~5.ᖴᗴᔑᎢᗩ~
Per fortuna quei puntini sul collo non erano niente, forse una puntura di zanzara che avevo fatto sanguinare. Anche mia sorella si era tranquillizzata, e ci avevamo riso su. Non potevo credere che avesse urlato come un'ossessa per due bolle che probabilmente mi ero grattata con la spugna mentre mi lavavo. L'avevo presa in giro per una mezz'ora buona, mentre ci truccavamo davanti allo specchio. Il bagno di mia nonna era totalmente in marmo, con lo specchio che prendeva tutta la parete, e due lavandini. Mia sorella aveva già riempito lo scaffale più grande, lasciandomi quello più piccolo. Mi andava bene, in fin dei conti lei aveva molte più cose di me.
Aurora aveva portato con se, in bagno, non solo i suoi vestiti, ma si era presa la briga di scegliere anche i miei, e ovviamente, non erano roba mia. Non era nel mio stile mettere abiti che mi facevano stare al centro dell'attenzione, ma il suo obiettivo era evidentemente quelli. Quando uscimmo di casa, mia nonna ci guardò con sospetto, ma non disse nulla. Le nonne hanno questo compito: ricordarti che ai loro tempi le ragazze non andavano in giro vestite a quel modo. Per fortuna che nonna Nadia non era una di quelle nonne.
Aurora aveva scelto per lei un vestito celeste, con la scollatura a cuore bordata di merletti, e per me aveva scelto un vestito nero a tubino, corto e accollato, con la schiena totalmente scoperta. Mi sentivo decisamente troppo appariscente, per una festa in spiaggia. Mi sarei proprio voluta vedere coi tacchi vertiginosi sulla sabbia. Inoltre non conoscevo affatto il posto in cui stavamo andando. Era Aurora quella che l'estate faceva baldoria per il litorale romano, con i suoi amici. Non io. Io avevo passato gli ultimi anni dietro a Francesco.
Ancora il suo pensiero che si riaffacciava prepotente nella mia mente. Lo scacciai via. Cancellare quattro anni di vita era difficile, ma dovevo riuscirci. Quanto meno dovevo rendermi conto che non ne valeva davvero la pena di stare male per lui.
Salimmo in macchina, una Citroen C1 nera, l'auto di mia madre. Lei e Robert ne avevano un'altra. Mia sorella era su di giri, non vedeva l'ora di andare a ballare.
«Non sei ansiosa di arrivare?»
Mi voltai a guardarla mentre inserivo le chiavi e mettevo in moto, sollevando un sopracciglio. «Scherzi? Devo ricordarti che mi hai trascinata tu qui?»
«E dai Luna! Questa festa segna la chiusura della stagione estiva. So che tu hai passato l'estate a lavorare, ma per me che ero qui è una data da festeggiare! Sai cosa significa? Sarà una serata spettacolare, con fuochi d'artificio, musica pazzesca, e ragazzi ovunque!»
Sbuffai.
«I ragazzi ora come ora non mi interessano proprio.»
Dissi, inserendo la marcia.
Partii, avviandomi per prendere il Grande Raccordo Anulare, mentre Aurora accendeva la radio, smanettando per trovare la stazione che le piaceva di più. Ma si, che importava se a me piacevano i Disturbed, o i Thirty Seconds To Mars. No. Lei doveva ascoltare David Guetta. Ci piacevano generi musicali diversi. Per lei la musica era ritmo, rumore, qualche piccolo pezzo cantato che faceva tanto figo e cassa e bassi a non finire. Ed era solo da ballare.
Per me la musica era altro. Era melodie, armonie, voci che ti facevano tremare l'anima e il cuore, e che andavano a toccare tasti dentro di te che potevano farti piangere. Vivevo la musica come un qualcosa di viscerale, non solo da ballare. Quella sera mi sarei adattata. Non che mi mancasse il senso del ritmo, per carità, da brava cantante sapevo esattamente tenere il tempo. E non avevo problemi a muovere il mio corpo a ritmo di musica. Solo che non era la mia massima aspirazione, ecco.
Eppure, mia sorella aveva iniziato a ballare già in macchina. Era impossibile farla stare ferma sul sedile.
«Mettiti la cinta, invece di zompettare, per favore.»
Si voltò verso di me, imbronciando le labbra come una bambina.
«Piangi pure, se ci fermano mostri la tua di patente, non la mia!»
«Non posso. Ho solo il foglio rosa.»
La guardai con la coda dell'occhio, per non staccare gli occhi dalla strada.
«Scusa ma quanto vuoi metterci per prendere la patente?»
Aurora fece spallucce e poi continuò.
«Ho sei mesi di tempo sai?»
Sorrisi. Era sempre la solita. Prendeva la vita così. Chissà, forse se non avessi conosciuto Francesco che mi aveva sempre messo tutti quei freni, sarei stata così anche io. Ma non ne ero convintissima. La strada, di sera, era un po' più libera rispetto al giorno, quindi non ci misi molto ad arrivare a Ladispoli, considerando che abitavamo a Roma sud. E, roba da pazzi, trovai parcheggio esattamente di fronte al locale, uno stabilimento che aveva allestito delle pedane di legno sulla sabbia per permetterci di ballare. Despacito suonava a volume altissimo, e mia sorella iniziò a ballare mentre camminavamo verso l'entrata. Mi resi conto che conosceva tutti lì, anche il buttafuori di fronte all'entrata, che ci fece saltare la fila.
Passammo per quello che era il bar, tramutato in un pub durante la sera, per andare direttamente in spiaggia. La gente ballava tutta attaccata, le pedane illuminate solo da fiaccole infiammate che davano l'impressione di trovarsi in un paese caraibico. Mia sorella mi prese la mano, gettandomi nella mischia e spingendomi a ballare. Decisi che forse era il caso di lasciarmi andare.
Poco dopo ci raggiunse una sua amica, lo capii dal fatto che si baciarono sulle guance. Cercò di dirmi il suo nome ma non lo capii, sorrisi, tanto il mio nome glielo aveva già detto mia sorella. Mentre ballavo provai una strana sensazione, come quella di sentirsi osservata, ma non c'entrava l'abito scollato, ne era la sensazione di sentirsi osservata perché era una ragazza di bell'aspetto che ballava al centro della sala.
Mi voltai esattamente nella sua direzione, mi guardava, anzi no mi fissava, fermo sulla pista da ballo, sembrava decisamente fuori posto. Aveva i capelli lunghi, mossi e scuri, gli occhi verdi, i lineamenti nordici, una mascella scolpita e le labbra delineate erano carnose. La camicia bianca aveva i primi due bottoni slacciati, e aderiva perfettamente ai suoi muscoli. E quando dico muscoli intendo dire che con un tenero abbraccio potrebbe strangolare una persona.
I jeans non lasciavano molto spazio all'immaginazione. Indossava degli stivali a punta in pelle. Quando i nostri sguardi si incrociarono, ebbi la sensazione che il mondo intorno svanisse, lo stomaco mi si strinse, e i puntini sul collo mi fecero male. Portai istintivamente la mano al collo.
Poi mia sorella ruppe l'incantesimo, prendendomi la mano e spostandola dal collo.
«Lascia stare.»
Mi urlò all'orecchio, cercando di sovrastare la musica, poi continuò.
«Se li stuzzichi si riapriranno.»
Nel frattempo avevamo perso di vista l'amica di mia sorella, che si era allontanata con un ragazzo non bene identificato, e io avevo perso di vista il ragazzo figo e strano. Passammo così altre due ore, poi verso la mezzanotte, la musica si fermò, e il dj annunciò che a breve ci sarebbero stati i fuochi d'artificio, poi cornetti caldi per tutti. Se fosse stato per me sarei già andata via, ma mia sorella iniziò a gridare insieme a tutti gli altri. Ci provai anche io, ma il mio grido non aveva lo stesso entusiasmo di quello degli altri.
Fortunatamente riuscii a convincere Aurora ad andarcene dopo i cornetti, usando la scusa della stanchezza. Dopotutto non mi aveva nemmeno dato il tempo di ambientarmi dopo il viaggio.
«Va bene. Dammi solo il tempo di trovare Sara, così la saluto.»
Si allontanò, lasciandomi da sola al centro della pista. Non mi piaceva rimanere da sola, non mi andava nemmeno di ballare, la gente mi spintonava a destra e sinistra. tentai di allontanarmi goffamente finché qualcuno portò davanti al mio viso un cocktail dall'odore di agrumi e alcool. Me lo stava offrendo? Senza guardare chi fosse, urlai cercando di superare il volume della musica che era ripartita.
«Non accetto bibite dagli sconosciuti!»
«Mi pare giusto, che stupido.»
Disse, gettando il contenuto del cocktail in un vaso. Era lui. Era il ragazzo che mi fissava. Mi si fermò il respiro, il cuore, ogni cosa. Iniziai a sudare freddo. Forse se ne accorse, perché mi guardò e sorrise. Senza motivo, avevo paura.
«Permettimi allora di offrirtene uno al bancone, vuoi? Così potrai controllare tu stessa che non sia drogato.»
Mi disse, spingendo leggermente con una mano sulla mia spalla per farmi voltare, mentre con l'altra mi indicava la strada.
Non riuscii ad oppormi, anche se ogni fibra del mio corpo mi gridava che dovevo fuggire subito. Non mi uscivano nemmeno le parole per dire no. Guardandolo bene, mi resi conto che sembrava percepire tutte le mie sensazioni, come se le anticipasse. Sorrise divertito.
Arrivati al bancone, chiamò con un cenno il barman, chiedendomi cosa volessi. Quasi strozzandomi, con le parole che mi si fermavano in gola, riuscii a farfugliare la risposta.
«U...una c...coca.»
Brava pensai. Perché non fare la figura della stupida? Lui parve non notarlo, forse per buona educazione.
«Io sono Vladimir.»
Mi disse, allungandomi il bicchiere, che ovviamente avevo osservato per assicurarmi che non ci infilasse nulla. Perché diavolo non volevo rilassarmi. Mica tutti i ragazzi presenti nella discoteca dovevano essere potenziali serial killer.
«Io mi chiamo Luna.»
Lì la musica era più bassa, dal momento che ci trovavamo dietro alle casse, che invece sparavano i suoni verso la spiaggia.
«Un nome interessante, complimenti.»
Disse, poco prima di sorseggiare il suo drink. Aveva dei modi singolari, non si addicevano alla sua giovane età, comunque non doveva avere più di trent' anni. E mi ero allargata. Mi era capitato di frequentare ragazzi più grandi, amici di Francesco, e al suo confronto sembravano animali. Almeno questo dovevo riconoscerglielo.
Quando ero certa che non mi vedesse, gli lanciavo piccole occhiate, per studiarlo. Aveva un piercing su un orecchio, e un tatuaggio che usciva da sotto il colletto della camicia, ma non riuscii a capire bene cosa fosse.
«Dovresti rivolgerli ai miei genitori i complimenti, io non ho potuto sceglierlo.»
Dissi, in modo sarcastico. Lui mi guardò, ancora con quell'aria divertita, come se si prendesse gioco di me. Cosa che mi infastidiva leggermente.
«Non ti piace il tuo nome?»
Mi chiese, ruotando il busto nella mia direzione e poggiandosi con un gomito sul bancone. Quel movimento banale fatto da lui era risultato estremamente sexy. Aveva una naturale predisposizione ad essere seducente, non sapevo se lo facesse di proposito o gli usciva naturale, ma io non ci sarei cascata.
«Beh, sicuramente non hanno scelto un nome comune, non trovi?»
«Avresti preferito un nome comune?»
«Per certi versi si.»
«Trovo che invece ti si addica. I tuoi bellissimi occhi meritano un nome fuori dal comune.»
Mi disse, toccando una ciocca dei miei capelli. Istintivamente portai la ciocca dietro le orecchie, e la sua espressione agitò qualcosa dentro di me, l'istinto di poco prima che mi gridava di scappare, riapparve. Dovevo calmarmi.
«Parliamo del tuo nome invece, Vladimir.»
Pronunciai il suo nome enfatizzandolo, allungando leggermente il suono della prima vocale.
Rise, buttando la testa all'indietro.
«C'è poco da dire sul mio nome, in Russia è piuttosto comune.»
«Sei russo?»
«Si.»
Annuì portandosi il bicchiere alle labbra. I suoi movimenti erano ipnotici, anche il semplice portare il bicchiere alla bocca. Distolsi lo sguardo. No, no e no. Dovevo andare a casa, pregai che mia sorella arrivasse e mi togliesse da quella situazione.
«Mi sono trasferito qui quando ero molto piccolo.»
«Si sente, il tuo italiano è perfetto se non fosse per un leggero accento, ma non avrei detto che fossi russo.»
Poi mia sorella arrivò, e io tirai un sospiro di sollievo, che durò poco. Si avvicinò, con un sorriso stampato così radioso, che se non avesse avuto le orecchie, avrebbe fatto il giro della testa. Era evidentemente soddisfatta di avermi lasciata da sola, ed era tornata senza la sua amica.
«Ciao! Io sono Aurora, sua sorella. Scusate se vi disturbo.»
Vladimir le sorrise, baciandole la mano e invitandola a bere con noi, per farle capire che non c'era nessun problema. Poi mia sorella si rivolse a me, dicendomi che non trovava la sua amica. E invece di andarcene, come speravo, Vladimir si propose per aiutarci a cercarla, con la scusa che due ragazze non dovevano andare in giro da sole a quell'ora di notte.
Mia sorella accettò, entusiasta, poi mi rivolse di nuovo quel suo sorriso soddisfatto. Avrei voluto dirle che preferivo fuggire, ma non potevo. Vladimir ci accompagnò verso l'uscita, dove il buttafuori ci marchiò la mano con un timbrino. Di fuori, l'aria era più fresca, sebbene il locale fosse all'aperto. Ma mentre nel pub eravamo coperti dal tetto, in strada, l'umidità si attaccava alle nostre spalle scoperte.
«Dove credi che sia andata?»
Chiese Vladimir. Dava l'impressione di essere sicuro di se e di sapere quello che faceva. Aurora allungò una mano davanti a se, indicando un punto indistinto.
«Mi ha detto di aver parcheggiato sulla piazza, e dal momento che non mi risponde al cellulare, vorrei vedere se la sua macchina c'è ancora.»
«Va bene, andiamo, vi accompagno io.»
Non so quanto camminare con uno sconosciuto fosse più sicuro di camminare da sole, ma lui e mia sorella sembravano essersi trovati. Parlarono per tutto il tragitto, mentre io mi tirai fuori dalla conversazione, camminando in silenzio. Di tanto in tanto lui mi guardava, ed io distoglievo lo sguardo per non far vedere che lo stavo guardando anche io. Una volta arrivati nella piazza, facemmo il giro completo, e ad un certo punto trovammo la sua macchina. Aurora si ammutolì, l'espressione corrucciata in viso.
«Facciamo così,» Propose Vladimir, «se attraversiamo la piazza, possiamo entrare in spiaggia dallo stabilimento libero, e rifacciamo il percorso a ritroso, magari ha solo deciso di fare una passeggiata.»
Aurora lo guardò come se fosse il suo eroe, annuendo. Fantastico, ci saremmo dovute togliere i tacchi. Quella serata si stava dilungando più del dovuto, ed io ero stanca. Mi sentivo debole, più del normale, e volevo solo tornare a casa a dormire. La cosa mi innervosiva.
«Eccola!»
Gridò mia sorella. Dopo aver superato non so quanti stabilimenti, la trovammo sdraiata su un lettino, a un paio di stabilimenti prima di arrivare a quello in cui stavamo. Aurora corse, lanciandole le scarpe addosso, ma lei non si mosse. Aurora si bloccò un attimo, guardando attentamente in direzione della sua amica. Vidi mia sorella avvicinarsi lentamente, allungare una mano esitante per toccarla, ma Vladimir, che aveva capito tutto, la raggiunse velocemente, molto velocemente, e le tirò indietro la mano, scostandola di peso. Aurora aveva iniziato a gridare e a piangere in modo convulso, aggrappandosi a lui.
Mi avvicinai, sotto lo sguardo attento di Vladimir, che cercava di dirmi di no con la testa, ma io lo ignorai. Sara era sdraiata sul lettino, i piedi scalzi, le braccia penzolanti, e dalla mano sinistra gocciava una quantità enorme di sangue. Il collo era completamente squarciato, come se un animale l'avesse attaccata e sbranata. Ma quale animale, sul litorale romano, poteva averla attaccata in quel modo? Vladimir prese il suo telefonino e chiamò la polizia. Sarebbe stata una lunga notte.
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