12 - Un nuovo inizio
"Io so soltanto che sono attratto da lei come dall'aria quando sono sott'acqua."
Colin Farrell
RAYLEE
La nostalgia è uno strano dolore, è una forma dolceamara di malinconia dove i ricordi, le emozioni passate tornano a bussare alla nostra porta e risvegliano in noi il desiderio ardente di riviverle. È il senso di vuoto nel petto quando frammenti della nostra anima restano indietro durante il cammino.
Talvolta le persone vorrebbero riavvolgere il nastro, tornare a quei giorni lontani, non perché il presente sia orrendo o poco appagante, ma semplicemente perché alcune cose non tornano: molti abbracci non potremmo più darli e certi momenti non potranno più essere vissuti.
Si può avvertire nostalgia per molte cose: un posto, una persona...del passato, eppure io a differenza di molta gente non ho un passato, un luogo o una persona per cui poterla provare, tuttavia avverto questa lacuna pur non conoscendone la fonte. Ho la sensazione di aver lasciato alle spalle una parte di me...forse la più importante.
Ma si può avere nostalgia di qualcosa che non si ricorda?
Io voglio scoprirne l'origine, voglio conoscere cosa o chi sia questa parte di me che mi sono lasciata dietro e che nonostante l'amnesia, l'assenza, è stata capace di lasciare una cicatrice di tale entità sul mio cuore. È un segno indelebile, un vuoto incolmabile che serra la gola in un cappio e mi appesantisce il petto, mi toglio il respiro. Ha così tanto potere su di me ed io non so nemmeno da chi o cosa provenga.
Nonostante il dottor Hale mi abbia proibito di farlo, io ci ho provato; nei cinque giorni dopo la mia dimissione dell'ospedale ho perscrutato l'orizzonte, ho lasciato lo sguardo errare oltre la fitta schiera di palazzi e sento che lì da qualche parte c'èla mia fonte, dove solo ricordarmi chi sono. Così, ho tentato di rammentare qualcosa, qualsiasi cosa: un odore, un luogo o anche solo un sorriso, ma nulla. I ricordi sono fermi, bloccati tra la spessa bolgia di ombre in cui si perde la mia mente. I continui capogiri che seguono i miei futili sforzi, poi però hanno cominciato a mettermi all'angolo, mi ci sono servite ore stesa sul divano per riprendermi. Non posso recuperare frammenti del mio passato senza che un terribile attacco di cefalea mi trapassi il cranio da parte a parte.
Secondo il neurologo prima o poi, dal caliginoso oblio di cui sono naufraga, i ricordi riaffioranno, ma dovrò dare al mio cervello il tempo necessario per riprendersi dal trauma subito. Sforzarmi significa sottoporlo a nuovo stress e procrastinare il ritorno della memoria, quindi ho deciso di cedere. Mi sono arresa e ho cominciato ad attendere che quel momento arrivi naturalmente.
Ho inziato a vivere la mia seconda vita cominciando dalle piccole cose. Mi sono sistemata nell'appartamentino dell'amico del dottor Hale, un certo Nathaniel Kane. Non l'ho mai visto, le chiavi mi sono state lasciate nella cassetta della posta senza nemmeno un biglietto, un contatto telefonico o ancor meglio un numero di conto su cui inviare una piccola somma di denaro come impegno ad occupare la casa nei mesi successivi. È sparito, dileguato proprio come i miei ricordi.
Tuttavia a differenza di quest'ultimi, non ho molto peso all'atteggiamento del signor Kane, anzi...con una scrollata di spalle ho liquidato il pensiero e mi sono trasferita, in fondo potrò chiamare e chiedere il suo recapito a Hale. Già...chiamare. Come potrò se non possiedo nemmeno il suo di numero? L'unico modo è passare per le linee della clinica, al pensiero di sentire di nuovo il timbro profondo e fortemente virile della sua voce un fremito d'eccitazione corre lungo la spina dorsale. Rammento il momento in cui con le sue mani grandi e calde come le fiamme dell'inferno mi hanno sfiorato il viso, i suoi occhi che mi guardavano con una punta di bramosia instillata nelle iridi ambrate, a pensarci su, il cuore prende a battere all'impazzata e le guance si accaldano di colpo dall'imbarazzo, il quale si ripresenta vivido, forte e destabilizzante come quel giorno.
Dimessa a quell'insensato disagio, abbandono il capo contro il bracciolo del divano e incrociando le caviglie l'una sull'altra mi tampono i palmi sul viso febbrile. Non posso chiamarlo, l'impaccio mi impasterebbe la lingua e mi renderebbe ridicola alle sue orecchie, d'altro canto se non trovassi il coraggio non potrei nemmeno ringraziarlo per quello che ha fatto per me, per cui non passerei solo per una maleducata ma anche per una laida ingrata.
«Siamo tra l'incudine e il martello, fagiolino» sbuffo, ridisegnando piccoli cerchi concentrici con l'indice all'altezza dell'addome.
Volente o nolente, tra qualche giorno dovrò tornare in ospedale per ulteriori controlli e una volta lì non potrò sottrarmi dal vederlo, ma fino ad allora sarà meglio lavorare su quest'inebetente attrazione fisica, presumibilmente dovuta al picco di estrogeni che mi rendono schiava di un perpetuo languore carnale.
Rimango così per un bel po', stesa sul sofà con il viso rivolto verso la piccola stufa a legna, che costeggia un angolo del mobile tv stile anni ottanta. Le lingue di fuoco guizzano tra tizzoni e scoppiettano allegramente, un piacevole tepore abbarbica l'aria rendendo l'intero ambiente più confortevole di quanto non faccia già l'audace color pistacchio del divano o il finto tappeto di pelle zebrato, che ricopre gran parte del salotto. Sebbene sia piccolo, l'appartamento è un vero gioiellino: la luce del sole, smorzata dalle enormi vetrate fumé che costellano la parete adiacente al televisore, bandisce la maggior parte della casa, dallo stravagante salottino alla cucina a vista e all'angusto ingresso, tramite il quale si accede non solo alla zona giorno ma anche alla camera da letto, anch'essa una miscela di materiali e tonalità sgargianti che messe assieme, stranamente, sembrano avere un senso proprio. Adoro l'eccentricità con cui il proprietario ha minuziosamente studiato ogni stanza, rende tutto così allegro e bizzarro, ma ciò che mi affascina di più di quei cinquantacinque metri quadri è la vista. Situato al penultimo piano di un palazzo che di livelli ne possiede ben quarantotto, dalle maestose finestre si può ammirare quasi tutta Chicago, dalla Willis Tower alla ruota panoramica del Navy Pier, ed è proprio volgendo lo sguardo in questa direzione che si ha la possibilità di scorgere il lago Michigan, quello dove il dottor Hale ama correre al mattino, lo stesso che mitiga l'aria con il suo effluvio salmastro e che spesso acuisce la corroborante nostalgia nel mio petto.
Presa di soprassalto, il sottile brontolio del mio stomaco mi induce ad aprire le palpebre, lievemente socchiuse per il dolce stato di assopimento fomentato dal continuo crepitare della legna. Mogiamente mi alzo e quasi strascicando le pantofole di velluto rosa mi diriggo in cucina. L'improvviso flagello della fame mi tortura il ventre in una morsa che, negli ultimi giorni, ho avvertito sempre più spesso; devo ancora abituarmi ai continui cambiamenti del mio corpo. Le nausee per fortuna sembrano avermi dato tregua, in compenso il mio olfatto è ancora molto sensibile e l'impulso di vivere con la testa nel frigo diventa di minuto in minuto sempre più allettante. Ma è proprio a causa di questa mia perenne e insaziabile voracità che nella credenza non vi è più nulla da poter mettere sotto i denti, pertanto sono costretta ad abbandonare il mio estroso nido per recarmi nella graziosa e invitante caffetteria, che ho scorto, solo un paio di giorni prima, a qualche isolato di distanza.
Mezz'ora più tardi l'aulente aroma di caffè e di waffle mi vezzeggia le narici, lo stomaco vuoto ruggisce in risposta. La vetrina, imbandita da abili mani, istiga all'ingordigia chiunque vi si accosti, tentandolo con fragranti pasta sfoglie ripiene di prugne o uva passa, ondeggianti budini e piramidi di cioccolatini colorati da mille zuccherini. Ancora pancakes, waffle, donuts e brownies, al solo guardare tutte quelle ghiottonerie la bocca mi si riempie di saliva, tanto mi stuzzicano il palato.
«Mi scusi» mi alzo sulle punte e, poggiando entrambi i palmi sul vetro del bancone, mi sporgo in avanti per farmi sentire meglio dalla cameriera addetta alle ordinazioni. «Potrei avere dei pancakes e una spremuta d'arancia?».
Soverchiata dai fumi della macchina del caffè, la ragazza si volta verso di me e sul suo volto acerbo d'adolescenza, si distende in un sorriso cordiale «certamente, può accomodarsi. Le porterò il suo ordine al tavolo».
Di rimando, ricambio la sua cortesia e con gli angoli delle labbra incurvati verso l'alto acconsento livemente. D'istinto scelgo di sedermi a uno dei tavolini rettangolari più isolati, quelli in fondo da cui si ha una panoramica completa della sala e da cui si è liberi di scrutare chiunque senza correre il rischio di essere scoperti. Non mi trovo ancora molto a mio agio a camminare tra la gente e per fortuna o per destino il locale non è affollato; si può degustare ogni genere di prelibatezza in tranquillità mentre le note, spleniche e suggestive, della musica blues si effondono in tutta la caffetteria, creando un soave sottofondo al tenue vociare dei commensali e al tintinnio delle tazze.
Caldeggiata dalla buona sorte, mi accomodo e dopo aver tirato fuori il mio fidato rotolo di giornale, adagio la borsa sulla seduta vuota al mio fianco. Non conoscono nulla di me, ma ciò non significa che non devo sapere cosa mi accada intorno. Sfoglio le pagine e leggendo i mastodontici titoli che svettano su articoli propagandistici e per lo più politicamente diffamatori, interessati a vendere quante più copie possibili, mi ritrovo a far scorrere lo sguardo tra gli annunci di scomparsa. Evito di rimuginarci troppo sopra quando tra le varie foto non vi trovo il mio viso, so di non doverci sperare eppure una sottile e acuta staffilata di sconforto arriva comunque a pungolarmi il petto.
Sono giorni che raccontando a me stessa la scusa di tenermi aggiornata sui fatti, lascio alla speranza la libertà di gonfiarmi il petto finché non arrivo a sfogliare queste dannate inserzioni e puntualmente ne rimango delusa, dovrei metterci una pietra sopra una volta per tutte.
«Ecco a lei la sua spremuta e i suoi pancakes» la graziosa cameriera, che può avere non più di diciassette anni, arriva con in mano il vassoio, colmo della mia ordinazione. Le sgargianti punte rosa del suo caschetto fuoriescono dal cappellino e lasciano scoperti i lobi, ampiamente dilatati da due plug bianchi, un piccolo piercing le appunta la radice del naso, perforandola come uno spiedo; un'anima punk si cela nell'esile corpicino della ragazza che denudata da tutto quel metallo, di piercing e borchie, possiede il volto di una ninfa innocente. Sebbene il suo aspetto o per meglio dire il suo stile balzano possa suscitare un certo dissenso in molti, ai miei occhi è bellissima così, forse perché in qualche modo anche io, come lei, mi sento diversa dalle altre persone, diversa dalla comune massificazione.
Sorrido caldamente e gettando uno sguardo al suo nome sul lato sinistro della divisa scura la ringrazio «grazie, Naike». Perfino il suo nome è particolare.
Incapace di temporeggiare oltre per i morsi della fame che si fanno sempre più dolenti, riposi il giornale nella borsa e stringo il bicchiere con entrambe la mani. Il sapore aspro e al contempo dolce mi inonda il palato e scendendo lungo l'esofago inabissa lo stomaco placandone le torsioni che mi flagellano da giorni.
Frattanto che mi concedo la mia lauta colazione, vengo richiamata dal leggiadro scampanellio dello scacciapensieri che batte sul vetro della porta d'entrata, è in questo momento che sento tutto il sangue affluire al cuore. Con la baldanza e il portamento di un Dio sceso in terra, il dottor Hale entra nel caffè e avanza verso il bancone. Un angolo della bocca mi infossa una guancia dal compiacimento, il medico con il camice è sicuramente un bel vedere, ma poterne apprezzare le linee asciutte e sode senza alcun impedimento della divisa è una vera delizia per gli occhi. Con il suo completo nero di alta sartoria, che non solo sottolinea il suo buongusto ma marca anche le sue ingenti possibilità economiche, cattura l'attenzione di ogni giovane donna presente; è la perfetta incarnazione delle loro più torbide fantasie. Come ammaliata, lo rimiro dall'alto in basso più volte mentre si sfila sensualmente il pesante soprabito e lo ripiega sul piccolo schienale dello sgabello semi alto: osservo con ossequiosa minuzia ogni porzione del suo corpo, dai suoi capelli castani perfettamente sistemati all'indietro, alle spalle larghe e vigorose capaci di sostenere qualsiasi peso, fino alle gambe costeggiate dal tessuto raffinato dei suoi pantaloni. Cavolo, è così attraente da farmi sentire a disagio.
Prima che possa voltarsi e accorgersi della mia presenza, riprendo il quotidiano in ambedue le mani e scivolo con il sedere verso il bordo della sedia, nascondendomi tra le ampie pagine d'inchiostro stampato. Non sono pronta a intavolare una conversazione con lui e soprattutto non sono presentabile, il mio aspetto attuale è forse peggiore dei giorni trascorsi sotto il nome di Jane Doe: con il naso lievemente congestionato dal freddo, di un rosso brillante come i bargigli di un volatile, e la chioma scura scompigliata dal vento sono pronta a spaventare i più intrepidi becchi in un campo di grano.
Rimanendo attenta a non farmi cogliere con le mani nel sacco, spinta dalla curiosità alzo di poco il mento, quel tanto che basta per osservarlo da sopra le pagine. Naike, con l'aria trasognante di chi ha la mente traboccante di pensieri sconvenienti, gli versa una tazza di caffè scuro, intanto l'affascinante neurologo si sistema sul bordo della sua seduta e, tenendo una gamba piegata e l'altra ben piantata a sostenere tutto il peso del suo corpo, con un gesto della mano invita galantemente qualcuno a prendere posto al suo fianco.
Soggiogata dal suo aspetto seducente non ho colto la presenza della sua accompagnatrice: essendo alle loro spalle e a una distanza di almeno una dozzina di metri, in cui le persone si muovono per raggiungere i propri tavoli, non sono in grado di dire se i suoi lineamenti siano aggraziati o meno, se abbia le iridi di un limpido azzurro o un vivace verde, tuttavia dalle curve toniche messe ben in mostra da un raffinatissimo tubino petrolio, lungo fino al ginocchio, posso giurare che sia poco più che trentenne. Inoltre dal modo confidenziale in cui i due parlano e dalla libertà che Hale si prende di far scorrere le dita tra le sue onde castane, comprendo che tra loro non vi sia alcun rapporto di amicizia quanto un legame più intimo e personale.
Sentendomi addosso l'imbarazzo del terzo incomodo, quasi di troppo per il sol guardare le loro svenevoli smancerie, come una spettatrice inopportuna distolgo lo sguardo e abbasso il capo sul quotidiano. Con noncuranza e vuota d'interesse leggo il titolo cubitale che, più imponente degli altri, troneggia sul taglio medio. Lo stomaco mi si stringe nuovamente, ma questa volta non è a causa della fame. Vederlo in dolce compagnia mi procura una sensazione strana, di malessere. Non è la prima volta che si approccia ad una donna davanti ai miei occhi; in ospedale è già capitato di osservarlo conversare con le infermiere o le ragazze della sua equipe, tuttavia mai in quei frangenti ne sono stata infastidita, anzi se per loro il neurologo era il serpente che tenta con impudici pensieri le innocenti figlie di Eva, per me era semplicemente il mio medico. Nonostante ciò con il passare dei giorni, proprio come lo strisciare sinuoso e silente di quel rettile, il ricordo di Hale si è insinuato nelle pieghe di ogni mio pensiero creando tra di noi un legame insolito e unidirezionale, un tripudio di viziosi impulsi del tutto immotivati per uno sconosciuto. Il solo ripensare a tutte quelle volte in cui, nei giorni addietro, ho sospirato in suo nome, mi sento sporca, colpevole per aver indirizzato tali fantasie su un uomo chiaramente impegnato.
«Raylee?».
Presa in contropiede, sobbalzo dalla sedia nell'udire quel timbro di voce che da un po' di tempo mi tortura facendomi eco tra gli orecchi. Timidamente e con incertezza, ripongo il giornale sul piano e sollevo le palpebre. Quando i nostri sguardi si allacciano il riflesso di un brillio sagace, di chi sembra aver letto i conturbanti pensieri nella mia mente, gli illumina le iridi, di colpo l'aria sembra rarefarsi a tal punto da mancarmi. «Dottor Hale...» boccheggio il suo nome preda dell'asfissia «cosa ci fa lei qui?».
Davanti alla mia ingenuità, confezionata con l'unico scopo di celare l'impaccio provocato dalla sua sola presenza, il dottore lascia che labbra si incurvino in un sorriso sincero, tanto sensuale da procurarmi una nuova pugnalata al cuore. «Quello che fanno tutti» allarga le braccia a indicare le persone attorno a noi che sorseggiano caffè «lei piuttosto...non aveva un appuntamento in ospedale quest'oggi?».
«No» raccolgo la tazza tra le mani e mi porto l'orlo alle labbra, concedendomi una lunga bevuta, non tanto per esigenze vitali quanto nella speranza che quella dose spropositata di vitamine possa darmi la carica necessaria per portare avanti la nostra conversazione. «Ho visto il dottor Holland ieri».
«Ha ragione, mi perdonami. Purtroppo mi è difficile ricordare ogni sua singola visita».
Dalle ricerche che ho fatto sulla vita privata di Hale non si sa nulla, tuttavia la fama del neurologo sembra precederlo in diversi stati d'America. Ha prestato servizio in molti ospedali prima di approdare al Johns Hopkins Hospital e diventare primario del reparto di neurologia. Per cui, oltre a una fitta lista di pazienti, ha anche un monte di responsabilità a cui far fronte, pensare di dover ricordarsi di ogni volta che dovrò recarmi in ospedale per i vari controlli, soprattutto se non sono legati al mio piccolo problema di memoria, è impensabile. «Si figuri, non mi aspetto che lei lo faccia». Dopotutto perché mai dovrebbe? Non è tenuto a farlo.
«Tutt'altro» corruga la fronte contrariato, «è una mia paziente e il suo percorso riabilitativo incide sul mio lavoro. L'operato dello psicoterapeuta, in questi casi, non deve scindere quello del neurologo. Io e il dottor Holland dobbiamo lavorare in sinergia per farsi che possa recuperare i frammenti del passato che ha perso, signorina Jenner».
«Capisco». Colpita nell'orgoglio dal suo interesse prettamente professionale nei miei riguardi, con un battito di ciglia scure porto la mia attenzione sulla piccola pila di pancakes, lievemente inclinata di lato, pronta a collassare sul piatto per via dello sciroppo d'acero che rende vischiosa ogni frittella. Sono uscita di casa con la voracità di un predatore della savana, pronta a divorare ogni singola briciola della mia colazione, mentre ora mi repelle perfino l'idea di dargli anche solo un morso.
«Posso accomodarmi?».
Il cuore mi balza in gola a questa richiesta inaspettata, nel contempo un rovello insorge dallo stomaco, ancora contratto dal disagio, e si concretizza sulle mie labbra «certo, ma...» Getto uno sguardo fugace alla sua mano sinistra, cercandovi il riflesso dorato di una promessa indissolubile di eterno amore che non trovo. Forse non è sua moglie, tuttavia le effusioni che poco prima li ho visti scambiarsi davanti al bancone sono inequivocabili «non so se la sua fidanzata...», la mia voce diviene flebile, incerta, alla ricerca di una conferma.
«Fidanzata?» diversamente da poco prima la linea naturale delle sue sopracciglia si incrinano, questa volta in un cipiglio di confusione, la stessa che si riflette sul mio viso.
«Sì, la ragazza con cui era al bancone poco fa» d'impulso inizio a osservarmi attorno ricercando tra i vari tavoli in rovere la figura snella e flessuosa della ragazza dai capelli di seta, frattempo il dottor Hale si sbottona elegantemente il soprabito, che soltanto in questo momento mi accorgo abbia rindossato, e si mette a sedere di fronte a me «si riferisce a Yvonne?».
Il neurologo distende il braccio lungo lo schienale della sedia al suo fianco e accavalla una gamba con una classe tipicamente d'altri tempi, padrone della situazione e del suo corpo come se niente possa sfuggirgli dalle mani se non per suo volere, a differenza mia che continuo ad agitarmi sulla sedia, sposando il peso da una gamba all'altra quasi abbia qualcosa di ispido a pungermi le natiche. «La ragazza con il tubino verde».
«Visto che siamo fuori dalla struttura ospedaliera, possiamo darci del tu?» per il tono basso e roboante con cui mi si rivolge alle mie orecchie quella appare la più ardente delle proposte. Muovo il capo in un lieve segno d'assenso, deglutendo buona parte della saliva che continua a stagnarsi nella mia bocca a causa dell'agitazione.
Con un ghigno maliardo e gli occhi ambrati affilati in un'espressione furbesca, piega il gomito e inclinando la testa di lato si porta l'indice alle labbra, sfregandole. Un gesto di riflessione dannatamente sensuale che induce i miei occhi a rimanere incollati su quel movimento lento e fuorviante, foriero di procaci fantasie che condanneranno per sempre la mia anima all'Inferno. Istintivamente stringo le gambe, nel mentre che un calore devastante fonde ogni organo del mio basso ventre; è impossibile per me non immaginare il dottor Hale, tra gemiti ovattati, lambire con tali movenze le mie di labbra, quelle più intime e nascoste che sento ardere all'interno della lingerie.
«Mi stavi forse spiando, Raylee?».
Di scatto sgrano le palpebre. «No, no» aprendo le mani davanti al viso tento in modo goffo di pararmi da quell'accusa, obiettivamente fondata «non mi permetterei mai, io...cioè voi...». L'ansia e l'imbarazzo si miscelano assieme come una mistura altamente nociva che mi impasta la lingua e rende paonazza, al pari di una scolaretta dinanzi al suo amato professore, il quale l'ha appena sorpresa a disegnare cuori in suo nome. Vorrei alzarmi da questo tavolo e fuggire via a gambe levate, se solo non mi facesse apparire ancora più sciocca di quanto non sembri già.
Una risata gioviale gli squassa il petto finemente celato dalla camicia bianca «stai tranquilla, stavo solo scherzando».
Richiamata da quella melodia fatale, la mia attenzione ricade sulla piccola porzione di pelle nuda del suo torace, lasciata dai primi due bottoni aperti alla mercé del mio sguardo e dei miei più viscerali desideri. Liscia e inebriata dalla sua costosa colonia, è un attentato all'autocontrollo di ogni povera donna che ha la sublime sventura di porsarvi gli occhi. Per evitare quello che a tutti gli effetti ha le carte in regola per essere definito un vero e proprio collasso mentale, volgo il capo evadendo il suo sguardo. Casualmente noto una donna dai ricci dorati osservarlo, o per meglio dire radiografarlo dall'altro capo della sala. Con il labbro inferiore, pieno e armonioso, stretto negli incisi sembra voler soffocare un'insana e primordiale libidine che le delapida il respiro e la rende schiava di un inconsueto languore.
«Tutto bene?» sportosi di poco in avanti, il medico adagia entrambi gli avambracci sul tavolo e intreccia le falangi tra loro, perscrutando preoccupato la mia reazione «non intendevo metterti in imbarazzo, se così è stato ti chiedo perdono».
La sua premura mi scalda il cuore, tuttavia non per questo la tensione mi dislega dalle sue acerrime spire. Sfregandomi i palmi sul tessuto dei miei banalissimi jeans premaman, inibitori di qualsiasi perversione, punto gli occhi nei suoi «no, non scusarti, piuttosto Christopher...». Pronunciare il suo nome ad alta voce manda su di giri il mio cuore e in cortocircuito ogni neurone, tanto che per un attimo dimentico cosa volessi dirgli.
«Chiamami pure Chris» il sorriso malizioso che gli increspa le labbra non mi salva dal pernicioso abisso, su cui sto camminando pericolosamente dal momento del suo arrivo al tavolo, piuttosto mi ci spinge dentro.
Chiudo le falangi in un pugno e, portato alle labbra, mi schiarisco la voce con un paio di colpi di tosse. «Yvonne, giusto?» con la finta disinvoltura di chi non è coinvolta emotivamente dall'argomento, faccio la mia mossa lanciando sul tavolo una richiesta di maggiori dettagli.
«Si» Hale assottiglia lo sguardo come se studiasse il mio corpo e si aspettasse da esso anche una minima reazione involontaria, lascia scorrere alcuni secondi, il tempo necessario per farmi cuocere nel brodo della mia stessa curiosità. «Mia sorella...è tornata in città da poco».
«Oh...» è tutto quello che riesco a dire. Di fronte alla realtà il mio cuore pare sollevarsi da un peso opprimente. «Quindi non sei...impegnato?» getto nuovamente il mio amo con un sorriso impudente, incoraggiata dalla sua rivelazione.
«Per il momento no, ma chissà...forse la donna della mia vita è qui da qualche parte» da sotto la corona di ciglia le orbite brillano di malizia, l'ambra nelle sue iridi sembra liquefarsi, per poi miscelarsi alle piccole pagliuzze ramate che orlano la pupilla come la florida corolla di un fiore, creando una combinazione di tonalità uniche e ammalianti come la tentazione che incute il suo possessore.
«O forse l'hai già incontrata e non hai saputo riconoscerla».
Chris alza un angolo della bocca in un sorriso provocante che riaccende la fiamma tra le mie gambe, lo zigomo diviene più prominente. Solo in questo momento noto un dettaglio che prima mi è sempre sfuggito: un neo punteggia il suo viso appena sotto la gota sinistra, un dettaglio che invece di sporcarne i tratti li rende particolari.
«Ricorda una cosa, Raylee...a me non sfugge mai nulla...». Nella laconica pausa che ne segue la tensione pare arrivare alle stelle, il medico inizia a tamburellare le dita sul tavolo e il suo sguardo diviene sempre più affilato, fiammeggiante. I suoi occhi sono braci incandescenti in cui scorgo un essere latente, del tutto diverso dall'uomo pacato che siede di fronte a me: una creatura cupida e riottosa, impossibile da sottomettere. Dall'anima corrotta da ogni empietà.
Non ne sono spaventata, anzi per qualche assurdo motivo arrosisco; una parte di me vorrebbe scoprire di cosa fosse capace, abbandonarsi deliberatamente alla sua furia e sentirne gli effetti sulla propria pelle come la più traviata delle anime umane. «Lascio solo agli altri la libertà di credere che ciò accada».
Inebetita e accaldata come non lo sono mai stata, mi abbandono sullo schienale e tento di refrigerarmi dirottando il nostro discorso su un argomento meno fraintendibile. Sbircio le sue falangi, lunghe e ben ordinate, che una per volta ricadono sul piano, quando un fugace raggio di sole si staglia sulla preziosa pietra verde dell'anello che indossa sul mignolo destro. «È davvero bellissimo» mi complimento, indicando il gioiello totalmente d'oro con il mento.
«E' un cimelio di famiglia, lo possiedo da quando ne ho memoria» senza mai svincolarsi da me, Hale lo sfila con attenzione dal dito e stringendolo tra il pollice e l'indice lo avvicina al mio viso, permettendomi di osservarlo più da vicino. Le minuziose cesellature, che ornano per intero il diametro con eleganti motivi arabeschi, sono un'esultanza alla bellezza che culmina con uno smeraldo dal taglio ovale incastonato in un corona di piccoli diamanti. «In antichità si pensava che lo smeraldo fosse una gemma riservata ai reali, simbolo della verità, della giustizia e del rinnovamento...tutti poteri che un tempo venivano rimessi nelle mani di un solo uomo, il re».
«Quindi tu saresti un re?» domando sarcastica.
Chris ride, dilettato dal mio lato ilare, prima di far scorrere nuovamente l'anello lungo il dito e ammirarne il pregiato sfavillio alla luce del sole «chi lo sa, forse lo sono stato in una vita passata».
«Non so se ne esista un'altra, ma sinceramente non mi interessa scoprirlo. Vivere una vita incasinata come la mia mi basta e avanza». Sospiro portandomi in avanti una ciocca scura per accarezzarne delicatamente le punte, innervosita al solo pensiero di prendere in considerazione tale eventualità. Ho perso la memoria, sono sola in una città sconosciuta e tra poco avrò un bambino a cui badare, assicurargli un futuro dignitoso che non possiedo nemmeno per me stessa. Se non fosse stato per Christopher non avrei nemmeno un tetto sopra la testa, avrei dovuto dormire dentro uno di quei sudici scatoloni in qualche ghetto di periferia «a questo proposito vorrei ringraziarti per avermi aiutato con l'appartamento».
«Figurati...te l'ho detto, Nathaniel mi doveva un favore. Piuttosto ti sei messa in contatto con l'ente per il reinserimento sul lavoro?».
Non so dire quanto tempo è passato da quando abbiamo iniziato a parlare, tuttavia in questo momento mi accorgo che da un po' non mi sento più sottopressione. Ora conversare con lui mi è del tutto naturale, come se avessi ritrovato un amico perso da tanto tempo, i nervi sono rilassati e persino un leggero languore torna a rianimare il mio stomaco.
Anche se freddi e mollicci, raccolgo la forchetta dal tovagliolo e l'affondo nel piatto per tagliare un pezzo di pancake prima di portarlo alla bocca e assoporarlo con tutta la dovuta tranquillità. Per un attimo ho la sensazione che il neurologo indugi sulla forma tonda e turgida delle mie labbra, quasi se ne senta attratto. Tuttavia estirpo subito quest'assurdo pensiero dalla mia mente prima che vi metta radici e mi incoraggi a fantasticare su avvenimenti che mai si concretizzerebbero nella realtà. «Ho appuntamento tra un paio di giorni alle 17:00. Sette fermate di metro, un autobus e sono arrivata» quasi bofonchiando, con la bocca piena e nel un palmo della mano libera, ripeto le poche indicazioni stradali che mi ha fornito malevolmente l'acidula segretaria con cui ho parlato al telefono per fissare un appuntamento.
«Non esiste!» visibilmente contrariato Chris alza un sopracciglio assumendo un'espressione buffa, del tutto fuori dal contesto del suo completo impeccabilmente azzimato «ti accompagno io».
«Cosa?» la posata trema tra le dita, sorpresa da quella che pare essere più un'imposizione che una cortese proposta.
Le labbra del medico si dischiudono per rispondere, ma il suono di un cellulare richiama la sua attenzione. «Scusami un secondo». Infastidito per essere stato interrotto, sospira pesantemente e controvoglia sfila l'iPhone dal taschino interno della giacca.
Con la scusa di massaggiarmi il collo, avvolgo una mano attorno alla base della nuca e reclino la testa per scorgere il nome Damon sullo schermo. So quanto sia da maleducati intromettersi negli affari altrui, ma la curiosità di sapere chi lo stia chiamando di domenica mattina mi sta corrodendo lo stomaco.
«Allô?...Oui...Des problèmes?».
Francese? Sono consapevole che sia una persona colta e che, nonostante la sua età sia inferiore alla media di quella dei suoi colleghi, porti sulle spalle il peso di un bagaglio culturale tanto rigoglioso da far invidia ai più grandi professori in cattedra, ciononostante mi sorprende sentirlo parlare in modo così fluido, quasi ordinario, una lingua che non sia l'americano.
«Je comprends, mais ne pouvez-vous pas régler la situation vous-même?» la bocca sottile che per la maggior parte del tempo si è incurvata in sorrisi maliziosi, ora è formata da due linee dure, un travaso d'irritazione lo rende irrequieto poiché comincia a picchiettare nervosamente l'anello sul tavolo; chiunque sia questo Damon sta mettendo a dura prova i suoi nervi. «Donne-moi dix minutes et je serai avec toi».
«Qualcosa che non va? Un'urgenza in ospedale?» chiedo adagiando delicatamente una mano sul ventre, preoccupata dal suo repentino cambio d'umore, il palato è già invaso dall'amara sensazione che di lì a poco rimarrò sola. In fondo non potrei biasimarlo se accadesse, qualunque giorno della settimana sia se il dovere chiama la sua etica professione lo obbliga a risponde, in qualsiasi luogo o situazione egli si trovi.
Proprio come ho presagito dall'urgenza farcita nella sua intonazione, Christopher si alza in piedi e rinforcando i bottoni del soprabito nelle asole si scusa «perdonami Raylee, ma ora devo proprio andare».
«Certo» sussurro a fior di labbra «non preoccuparti».
«Ci vediamo tra un paio di giorni, ti passo a prendere a casa alle 16.30» vedendomi incupita Hale distende gli angoli della bocca in un sorriso raggiante promettendomi di tenersi libero per l'intero pomeriggio, prima di voltarsi e andar via con la stessa sicurezza e disinvoltura con cui è arrivato.
Sciogliendomi in una risata isterica, l'emozione inizia a scalpitarmi nel petto, come un essere vivo più grande del seno stesso che lo contiene; devo ritenerlo forse un appuntamento?
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