iPhone, mentre l'erogatore lascia fluire con gran clamore il carburante nel serbatoio. Con il volto ancora cesellato da linee dure, si porta il telefono all'orecchio.
Nel fracasso non posso a comprendere con nitidezza di cosa stia parlando e con chi, è talmente serio da non riuscire nemmeno a carpire un indizio, almeno fin quando non vedo le sue labbra ricongiungersi per pronunciare un nome, quello di Goldberg: forse sta interloquendo con qualcuno all'intero dell'ospedale, forse dopotutto confessare si è rivelata la scelta migliore, anche se il prezzo da pagare è la nostra serata.

L'entusiasmo per aver stroncato, in parte, le gambe a quel porco soppianta per un breve istante l'angoscia, che torna più prorompente che mai ad affaticarmi il respiro quando Chris incunea la fronte tra il pollice e l'indice per frizionarsi le tempie con i polpastrelli, il sangue gli è montato in viso per chiazziargli le gote. È irrequieto, adirato come se con quella conversazione si sia giocato l'ultima briciola di ragione.
Avvertendo il peso del mio sguardo, il medico si volta nella mia direzione, è in questo preciso istante che nei suoi occhi intravido qualcosa di cupo e malvagio. La belva avida e funesta, scorta giorni addietro, ha spezzato ogni catena, piegato il suo autocontrollo per prendere il sopravvento sul raffinato e distinto neurologo che ho conosciuto. Potente e oscura, la sua aura perturbante gli gravita attorno come un turbinio di torbide ombre, un miasma altamente tossico che mi brucia le carni, corrode le ossa e avvelena il cuore. Ciononostante il desiderio di lasciarmi corrompere da quelle stesse tenebre mi vellica il basso ventre, come se una parte di me le riconoscesse e desiderasse nuovamente farle sue.
In me deve esserci qualcosa di sbagliato, di distorto...malato, dovrei avvertire le prime avvisaglie di paura insinuarsi nel petto, invece mi sento ancestralmente attratta, travolta da una malsana passione che mi scuote le membra come un colpo di frusta.

Quando Christopher ripone il telefono nella tasca e torna ad accomodarsi al posto di guida, sbatto spiazzata le palpebre un paio di volte; l'essere oscuro e torvo, capace di umiliare ogni mia volontà, è sparito.
«Tutto bene?» nella fioca luce del quadro comandi, il suo volto sembra aver dimenticato ogni turbamento, i suoi lineamenti sono tornati gentili e armonici, rassicuranti come lo sono sempre stati.
Annuisco senza mostrare alcuna incertezza, ma in verità la mia mente è ancora annebbiata. Approfitto del suo cambio d'umore per salvare la nostra serata, così decido di gettarmi alle spalle il signor Goldberg, almeno per qualche ora, e con il suo permesso accendo lo stereo. Le note mistiche e taglienti della chitarra di Jimi Hendrix mi aiutano a stemperare l'opprimente tensione che attanaglia l'aria, per lasciare spazio a un'atmosfera più leggera e gioviale in cui il medico si lascia trasportare dalla musica. Lo sento canticchiare qualche strofa a bassa voce e, mentre cambia marcia, involontariamente, mi sfiora con il dorso il ginocchio sinistro.
Un fremito d'eccitazione mi increspa dolcemente le braccia per poi colorarmi le guance con i toni accesi di una mela matura. È una questione di secondi, eppure il mio corpo pare memorizzare il calore della sua mano, osservo l'esile giuntura della gamba quasi convinta di trovarvi delle fiamme che si sprigionano dalla carne, un'ustione, qualsiasi cosa in grado di spiegare questa ardente sensazione sulla pelle. È inevitabile pensare a come sarebbe sentirlo sopra di me, dentro di me; sono certa che il mio corpo si scioglierebbe dall'interno. Sotto il suo tocco delicato ma coercitivo brucerei come la lanugine di un cardo, sottoposto all'aria incandescente dell'estate. Imbarazzata dalla moltitudine di immagini erotiche che mi pullulano nella testa, volgo lo sguardo al di là del finestrino e scuoto la testa come per mandar giù tutto quell'eccesso di sangue che mi monta dal cuore. Oltre il vetro, l'argentea luna si specchia vanitosa nel lago scuro, ma il vento geloso della sua bellezza soffia violento, infrangendone il riflesso in mille luccicori. L'acqua brilla, quasi sul fondale vi siano incastonati migliaia di diamanti.

«Allora» con un colpo di tosse provo a recuperare un po' di contegno nella voce e nei pensieri «dove stiamo andando?».
Abbandonando per un momento la strada Christopher mi guarda, le labbra sottili atteggiate in un mezzo sorriso rendono vano ogni mio tentativo di rinsavimento «se te lo dicessi non sarebbe più una sorpresa».
«Cosa ti dice che io ami le sorprese?».
Con un'occhiata fuggevole il medico mi perscruta, le iridi sagaci vellicano ogni parte del mio corpo carpendone ogni dettaglio; al suo cospetto mi sento nuda, debole, esposta. Il suo sguardo pare andare oltre i vestiti, le membra e le ossa, per leggere tra le pieghe del mio cuore, è in grado di aprire una finestra sulla mia anima, dove poter scorgere a suo piacimento qualunque cosa voglia vedere, anche la più segreta e intima.
In un noncurante battito di ciglia e un ghigno provocatorio riporta la sua attenzione sulla strada, ciononostante io, incuriosita, non demordo «davvero... dove mi stai portando?». Inclino la testa in avanti per ammirare il profilo maturo, illuminato a sprazzi dalla fioca luce dei lampioni, che sfrecciano a intermittenza al nostro fianco, al di là del finestrino oscurato. Le rughe sottili sotto l'angolo esterno dell'occhio lo rendono ancora più seducente, quasi siano state appositamente intarsiate ad arte dalle mani di uno scultore per rendere i suoi lineamenti eleganti più mascolini.
«Non importa dove ti conduco, potrei portarti anche all'Inferno...» sulla scia di quella cocente premessa, pregna di erotismo, Christopher accosta l'auto in un ampio parcheggio, non ho il tempo di voltarmi e scorgere quanto vi sia al di fuori che si slaccia la cintura di sicurezza e si sporge per avvicinarsi al mio viso. Braccata contro il sedile dal suo ampio torace, vengo inglobata dal profumo inebriante della sua colonia. I nostri occhi, legati indissolubilmente da quel vizioso tripudio di lussuria e perversione che fagocita l'aria attorno a noi, non smettono di rincorrersi, il mio polso balza a centoventi battiti al minuto, mentre una vorace eccitazione mi spezza il respiro per lasciarmi agonizzante.
«Quando sei con me, non devi temere nulla». Il suo tono caldo e graffiante mi vezzeggia le guance, facendomi rabbrividire. La temperatura in quest'abitacolo è diventata torrida, tra gambe la mia intimità pulsa così forte da farmi male, frattanto che il tessuto dei slip raccoglie le prime gocce del mio desiderio. Accaldata e sull'orlo del baratro, con la punta della lingua mi inumidisco le labbra. Prontamente gli occhi di Christopher scintillanti di malizia scivolano verso il basso per seguirne il movimento. D'istinto faccio ciò che da giorni sogno, mi avvicino a lui fino ad arrivare a sfiorargli le labbra con le mie, ma è in questo momento che lui solleva un angolo della bocca, compiaciuto dal mio coinvolgimento.
«Ora scendi!».







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