02 - Una bicicletta verde acido

Un buon amico è per tutta la vita,
un legame con il passato,
una strada per il futuro,
la chiave per la salute mentale in un mondo pieno di matti.
Lois Wyse

MATT

Il suono che scandisce i battiti del suo cuore è diventato il mio nuovo compagno. Quella macchina da due giorni è l'unico legame che ho con il mio migliore amico. Attraverso di lei riesco a sentirlo vicino. Quando entro in quella stanza, ormai simile a quella di un ospedale più che a una camera per gli ospiti, parlo con lui e quel rumore cadenzato aumenta il ritmo, segue il suo cuore che galoppa selvaggio al suono della mia voce. A volte credo che mi senta o perlomeno è quello che spero accada con tutte le mie forze.
Mi appoggio sul bordo della sedia di fianco al suo letto. Osservo il suo petto alzarsi e abbassarsi, le palpebre vibrano non appena gli occhi si muovono sotto di esse; sta sognando.
Con il cuore stretto dall'angoscia più profonda comincio a pensare a cosa potrei dirgli quando riaprirà gli occhi, con quali parole potrò spiegargli che se n'è andata senza lasciare tracce? Dovrò utilizzare tutta la delicatezza e il tatto di cui sono capace, anche se so perfettamente che la sensibilità non impedirà al suo cuore di frantumarsi in mille pezzi, ma almeno devo cercare di addolcirgli la pillola in qualche modo. Non so cosa ricordi dell'accaduto, ma semmai ne avrà poca memoria conoscendo il soggetto si intestardirà finché non avrà scoperto la verità, tenerlo all'oscuro non sarebbe una buona idea, lo farebbe solo infervorare ancor di più.

Guardo la ferita appena sotto la clavicola, sulla fasciatura che la ricopre è apparsa una macchiolina rosa, deve aver ripreso a sanguinare. La lama è entrata in profondità, ma per fortuna non ha lacerato la vena.
I miei occhi vagano sul suo corpo statuario e malconcio, inciso dai muscoli e dalle cicatrici, per poi ritornare al suo viso. I suoi lineamenti sono distesi, rilassati. Sembra quasi dormire serenamente. Ne studio ogni particolare dalle sue leggere lentiggini che gli ricoprono gli zigomi e il dorso del naso leggermente all'insù alla piccola cicatrice sulla fronte, a sinistra appena sotto l'attaccatura dei capelli biondo cenere.
«Mi manchi, fratello!».

Da circa un'ora aveva smesso di piovere, l'aria era ancora intrisa di quell'odore terroso e pungente. Un leggero vento soffiava per le strade, portando con sé tutta l'umidità dei giorni appena trascorsi.
Balzai giù dalla bicicletta e spingendola per il manubrio la parcheggiai vicino a quella verde acido di Alex. Era già arrivato, puntuale come un orologio svizzero.
Non appena girai l'angolo, oltre la rete del campetto vidi il mio migliore amico correre verso il canestro. Faceva rimbalzare il pallone dal suo palmo al terreno con vera maestria, quasi fosse un bambino prodigio. Una piccola stella nascente del basket. Mi avvicinai silenziosamente e tenendomi in un angolo mi finsi un telecronista di una partita immaginaria.
«Miller scatta in avanti, si fa strada tra gli avversari. Si avvicina al canestro signori e...».
Il bambino dai capelli dorati sorrise, le guance accaldate si gonfiarono. Incitato da quella recita prese velocità, rapido come una saetta, corse verso il canestro e tirò.
«Segna signore e signori. Alexander Miller, il diamante della stagione, segna il punto decisivo!».
Il pallone passò nella rete, che si agitò come un colpo di frusta, e rotolò per il campo esausto, ma allo stesso tempo soddisfatto della sua vittoria. Alex si piegò in due, intrappolando le ginocchia nei palmi, per riprendere fiato. Quell'ometto di undici anni, dagli occhi verdi come i boschi e dai capelli folti ed arruffati, mi guardava immobile mentre i suoi polmoni tornavano a lavorare in sicurezza.

«Sei in ritardo! Cosa hai lì?».
Il tono severo della sua voce mutò improvvisamente, quasi si addolcì, quando con il capo indicò le mie ginocchia. Abbassai lo sguardo e raggiunsi la parte del mio corpo che tanto aveva catturato l'interesse del mio amico. I jeans erano leggermente strappati e appena al di sotto il sangue zampillava dalla mia pelle coagulandosi in piccoli puntini rossi.
«Per la fretta sono caduto dalla bici, ma non ti preoccupare. Non mi sono fatto nulla!».
Cercai di minimizzare, ma ad ogni passo verso il mio amico il tessuto rigido dei jeans sfiorava le ferite accendendo un fuoco all'altezza delle rotule.
«Sei sempre il solito impiastro!».
Un sorriso si allargò sulle sue labbra e la dentatura bianchissima fece il suo ingresso trionfale. Imbarazzato sorrisi di rimando. Aveva ragione, a differenza sua non ero portato per lo sport, preferivo passare i pomeriggi con il naso ben piantato tra le pagine di un libro piuttosto che correre avanti e indietro su un campo da basket, ma ero disposto a inzupparmi la canotta di sudore pur di passare un po' di tempo insieme al mio migliore amico.

«Se è così... ».
Il pallone mi colpì in pieno petto, perforandomi quasi lo sterno come un proiettile.
«Giochiamo!».
Alex pronunciò quelle parole con un sorrisetto quasi crudele, pregustava già quella vittoria che sapevamo entrambi avrebbe incassato. I suoi occhi fiammeggiavano, un'aura di competizione lo avvolse quasi stesse gareggiando per l'oro olimpico.
Deglutii a fatica quel nodo amaro che sapeva di sconfitta e iniziammo a giocare.

Passarono appena venti minuti, la mia fronte grondava sudore copiosamente, aloni scuri si formarono sul tessuto della mia maglietta appena sotto le ascelle e sull'addome, inoltre cominciavo a puzzare in modo osceno. Gettai lo sguardo su Alex che invece continuava a correre da un estremo all'altro del campo senza versare una goccia di fatica.
Nonostante fosse solo un bambino la sua figura asciutta preannunciava la comparsa di un fisico ben delineato appena fosse giunta la pubertà. Con un briciolo di invidia lo osservai per alcuni secondi, poi passai in rassegna i miei chili di troppo che incombevano sul mio corpo grassoccio.
Avrei dovuto mettermi a dieta, rinunciare ai miei amati marshmallows e alle mie adorate pizzette al pomodoro se volevo liberarmi di tutto quel grasso in più.
«Dai Matt, tira!».
La voce squillante di Alex mi salvò dalla mia autocommiserazione. Senza rendermene conto ero entrato in possesso della palla e mi dirigevo verso il canestro.
Tirai e trattenni il respiro per l'agitazione. Il pallone percorse la circonferenza arrugginita un paio di volte rimanendo in bilico, ma poco dopo come un circense alle prime armi perse l'equilibrio e cadde al suolo. Riuscii a sentire quel punto scivolarmi tra le dita mentre il sapore pungente e sgradevole della sconfitta mi pervase il palato.

«Ehi ragazzi, avete mai visto un maiale giocare a basket?».
Una voce sconosciuta giunse dietro le nostre spalle. Ci voltammo e un gruppo di ragazzi più grandi di noi di qualche anno, con i volti contratti da un sorrisetto minaccioso, irruppero nella nostra area di gioco.
I loro sguardi intimidatori e taglienti come lame mi colpirono in pieno petto, tanto quanto quella frase.
La sensazione familiare di vergogna mista a rabbia verso me stesso e paura verso i piccoli gangsters si impossessò di me, scuotendo ogni muscolo del mio corpo dalle ossa. Non era la prima volta che venivo bullizzato per via del mio peso.
Il più alto dei cinque avanzò qualche passo in più verso la mia direzione, mi osservò con disgusto. Feccia, ai suoi occhi non ero altro che feccia, quella della peggior specie.
Con la forza di un animale mi spinse indietro, nonostante il mio peso non riuscì a contrastarlo, caddi a terra e il mio sedere annegò in una pozzanghera d'acqua. Umiliato come non mai in vita mia tentai di recuperare quel briciolo di dignità che mi era rimasta rialzandomi, ma ancora una volta la sua mano raggiunse il mio corpo. Il capo dei bulli artigliò le dita sulla mia testa, intrappolando la mia fronte nel suo palmo per impedirmi di rimettermi in piedi.
«Fermo porcellino, il tuo posto è lì: in mezzo al fango!».
Incastonai le iridi in quelle grigie nebula di lui e improvvisamente la vista si offuscò per via delle lacrime.
La vergogna si tramutò in piccole goccioline salate che sgorgavano ridondanti dagli occhi e cominciavano a rigarmi le guance fino a inzupparmi le labbra.
Aveva ragione, ero solo un grosso maiale che non vedeva l'ora di ruminare altre schifezze.
Chiusi gli occhi e cercai di trattenere le lacrime sotto le palpebre per non dare al mio aguzzino ancora più soddisfazione, ma per quanto mi sforzassi continuarono la loro discesa su quelle morbide e paffute collinette rosa che erano le mie guance. Ad ogni lacrima seguiva un singhiozzo che stroncava sul nascere qualsiasi parola. Non riuscii a emettere alcun suono, se non un qualche mugolio indecoroso.

Improvvisamente la presa sulla mia testa perse vigore, riaprii gli occhi e alzai lo sguardo. La mano di Alex ammanettava energicamente il polso del ragazzo, le nocche sbiancarono e le dita, al contrario, si scaldarono di un rosso intenso.
«Lascia in pace il mio amico!».
Il tono aspro della sua voce era carico di rabbia tanto quanto i suoi occhi che continuavano a scagliare saette contro il capobanda dei bulli. Le dita massicce del ragazzo scivolarono via dai miei capelli per chiudersi in un pugno e raggiungere i suoi fianchi.
«Tu non immischiarti, nanerottolo!».
Subito mi voltai alla ricerca del viso di Alex. I suoi lineamenti si indurirono e quell'espressione rabbiosa non preannunciava di certo nulla di buono. Quando il respiro gli divenne più affannoso e le narici si dilatarono capii che stava per oltrepassare un limite dal quale non ne sarebbe uscito vincitore, non questa volta.
Mi alzai di scatto e mi imposi tra i loro corpi per evitare al mio migliore amico una frattura al naso. Sapevo perfettamente che non avrei avuto alcuna possibilità verso quel ragazzo più alto e muscoloso di me, ma non potevo permettere che il mio migliore amico ci andasse di mezzo per colpa mia. Per la prima volta in vita mia decisi di reagire, di smettere di subire le angherie di qualche idiota tutto muscoli e niente cervello non per me, ma per Alex.
Portai le mani chiuse in due pugni davanti al viso e riservai al mio avversario uno sguardo truce, ma per quanto cercassi di apparire minaccioso e forte i miei occhi bonari e i miei movimenti insicuri mi tradirono, facendomi apparire più che altro goffo e spaventato.

Fragorose risate si levarono dal gruppetto di baby gangsters.
«Guardate il maiale si vuole difendere. Ronnie, spiegagli qual'è il suo posto!».
Gli angoli della bocca di Ronnie si distesero verso le orecchie al suono di quelle voci concitate che supplicavano di spaccarmi la faccia. Lo osservai pavoneggiarsi, facendo finta di arrotolarsi delle maniche inesistenti lungo gli avambracci e in quel momento, che preannunciava un pugno in pieno viso, tutta la mia audacia si dissolse il quel soffio di vento gelido che mi raggiunse. Quando il bullo tirò indietro il gomito per caricare sciolsi quei futili pugni che continuavo a tenere sospesi in aria per portarmi i palmi delle mani sugli occhi. Volevo nascondermi da lui, fuggire da quelle botte genitrici di un dolore che avrei avvertito per giorni e giorni. Rimasi immobile sul posto, pietrificato dalla paura in attesa di un colpo che non arrivò mai.
Come era possibile?
Attesi qualche secondo in più per essere sicuro prima di uscire allo scoperto. Analizzai mentalmente tutto il mio corpo alla ricerca di qualche muscolo dolente, ma non riuscii a percepire neanche un minimo fastidio.
Lentamente aprii le falangi per osservare la scena senza espormi troppo.
La prima immagine che la mia vista riuscì a cogliere fu quella delle bocche aperte dei lacchè di Ronnie, i loro volti attoniti e esterrefatti.
Cosa diavolo era successo?
Il capo gangsters era piegato in due, entrambe le mani sorreggevano l'addome in cui era ancora ben ancorato il gancio destro di Alex.
Ancora una volta non ero riuscito a reagire, avevo lasciato che la paura congelasse i miei muscoli.
Ancora una volta ero stato un inetto, schiavo della mia codardia.
Ancora una volta a salvarmi da un pugno era stato il mio migliore amico, mio fratello.

«Cosa succede lì?».
Il volto autoritario e severo di un poliziotto spuntò oltre la grande rete di metallo che delimitava il campo da basket dal resto del parco. Alex indietreggiò d'un passo continuando a fissare in malo modo Ronnie senza sbattere mai le palpebre. Aveva ben capito che non era un tipo da lasciar correre un affronto del genere, ma finché il poliziotto sarebbe stato nei paraggi ne lui e ne uno dei suoi scagnozzi avrebbe azzardato muovere un dito contro di noi.
Ronnie drizzò la schiena in un sospiro e, dopo aver scagliato la peggiore delle occhiate al mio migliore amico, si voltò in direzione dell'agente per mascherarsi con il più falso dei sorrisi.
«Si, io e i miei amici stavamo andando via!».
Con un cenno del capo ordinò ai suoi tirapiedi di lasciare il campo, i quali obbedirono senza battere ciglio.
Le spalle di Ronnie ondeggiavano ad ogni passo, continuai a fissarle per essere certo che non tornasse indietro per rivalsa finché non lo vidi scomparire dietro l'angolo. Tirai un sospiro di sollievo, ma una strana sensazione cominciò a gravarmi sulle spalle e sul cuore, un cattivo presentimento il cui nome era vendetta.

Il pomeriggio seguente il sole splendeva alto nel cielo, il vento della notte appena trascorsa aveva spazzato via tutte le nuvole colorando il cielo di un bellissimo azzurro. Con un'ultima e decisa pedalata raggiunsi il campetto. Non vi era traccia della bicicletta di Alex.
Gettai uno sguardo all'orologio in resina celeste stretto al mio polso, la lancetta dei secondi correva sul quadrante variopinto, mentre quella delle ore e dei minuti segnavano le 16:07. Il campo era vuoto, il pallone abbandonato in un angolo aspettava che qualcuno lo salvasse dal pomeriggio noioso che sembrava prospettarsi. Era strano, Alex aveva mille difetti, ma tra questi non vi era il ritardo, anzi era sempre fastidiosamente in anticipo.
Decisi di attendere qualche minuto, forse il padre era tornato prima dalla caccia e lo aveva trattenuto più del previsto nel Motel.
Mi sedetti e feci scivolare la sacca di nylon dalla spalla. Con una mano frugai all'interno, i polpastrelli sfiorarono qualche matita, uno tortino al cioccolato, un quaderno ed infine ciò che cercavo. Avvertii la rigidità e la lucentezza della copertina al solo tatto. Estrassi il libro e quando ebbi davanti agli occhi l'imponente titolo a rilievo dorato un sorriso spontaneo incrinò le mie labbra. Ne sfogliai le pagine tastandone la ruvidità, amavo leggere. Amavo immergermi in quel mondo fantastico dove vi era sempre un lieto fine, del tutto estraneo da quella che era la mia quotidianità fatta di mostri, cacce, un padre assente e pochi, anzi pochissimi amici. Infilai il naso nella rilegatura e inspirai quanta più aria possibile. Quell'odore di carta, inchiostro e colla mi spingeva verso nuove storie, fresche avventure da vivere e simpatici personaggi da conoscere. I libri erano il portale verso un mondo nuovo in cui potermi sentire finalmente me stesso.

Un fruscio di foglie mi strappò da quella realtà immaginaria che tanto amavo per gettararmi nuovamente in quel campetto spaventosamente vuoto. Mi girai di scatto verso il cespuglio da cui proveniva il rumore, sentii il cuore aumentare i battiti. L'ansia si stava già insinuando dentro di me come un Mamba nero pronto a sfoderare le sue zanne per infettarmi con il suo veleno.
Chiusi il libro in un tonfo e mi imposi di alzarmi. Questa volta non c'era nessuno a poter fare il lavoro sporco al posto mio, dovevo accantonare la paura, ignorare i muscoli tremanti e andare a controllare.
Con passo incerto e lento raggiunsi la piccola siepe, ispirai più volte sperando di trovare nell'aria almeno un po' di quel coraggio che a me mancava.
Divisi il fogliame con entrambi la mani, spalancando un varco. Alex era seduto nel mezzo, il sedere ben piantato a terra.
«Alex, che ti è successo?».
Il bambino dai capelli del colore del grano alzò lo sguardo, mi immersi nei suoi occhi verdi come il mare di un atollo tropicale. Impallidii.
Uno smeraldo era circondato da un alone violaceo, il labbro inferiore era spaccato e ne uscivano rivoli di sangue, un taglio abbastanza profondo sulla parte sinistra della fronte la pennellava di un rosso scarlatto.
La maglietta strappata lasciava intravedere un livido all'altezza delle costole.
Alex nonostante fosse solo un marmocchio sapeva usare bene le mani in caso di necessità, inoltre grazie alla sua forma ancora minuta era abbastanza veloce da evitare molti colpi per cui dovevano essere stati in più di uno per ridurlo in quel modo ed io sapevo bene di chi si trattava.
Ronnie e la sua combriccola di stupidi leccapiedi.
«Sto bene, stai tranquillo! Piuttosto aiutami a rialzami».
Non me lo feci ripetere due volte. Annodai un suo braccio intorno al mio collo e allacciai il mio intorno alla sua vita.
«Ok, ci siamo. Sei pronto? Uno, due...tre!».
Sentii i suoi muscoli irrigidirsi sotto le mie mani, lo avevano ridotto ad un cencio.
Tenni gli occhi fissi sul suo viso dapprima perfetto e ora malridotto, mi sentii incredibilmente in colpa.
A causa della mia viltà il mio migliore amico aveva dovuto incassare innumerevoli calci e pugni, quelli che erano destinati a me.
«Mi dispiace!».
Mi sentivo schiacciare dal peso delle mie azioni tanto che riuscii a pronunciare quelle due parole solo in un sussurro, in gola sentivo un groppo che sembrava volesse bruciarmi dall'interno per purificarmi dai miei rimorsi.

«Come sei arrivato qui? Non ho visto la tua bicicletta».
Gli occhi di Alex si tuffarono nei miei, dalle sue iridi furiose di rabbia e scintillanti come l'acciaio capii che oltre ad aver subito un pestaggio, un altro torto era stato commesso.
Un'altra macchia da aggiungere a quella tela infangata a cui si era ridotta la mia coscienza.
«Non devi sentirti in colpa, sei mio fratello. Per te sarei disposto a prendermi anche una pallottola in fronte se fosse necessario».
Lui rise, curvando le labbra nel più tenero e rassicurante dei sorrisi ed io non potei che fare altrettanto.
Da quel giorno in poi mi sarei allenato spingendomi oltre i miei limiti, come lui sarei diventato un combattente perché anche io in caso di necessità volevo prendermi un proiettile al suo posto.
Da quel giorno non sarei stato più un pappamolle con le gambe tremanti, ma un uomo fiero di sé stesso.
Da quel giorno avrei fatto di quelle storie straordinarie che leggevo sui libri la mia vita, una realtà da cui non sentire più il bisogno di fuggire.
Da quel giorno capii che non mi servivano un gran numero di amici se avevo Alex come fratello.

Una lacrima scende silenziosa lungo una guancia, dolce per i ricordi appena vissuti e amara per il ricordo di ciò che ho rischiato di perdere. Oggi per la prima volta dopo tanti anni, dopo il primo incontro con Ronnie, lascio che una goccia di dolore righi il mio viso, solo per lui.
Chiudo gli occhi lasciando che l'immagine del sorriso di Alex da bambino lenisca il dolore che inneggia nel mio torace sinistro.

«Cosa fai? Dormi?».
Rimango con le palpebre chiuse al suono di quella dolce melodia, lascio che i miei timpani si delizino di ogni nota, mentre distendo le labbra nel sorriso più vero con cui abbia inciso il viso.
Solo dopo averne fatto il pieno apro gli occhi per incamminarmi in quei boschi rigogliosi che vi sono nelle sue iridi finalmente visibili al mondo.
«Bentornato a casa, fratello!».

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top