09 - Il dolore per ricordare
"Con la tua immagine e con il tuo amore, tu, benché assente, mi sei ogni ora presente.
Perchè non puoi allontanarti oltre il confine dei miei pensieri: ed io sono ogni ora con essi, ed essi con te"
William Shakespeare
ALEX
Ho guardato la mia immagine riflessa nello specchio. L'ho fatto per un solo istante, poi subito ho distolto lo sguardo. Non riesco a soffermarmi su di essa, detesto ciò che vedo con tutto me stesso. Odio i segni, ormai madreperlacei, che marchiano il mio volto, ma ancor di più odio quelli che non posso vedere, ma che so essere incisi sulla mia anima.
Mille volte la vita mi ha fatto a pezzi per poi obbligarmi a ricompormi e ogni volta mi lascio alle spalle un pezzo di me, fino ad arrivare al punto di non aver più nulla da ricostruire. Quel bambino sorridente che passava interi pomeriggi a giocare con le sue macchinine si è perso del tutto durante gli anni, tanto da non riuscire più a riconoscere l'uomo al di là dello specchio. Gli somiglia nell'aspetto, ma non è lui.
Ne ha preso il posto ed io lo odio.
Stringo forte le dita attorno alla porcellana fredda del lavabo. Ma rabbia cresce tanto da non riuscire a contenerla oltre, più le sue spire si annodano attorno al mio cuore più le mie mani allentano la presa, finché non ne vengo sopraffatto. Con tutta la forza che ho mi scaglio contro l'immagine riflessa, non voglio più vederla.
Un rumore assordante di vetri infranti si mescola alle mie grida, alle rabbia, alla disperazione. Poi...il silenzio. I pochi frammenti dello specchio rimasti incastrati nella cornice bianca si tingono di rosso, le nocche sbucciate bruciano e piccoli rivoli di sangue prendono a correre lungo le falangi.
La pioggia di vetri scricchiolasotto i miei piedi nudi, avverto alcune schegge conficcarsi nella carne, ma del dolore non vi è traccia. Le mie sinapsi sono scollegate, proprio come la mia mente è dislocata, lontana dal mio corpo, alla ricerca di un modo per sopravvivere. Ancora una volta.
Non ho preso parte all'identificazione del cadavere, mi sono rifiutato di osservare i resti di un corpo arso dalle fiamme ed accettare che quell'ammasso di cenere e carbone sia la mia El.
Immagino di essere all'interno dell'obitorio, avvertire il terribile odore di carne bruciata pervadermi le narici, sentire le urla incessanti di Anna perforarmi i timpani come migliaia di accordi stonati, tutto questo solo per poter vedere i rimasugli di un corpo che non è il suo.
No, non è il suo. Non è lei. Non può essere lei. Tuttavia le immagini delle telecamere di sorveglianza della stazione parlano chiaro: El è stata lì, ha acquistato un biglietto e è salita su quel maledetto autobus.
Le impetuose raffiche di vento hanno alimentato le lingue di fuoco, originate nel vano motore, divorando l'intero veicolo; per i passeggeri è stato impossibile uscire dalla gabbia di lamiere incandescenti. In pochi minuti quelle persone sono state bruciate vive, insieme a loro anche la mia El.
Per tre giorni chiuso in camera al buio, steso sul letto con gli occhi persi nel vuoto ad osservare l'oscurità che mi avvolge, e con cui ho dovuto cominciare a prendere confidenza poiché da oggi sarà lei a tenermi compagnia per il resto della mia vita, ho rifiutato la realtà: lei è morta.
Il barlume di speranza, che fino al giorno del mio risveglio, mi ha tenuto in vita ormai si é spento del tutto. Lo stoppino non brilla più di luce, si è arreso ai venti del destino e annerito adesso fuma in silenzio lasciando che nell'aria si disperda per sempre, insieme a quella sottile e ondeggiante nuvoletta nera, l'ultimo briciolo di umanità che ho.
Eleonor è morta, di me rimane solo un gruppo di ossa deambulanti, prive di anima. Mosse unicamente dall'odio più profondo verso me stesso, verso chiunque mi circondi solo per il semplice fatto che noi possiamo respirare ancora, mentre il corpo del mio amore è privo del soffio della vita, presto chiuso in una scatola di mogano e seppellito sotto cumuli di terra fredda.
Verso quel Dio infame, che tanti osannano ma che io odio ogni giorno sempre di più, colpevole di ciò che è accaduto quanto le fiamme che hanno bruciato le sue membra.
Il cielo si veste a lutto, le ultime gocce di pioggia scendono soavi dal soffitto di nuvole grigie. Lieve battono sul vetro della mia finestra, quasi mi sembra vogliano scandire il ritmo del mio cuore infranto e diffondere questa sinfonia lenta e triste, che suona nel mio petto, nell'intera stanza.
Sono stanco. Stanco di soffrire. Da sempre non facio altro. Adesso aspetto quella goccia in più di sofferenza che faccia straripare ogni cosa dal vaso, quella che mi conduca all'esaurimento. Però nonostante abbia perso l'amore della mia vita e mio figlio quel momento sembra ancora lontano, il vaso maledetto pare ampliarsi e la mente diventare sempre più lucida.
Riesco a sentire fin troppo bene il dolore conficcarsi in ogni organo, ostruirmi la gola come migliaia di sassolini e torcermi le viscere in un doppio nodo. Sono stremato, sfinito. Non voglio sentire niente di tutto ciò e se l'esaurimento non arriva a portarmi un po' di quiete devo provvedere da solo.
Mentre guardavo in loop i fotogrammi degli ultimi minuti di vita di Eleonor, ho annegato i pensieri nei fiumi narcotici dell'alcool, impedendo al mio cervello di elaborare qualsiasi informazione poiché già so che qualsiasi essa fosse sia non farebbe altro che far sanguinare ulteriormente il mio cuore.
Come un automa mi avvio nella mia camera e scosto le tende della finestra, la fioca e tetra luce di questo grigio pomeriggio inonda la stanza e corre sul mio viso per baciarmi gli zigomi ancora inumiditi dal pianto.
Si, ho pianto. Pianto come un bambino.
Ho versato tutte le lacrime che per anni sono riuscito a trattenere sotto le palpebre. Sono ben venticinque anni che non le sentivo correre sulle gote, ho impedito al dolore di rigarmi il viso persino il giorno del funerale di mia madre. Eppure adesso non ci sno riuscito.
Come potrei farlo? Il dolore che grava sul mio cuore è il più atroce che abbia mai avvertito.
In un attimo il mio mondo è andato in frantumi. Ho perso la mia El, mio figlio e con loro la mia anima. Non mi è rimasto più niente. Niente per cui valga la pena anche solo stare alla luce del sole.
Il rombo del motore del Pick-up di Eleonor arriva prima che la lamiera scura faccia la sua entrata nel viale. Sono andati a prenderla con la sua auto.
Un debole sorriso sfiora le mie labbra per poi abbandonarle subito dopo con la stessa velocità con cui si dissolve un respiro su di un vetro. Ci siamo amati su quel cofano ed ora a pochi centimetri da quello stesso punto viene trasportata priva di vita.
«È arrivata».
La voce di Matt è debole, spezzata come non lo è mai stata. Quando mi volto a guardarlo negli occhi vi trovo il riflesso della mia sofferenza.
Annuisco e lo seguo senza fiatare scegliendo il silenzio alle parole senza senso. In un tacito accordo abbiamo deciso di tenerci stretto il nostro dolore, perché quello è l'unica cosa che ci è rimasta.
Dovrò convivere anche con lui, viverci attraverso, perché nonostante il tempo so che non se ne andrà mai. Non lo dimenticherò. Forse lo nasconderò in qualche frigido sorriso, ma mai avrò la forza di cancellarlo. In tutta sincerità, forse, non voglio nemmeno farlo.
Abbandonare questo dolore significa abbandonare il ricordo di El, e questo non me lo posso permettere. Non voglio dimenticarla.
Non voglio dimenticare il giorno in cui l'ho rivista per la prima volta, quanto l'ho amata.
Non voglio dimenticare nulla di lei, quello che siamo stati.
Non voglio dimenticare che è finita, che noi siamo finiti e che non torneremo mai.
Tra le mie piccole braccia tremava come una foglia scossa dai primi venti di Ottobre. Un torrente impetuoso sgorgava dalle ciglia scure per infrangersi contro le sue manine, sotto le quali cercava di trattenere le urla di terrore. Ostentando un coraggio che non possedevo, la tenevo stretta al mio petto, coprendole le orecchie per non farle udire il graffiante stridere degli artigli contro la porta.
Al pari di un animale selvaggio che aveva fiutato la sua preda preferita, l'essere immondo continuava a battere contro il laminato, mentre con falsificata voce femminile mi ordinava di aprire e consegnarle la dolce bambina al mio fianco.
«La voglio, dammela subito ragazzino!».
Ferocia e disumanità farcivano ogni singola sillaba, spingendoci contro le dure maioliche della vasca da bagno, atterriti. La luce, che filtrava dalla fessura sottostante la porta, si riflettava sul pavimento lucido riducendosi a sottili fasci dorati ad ogni movimento convulso dei suoi piedi. I perni dei cardini tremavano ad ogni pugno, di lì a poco la porta avrebbe ceduto e noi saremmo finiti nelle sue grinfie.
La strinsi ancor di più contro il mio corpo, pronto a farle da scudo non appena l'essere oltre la soglia avesse fatto il suo ingresso. Inginocchiati sul pavimento del Blue Swallow, guardavo i suoi occhioni scuri fissare la precaria barriera di legno, terrorizzata emetteva sospiri soffocati.
Presto, era troppo presto per una bambina di soli cinque anni; eppure lei lo aveva scoperto. I mostri esistevano e non si nascondevano sotto il letto, bensì tra gli esseri umani ed ora, proprio oltre quella porta, ve ne era uno pronto a trascinarla via. Stava vivendo un incubo, il peggiore che la fantasia di una bimba di quell'età potesse mai confezionare.
«Alex, ho paura».
Le esili dita macchiate dai pennarelli, utilizzati per colorare durante il pomeriggio, strinsero i lati della mia felpa, la fronte premuta contro il mio sterno nel tentativo di nascondersi.
«Stai tranquilla».
Socchiusi gli occhi accarezandole la lunga treccia francese, disfatta dalla corsa. Presi le distanze, le mie mani scivolarono sulle guance arrossate, con il pollice raccolsi un lacrima che brillò sotto la luce anonima del neon.
«Ci sono io qui a proteggerti, Eleonor».
La piccola El alzò il mento alla ricerca dei miei occhi, una strano luccichio le accese le iridi color cioccolato.
«Me lo prometti?».
Era un promessa ardua da fare per un bambino più grande di lei se non di tre anni, che non aveva nemmeno mai arrotolato una rivista per uccidere un ragno, ma senza soffermarmi troppo a pensare saltai dal dirupo dei se e dei ma e promisi.
«Si, te lo prometto».
«Signore Iddio, con la tua misericordia coloro che sono vissuti nella tua fede trovano la pace eterna. Benedici questa tomba e manda il tuo Angelo a vegliare su di essa...».
Le altisonanti parole teologiche scaturite dalla gola del prete e l'odore dell'incenso, pungente e legnoso, mi strappano a quel frammento dolce amaro di un tempo lontanissimo per riportarmi nell'inutile presente.
Attorno al feretro, nel mezzo di piccole folate di vento gelide per un inverno ormai alle porte, una decina di persone si stringe nei loro cappotti scuri. Anna dondola sui talloni e, gemendo di tanto in tanto, tampona con un fazzoletto le argentee lacrime che distillano dagli occhi arrossati. Le sue spalle singhiozzanti sono avvolte dal braccio di mio padre, che incostrandone una nel palmo, sembra essere l'unico motivo per cui può reggersi in piedi.
Un intrepido, ma debole raggio di sole riesco a farsi spazio tra le nuvole, il tepore mi pervade la guancia come una mano calda che ti accarezza. Incastono la fronte tra il pollice e l'indice per proteggermi gli occhi da quel seppur blando sbalzo d'illuminazione e tendo il collo per andargli incontro.
«El!». Le labbra mimano il suo nome e la voce fuoriesce lieve, inudibile. Il braccio torna nuovamente a rilassarsi lungo il fianco, mentre ad occhi chiusi mi godo questa sublime sensazione, rammentando il tocco delicato delle sue dita sul mio viso. Lo sfondo nero delle palpebre si rischiara, il suo bellissimo volto affiora dai ricordi portando il sole in queste fitte tenebre, glabre di speranza.
La bocca carnosa e vermiglia mi sorride dolcemente, di ambra liquida sono i suoi occhi e, velati dalla tristezza, mi osservano nostalgici di un futuro di cui il destino infido ci ha privato.
Il calore pian piano, però, inizia a venir meno, il viso etero della mia dea si dissolve assieme quell'unico scampolo di luce.
Quando riapro gli occhi il cimitero si è annebbiato dall'infittirsi delle nubi scure, foriere di tempesta, che un poco alla volta hanno invaso il cielo, di nuovo. Un violento fragore sovrasta la voce ieratica del presbitero, per un secondo cala il silenzio. Una goccia di pioggia, enorme, pesante e traslucida, come una lacrima sovrumana viene giù dritta e rapida dall'alto colpendo con un tonfo il duro mogano della bara. I fragili petali dei tulipani bianchi, che ne ricoprono il dorso, spinte dal vento perturbante, ondeggiano selvaggiamente.
Con dolente lentezza, il feretro viene calato fino a scomparire dinanzi ai nostri occhi. Al suo posto una lastra di granito fa la sua entrata, su di essa il nome di El è inciso in un freddo stampatello, diretto e spietato proprio come l'amara realtà che mi ha investito senza alcuna remora. Al suo fianco isolate dalle altre, un'altra lapide si erge che, logorata dalle intemperie, la eguaglia per stile e grandezza. È quella di Daryl Lawrence.
«Ho conosciuto Daryl quando avevo vent'anni, così intelligente, gentile e incredibilmente affascinante che era impossibile non innamorarsene», la foschia di pensieri, che mi subissa la mente, si dirada d'improvviso quando le parole di Anna mi colgono di sorpresa, facendomi sussultare. Volto leggermente il busto e vedo la donna venirmi incontro con un sorriso bonario ad effigerle un angolo della bocca. Giunta al mio fianco mi prendo un secondo ad osservarle il profilo smunto dalla sofferenza: i piccoli solchi, che scandiscono lo scorrere del tempo sul suo corpo cesellandole la fronte e le tempie, in poche ore sembrano essere più profondi, l'incarnato normalmente roseo è quasi opalescente. Pare essere invecchiata di dieci anni.
«Sembra avessi trovato l'uomo perfetto», confesso con un tono di voce appena udibile, riportando gli occhi sulla fredda lapide.
«Oh no, non lo era per niente», pianta la punta in metallo del suo ombrello nel terriccio umido per poi volgere uno sguardo elegiaco alla tomba di suo marito, «aveva i suoi difetti: era smemorato e maledettamente testardo, un connubio letale per i miei nervi».
Anna espira aria dalle narici, sorridendo a mezza bocca nel rivivere, forse, un giorno lontano.
Le persone che gravitano attorno a noi con la loro asfissiante presenza, ad uno ad uno preso la strada di casa, mentre noi rimaniamo bloccati in limbo muto per alcuni secondi lasciando alla pioggia, ad ogni goccia sempre più intensa, il compito di riempirlo. Dovrei dire qualcosa, confortarla ma non ne sono in grado, la mia mente esente di qualsiasi cosa che non sia il ricordo della mia El, è incapace di intavolare qualsiasi argomento, così mi limito ad abbassare lo sguardo con mestizia.
Rimango sospeso tra le gelide folate di vento e la pioggia battente, che ormai ha reso di piombo i miei vestiti, tenendo il capo chino mentre Anna si premura di aprire il suo ombrello e trovare riparo al di sotto della tela nera.
«Perdonami», la voce mi si incrina in gola a causa del viluppo di lame che la ostruisce.
La donna aggrotta le sopracciglia sfoltite dal tempo e, frastornata da quest'improvvisa richiesta di assoluzione, inclina leggermente la testa in avanti per osservarmi in volto, nell'inane tentativo di coglierne la risposta in un mio cipiglio. Ma le mie membra sono immobili, imperscrutabili.
«Per cosa?».
Il timbro materno e caldo, è un balsamo per le ferite che dilaniano la mia anima, mi sento rinfrancato al punto di riuscire a sollevare la testa e immergermi nelle sue iridi. È strano, ma i suoi occhi hanno sempre avuto la capacità di infondermi un senso di quiete, uno stato di pacatezza che rabbonisce il mio animo da sempre tormentato e con il quale sono costretto a regolare i conti ogni giorno, forse perché quello azzurro, assimilabile ad un cielo privo di nuvole, mi ricorda tanto quello di mia madre.
«Avevo promesso di proteggerla, invece...ho fallito».
Oltre ogni mia aspettativa Anna, restringendo le palpebre attorno agli occhi stanchi, scuote lentamente la testa, in un severo seppur amorevole segno di rimprovero. Le dita guantate si stringono in un pugno, che adagiò mollemente tra i seni.
«Non hai nulla di cui farti perdonare, grazie a te Eleonor è riuscita a trovare ciò che molti si affannano a cercare per una vita intera, senza mai ottenere alcun risultato: l'amore».
Sentir pronunciare a voce alta il nome di El mi trafigge il petto, un'annichilente sensazione di colpa mista a malinconia mi abbranca il cuore per torcerlo in un'insidiosa morsa. «Ma il mio amore non è stato sufficiente. Sono stato io a risvegliare Lilith, è colpa mia e della melma che continuo a trascinarmi dietro, impedendomi di vivere la mia vita», compunto strofino una mano sul viso, dalla fronte al mento, «nella mia vita ho salvato centinaia di persone, nel tentativo di porre rimedio agli errori del passato, eppure ancora una volta non sono riuscito a proteggere la donna che amavo».
Socchiudo le palpebre, adagiando la nuca sul cappuccio della felpa che spunta oltre il colletto del trench scuro. Lascio serpeggiare le lacrime sulle tempie finché non si intersecano tra i capelli biondi, conscio che la pioggia fresca mi sia d'aiuto a nascondere quest'ingiurioso ed avido crollo emotivo; non solo il mio sguardo è disciolto, ma anche il mio petto è corroso dal tormento. Tuttavia Anna riesce a cogliere il funesto maremoto che riempie d'acqua i miei polmoni con l'intento di portarmi a fondo, tra freddi e reconditi fondali dove non vi è altro che solitudine e oscurità, e a trarmi in salvo.
Cautamente allunga un braccio, il velluto dei suoi guanti mi vellica una guancia ispida, lasciata incolta dai giorni trascorsi a piangermi addosso. Abbasso lo sguardo a quella carezza, cercando di evitare le sue iridi cerulee per sentirmi meno colpevole.
«Non addossarti colpe che non hai. Nessuno poteva salvarla dalle tenebre che risiedevano nel suo cuore».
Anna si sbaglia, come enuncia il mio nome io sarei dovuto essere il suo difensore, avrei dovuto proteggerla da ogni male e salvarla qualora esso si fosse insediato in lei. Il mio inequivocabile silenzio termina la nostra breve conversazione, osservo la figura di Anna voltarsi e incamminarsi verso i quieti sentieri del cimitero. Lei può andarsene, tutti possono farlo, tranne quelli che sono quì sepolti sotto strati di terriccio, come la mia El. Anch'io potrei andare via, ma il mio cuore è lì, tumulato anch'esso sotto metri di terra, fredda e umida.
Non riesco a muovere un passo, non voglio muovere un passo.
Lasciare quel posto è come lasciare la mia El, e io non voglio.
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