01 - Quello che sarebbe stato

"Che strana macchina è l'uomo. Gli metti dentro lettere dell'alfabeto, formule matematiche, leggi, e doveri ed escono favole, risate e sogni"
Fabrizio Caramagna

ALEX

Apro gli occhi di colpo, i battiti del cuore sono accelerati e sento il respiro mancarmi. Con gli occhi fissi sul grande lampadario in ottone poso una mano sul petto cercando di regolarizzare l'intervallo di tempo tra un respiro e l'altro.
La mente questa notte mi ha giocato brutti scherzi, ho avuto un incubo, ma per quanto mi sforzi non riesco a ricordare nulla di ciò che ho sognato.

Mi volto per cercare il suo volto. É lì, al mio fianco che dorme spensierata. I suoi capelli neri come la notte si riversano tra i cuscini ricamati, la bocca appena dischiusa in dolci sospiri e le guance rosee piene di vita. La sua visione è il più dolce dei risvegli. L'idea di abbandonarla tra quelle fredde lenzuola mi fa tremare il cuore. Avrei preferito rimanere tutto il giorno a letto insieme a lei, ma devo pur guadagnare qualcosa se vogliamo continuare ad avere una vita tranquilla, senza problemi economici.
Questo inverno le ho promesso che avremmo passato le feste di Natale in montagna. Affitteremo una baita, ci rimpinzeremo di cioccolata calda e panna mentre i fiocchi di neve scenderanno dal cielo. Ci riscalderemo davanti ad un bel fuoco, che io stesso accenderó per lei, e su di una coperta in pelliccia faremo l'amore per tutta la notte.
Eleonor mi aveva sorriso subito entusiasta all'idea di vedere la neve, aveva passato il resto del pomeriggio a saltellare in giro per la casa, a fantasticare su come avremmo potuto trascorrere le giornate. Intanto rideva.
Dio, quanto amo vederla ridere. È proprio il ricordo di quel sorriso a spingermi fuori dal letto, devo andare a lavorare se ho intenzione di mantenere la mia promessa.
Il cantiere non è sicuramente il lavoro a cui aspiravo da bambino, ma è riuscito a garantirci un tetto sopra la testa e questo per il momento mi basta.

Mi stiro i muscoli della schiena abbandonandomi ad uno sbadiglio prima di alzarmi. Fuori non è ancora sorto il sole e le finestre appannate auspicano temperature da battere i denti.
Sono appena gli inizi di dicembre e nell'aria già si avverte l'odore di pan di zenzero.
Con un'andatura tutt'altro che stabile mi dirigo in bagno e accendo il termoventilatore. Apro il getto della doccia così da scaldarsi, nel mentre mi lavo i denti e mi spoglio.
L'acqua calda esce dal soffione leggera, accarezza il mio corpo e porta con sé nelle tubature tutta la mia sonnolenza.
Alzo il viso verso il getto e con le mani comincio a frugare tra le varie boccette di shampoo riposte sul ripiano. Affidandomi alla memoria più che alla vista riconosco il mio, ne verso una generosa quantità all'interno del palmo e inizio ad insaponare i capelli. Ben presto una morbida schiuma mi avvolge il capo e il fresco profumo di menta si propaga per tutto il bagno.

D'un tratto dietro le mie spalle giunge il rumore delle ante del box doccia che si aprono. Mi volto di scatto e il sapone mi cola negli occhi.
«Cazzo, brucia!», impreco spostando all'istante la testa sotto l'acqua.
Sciacquo velocemente la schiuma e con gli occhi ardenti porto lo sguardo sull'intruso.
Il suo viso perfetto spunta tra il vapore, i capelli le scendono lungo i seni solleticadole la pancia. Mi perdo per alcuni secondi ad osservare i suoi capezzoli rosei e già turgidi, anche quelli sono perfetti. Nessun lato di lei ai miei occhi non lo è.
Le accarezzo una guancia sistemandole i capelli dietro l'orecchio.
«Sai che rischio di arrivare in ritardo, vero?».
I suoi occhi si abbassano sul mio petto. Con le punte delle dita mi sfiora il pettorale sinistro, rimarca le linee di quel tatuaggio che ho fatto in suo onore, proprio lì sul cuore dove è lei.
Incisi sulla mia pelle ci sono i suoi occhi, quelli che mi hanno condotto alla dannazione sin dal primo giorno.
«Prometto che non accadrà, ma se dovesse succedere puoi pure dire a John di farsi fottere!».
Certo, sarebbe stata una buona idea dire al mio capo di farsi una scopata per stemperare i nervi, ma John non è il tipo di uomo a cui si può fare un genere di battuta. È un uomo tutto d'un pezzo che ama ricoprire un ruolo superiore agli altri, tutt'altro che permissivo.
Nei giorni passati sembrava attendere con ansia un mio passo falso, non è riuscito a digerire l'idea che presto sarei stato promosso a capocantiere. Un ragazzo con la metà dei suoi anni che nel giro di qualche mese è arrivato a ricoprire una carica che lui ha raggiunto solo dopo diversi anni è un boccone amaro da mandare giù.
Se fare qualche minuto di ritardo avesse inciso solo sulla mia promozione non mi sarebbe importato molto, ma non voglio dargli la possibilità di mandare a puttane il mio piano di ferie.

Sulle labbra di Eleonor compare un sorriso birichino, quello che è solito preannunciare una qualche marachella. Quando entra dentro la doccia e rinchiude il box dietro di sé capisco che questa mattina avrei dato a John un motivo per rimproverarmi. Fanculo la promozione, voglio possederla qui, in questo cunicolo di doccia mentre l'acqua ci lubrifica i corpi, per quanto riguarda le ferie troverò il modo per addolcirmi uno dei suoi superiori.
In fondo John è solo il nostro supervisore e sopra di lui vi sono pesci più grossi a cui potrò leccare il culo.

Le afferro le spalle facendola voltare, i suoi seni sodi aderiscono contro le maioliche e il suo corpo sussulta più dall'eccitazione che dal freddo.
Osservo i suoi glutei tonici arrossarsi a quei piccoli schiaffi che il getto d'acqua le dà raggiungendo la sua pelle delicata.
Divarica leggermente le gambe e inarca la schiena. Le mani scivolano sulla porcellana e si incrociano appena sopra la testa. Nel vederla in quella posizione e completamente bagnata il mio corpo viene attraversato da una scarica elettrica che raggiunge il mio membro facendolo mettere sull'attenti.
Avvolgo una mano sulla sua e con l'altra le percorro per intero la spina dorsale, le dita sfiorano appena la sua pelle in una lenta e dolce tortura che dei brividi la inondano.
Giungo in basso e le accarezzo le fossette di Venere, poi il mio tocco cambia. Da delicato e premuroso, diviene vorace e maleducato. Artiglio le unghie a uno dei sui fianchi e in un solo colpo la riempio.
Eleonor geme, mi preoccupo di averle fatto male, ma quando chiude gli occhi e curva le labbra in un sorriso mi rilasso.
Comincio a muovermi dentro e fuori, ogni affondo è un passo in più verso l'eden. Il mio corpo risponde al suo, i suoi muscoli scalpitano, li sento pompare attorno al mio membro che sfacciato continua a chiedere di più.

Guardo in basso e vedo i suoi glutei infrangersi sul mio inguine ad ogni spinta come onde sugli scogli. Il mio cervello non regge il colpo. A distanza di anni il nostro corpo è cambiato, eppure io continuo a desiderarla come il primo giorno. La voglio ancora e ancora come se fosse la prima volta, voglio vivere il resto dei miei giorni in quell'eden che solo con lei riesco a raggiungere.
Mi adagio sulla sua schiena raggiungendo il suo punto più profondo, con la bocca le raggiungo la spalla e la mordicchio.
«Alex!».
Impasta il mio nome in un mugolio, risuona nella mia testa come il più bello dei gemiti. Sentirmi chiamare quando è prossima all'orgasmo non fa altro che trascinarmi con sé in quei piacevoli spasmi.
I muscoli delle gambe si indeboliscono di colpo, tremano incapaci di sorreggere il peso del mio corpo, ma non mi fermo. Voglio farla gridare tanto forte da far arrossire l'intero vicinato. Così, mi immergo ancora più velocemente nei suoi umori.
Il suo corpo vibra, scivolo lungo il pube accarezzandole la cicatrice e infilo una mano tra le cosce. Raggiungo la sua fessura e sento sui polpastrelli il mio membro scorrere dentro e fuori in quella calda caverna.
Con il medio comincio a stuzzicarla, premo quel bottoncino come piace a lei e la spingo verso il piacere assoluto.

«Alex!».
Grida il mio nome, ma questa volta scandisce ogni lettera mentre raggiungo il mio paradiso.
I nostri piaceri si uniscono creandone uno solo ed unico. Quando mi sfilo li vedo scorrere lungo le sue gambe, poi si miscelano all'acqua della doccia e scivolano via proprio come la mia stanchezza.
Eleonor si volta e vedo il delicato rosa che di solito colora quelle guance di pesca sostituito da un bel rosso vivo.
Le ricopro con le mani e conduco le sue labbra sulle mie. Inumidisco la sua bocca seccata dai mille sospiri di piacere con la mia, quando qualcuno richiama la mia attenzione.
Mi sento chiamare e il mio cuore riprende a battere più velocemente.
Quel muscolo involontario aumenta improvvisamente di volume, è stracolmo di amore e felicità che sembra essere sul punto di esplodere.

«Devo andare!».
Bisbiglio sulle sue labbra, le quali si aprono in un sorriso.
Imprimo un altro bacio, ma questa volta uno a fior di labbra perché qualcun altro mi sta reclamando con ansia.
Esco di corsa dalla doccia, afferro un asciugamano pulito e velocemente tampono l'acqua in eccesso.
Mi guardo allo specchio e sorrido, in un'altra vita devo aver fatto qualcosa di buono per meritarmi tanta felicità.
Come un forsennato rovisto tra i cassetti, prendo una t-shirt grigia e dei cargo del medesimo colore solo di un tono più scuro e li infilo al volo.

I piedi nudi e ancora un po' umidi affondano nella morbida moquette del corridoio, spingo la porta con le dita e sbircio all'interno della stanza.
I primi raggi del sole filtrano tra i merletti della tenda creando piccoli cerchietti di luce distorti sul pavimento. Le pareti rosa pastello brillano preziose quando la luce colpisce i glitter da cui sono cosparse. Perfettamente incastonata a quel candore che Eleonor aveva deciso di infondere a quella stanza spunta appena sotto il piumone panna la sua testolina.
«Buongiorno amore mio!».
Due manine candide come il latte emergono dalla pesante coperta e si aggrappano ad essa.
In uno scatto si drizza sulla schiena, i capelli del colore dell'oro balzano per poi ricadere sulle spalle.
Mi sorride mostrandomi quella graziosa finestrella che ha aperto da poco.

«Papà!».

Sgattaiola veloce fuori dal letto, in quel modo poco aggraziato che riconosco aver preso da me, e corre tra le mie braccia. Quelle piccole e esili manine si avventano sulle mie spalle, si annodano attorno al mio collo e in quel momento il mio cuore esplode.
Non avrebbe potuto fare altro, in quell'abbraccio non trovo la goccia che fa traboccare il vaso piuttosto vi trovo il mare, le montagne, il cielo... il mondo. Quel mondo che tanto avevo cercato e che alla fine sono riuscito a trovare.

Affondo il naso tra i suoi capelli, inspiro quel profumo di albicocca. A me che non sono mai piaciuti gli odori smielati, quello sembra essere il profumo più buono del mondo. Il profumo di mia figlia.
La stringo forte al petto e non appena la piccola sente la mia morsa farsi più audace non si lamenta, piuttosto risponde con lo stesso vigore.
Allento la presa e i nostri occhi si arpionano l'uno all'altra.

«È ancora molto presto, cosa ci fai già in piedi?».
«Non ho più sonno e poi avevi promesso che mi avresti portato a pattinare!».
Riporto quei piedini da gnometta sul pavimento. Le sue iridi color miele non lasciano le mie, che invece vagano per la stanza in cerca di una buona scusa da utilizzare per non deluderla troppo.
Come una piccola Eleonor in miniatura incrocia le braccia al petto e mi riserva uno sguardo severo.
«Papà, me lo avevi promesso e le promesse si mantengono!».
Il suo tono intimidatorio mi fa sentire più piccolo di quanto non sia lei.
È solo una bambina di cinque anni eppure avrebbe saputo rimettere al proprio posto anche quello stronzo di John.

«Vero, mamma?».
El compare sulla soglia della cameretta. Si appoggia allo stipite della porta e si raccoglie i capelli ancora umidi in una coda.
La guardo implorandola con gli occhi di darmi una mano. Lei, invece, ride di gusto nascondendosi dietro il palmo.
Il sole si è fatto spazio tra le nuvole e ora i suoi raggi prorompenti riempiono di luce l'intera stanza. Un fascio luminoso colpisce la mano di El, l'anellino d'oro che le circonda l'anulare sinistro brilla.
Con un colpo di tosse si ricompone e tenta di assumere l'aspetto di un genitore autoritario.
«Aly, papà oggi deve andare in cantiere. Se tornerà presto andrete nel pomeriggio, va bene?».

Alyson continua a guardarmi al di sotto delle sue lunghe ciglia mantenendo le braccia sul piccolo petto che si alza e abbassa in modo regolare.
«Nel frattempo cosa ne dici se io e te andassimo a preparare dei buonissimi pancake?».
«Utilizziamo lo stampo con la faccia da orso?».

«Va bene!».
«E lo sciroppo d'acero?».
Eleonor sorride, quella bambina è un uragano, un concentrato di dolcezza e tenacia.

«Certo, Dylan gradirà sicuramente!».
La mano di mia moglie si adagia delicatamente su quel piccolo pancino che timido comincia a farsi vedere in cui cresce il secondo frutto del nostro grande amore.

Aly scioglie le sue difese e mi afferra le mani. Giriamo in tondo un paio di volte, festeggiando quel pasto grandioso che ci avrebbe riempito la pancia di lì a poco.
Mimo ad Eleonor con le labbra un grazie e lei sussurra un prego.
Veloce come il vento la piccola peste corre dalla mamma, le prende una mano e la trascina di peso verso la cucina.

In una manciata di secondi dal gran chiasso delle urla gioiose della mia bambina mi ritrovo in una stanza silenziosa. Guardo a terra, raccolgo il peluche con il quale dorme mia figlia e lo ripongo sul letto.
Un piccolo orsetto bianco con un papillon verde.
Ricordo con quanta fatica dovemmo cacciare Alyson dal lettone. È sempre stata una bambina precoce, ma di abbandonare quel piccolo giaciglio tra me e la mamma non se ne parlava.
Finimmo per montare perfino una brandina di fianco al suo letto per farla abituare alla nuova stanza, ci dormivamo a turno io e El, ma quando scoprimmo che aspettavamo un altro bambino quella brandina divenne mia.
Con il passare dei giorni Aly si abituò alla sua cameretta, ma non per questo riuscì a superare la paura di rimanere sola. Un giorno tornai dal lavoro con questo peluche, le dissi che era magico. Si sarebbe trasformato in un vero orso e l'avrebbe protetta se un mostriciattolo avesse avuto l'ardire di insinuarsi sotto il suo letto.

«Come lo chiamiamo?».
«Hero, perché lui sarà il mio eroe!».
Da quel giorno Alyson dorme nella sua stanza e Hero con lei.

Il mio smartwatch suona e con la testa ritorno al presente. Si sta facendo tardi.
Un continuo scampanellare di una bicicletta raggiunge il nostro cortile, sposto le tende. È Billy, il ragazzo delle consegne. Stringe tra le gambe la sua bicicletta mentre rovista nel suo cestino, afferra un giornale fresco di stampa e lo lancia sul prato. I suoi occhi catturano i miei. Sventola la mano a destra e sinistra accompagnandola ad un radioso sorriso, lo saluto anche io evitando tanta enfasi.
Billy si riposiziona in sella e riprende il giro. La campanella ricomincia a suonare, ma a differenza degli altri giorni quel suono sembra non affievolirsi man mano che il ragazzo si allontana, piuttosto si intensifica e muta. Diviene più sordo e cadenzato, un continuo e fastidioso bip.

Improvvisamente la vista si annebbia, mentre quel rumore si amplia nella testa.
I contorni degli oggetti non sono più così nitidi, ogni cosa è appannata come se fossi ubriaco, finché ogni immagine si affievolisce e da ubriaco divento cieco.

«Aly? El?».
Le chiamo nell'oscurità che mi circonda, ma tutto sembra essere sparito nel nulla, anche loro.
L'ansia mi assale, il respiro si fa corto mentre il cuore prende a battere più forte come se volesse sgretolare quella gabbia fatta di ossa.
Più lui batte e più quel suono sembra corrergli dietro, lo insegue, lo raggiunge e insieme fuggono.

Due suoni che diventano uno e che mi tengono compagnia in quel vuoto che adesso mi circonda.
«Torna, ho bisogno di te!».
Una supplica echeggia, sovrasta per una frazione di secondo quell'unico suono. Riconosco quella voce e subito nella mia mente si riaffaccia un volto che si era sbiadito nel tempo. Tante piccole istantanee di ricordi sfrecciano a gran velocità dinanzi ai miei occhi, più loro sfilano e più quel viso prende forma, diventando nitido.
E' Matt.

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