3. Polizia


Nonostante il terrore irrazionale che avevo di lui, dovevo ammettere che se non ci fosse stato Vladimir quella notte, io non avrei proprio saputo come comportarmi. Anche perché non riuscivo a reagire, mi sentivo totalmente paralizzata mentre lui teneva stretta mia sorella, bloccandola ed impedendole di andare accanto al cadavere di Sara. Aurora urlava e si dibatteva, ma lui non mollava la presa. Era davvero forte, chiunque avrebbe allentato un minimo la presa, ma lui no.

Senza lasciarla andare, la voltò facendo in modo che non vedesse la scena, e lei si lasciò andare tra le sue braccia, esausta, tremante e scossa dai singhiozzi. Inoltre, se non avesse chiamato lui la polizia, io non ci sarei riuscita. Invece, con una calma impressionante, lui aveva tirato fuori il cellulare dalla tasca dei jeans, composto il numero e chiamato. Anche la sua voce era ferma quando rispose al telefono.

«Salve, vorrei denunciare un omicidio»

Chi aveva risposto dall'altra parte doveva averlo fatto spazientire, perché la sua risposta successiva fu con un tono diverso, esasperato.

«Le pare che possa essere io l'assassino? Avrei chiamato secondo lei dandole i miei dati?»

Ancora una pausa.

«No, non lo abbiamo visto. Si siamo in tre. No, è l'amica di una ragazza che ho conosciuto qui. Senta, si sbrighi ad inviare una pattuglia.»

Riagganciò il telefono dopo avergli dato la posizione corretta.

Se penso poi a quanto tempo ci hanno impiegato per arrivare. Viterbo non era così. Ricordo che una volta, qualche anno prima, Francesco fu coinvolto in una rissa in un bar, con dei ceffi brutti che stavano importunando Anna e me, e la volante impiegò pochissimi minuti per arrivare.

Iniziammo a sentire le sirene della polizia mezz'ora dopo. Nel frattempo avrei voluto riportare mia sorella a casa, che stava tremando dal freddo, o forse era la reazione all'accaduto. Però non volevo che rimanesse li. Si era calmata, Vladimir aveva aperto uno dei lettini accatastati più indietro, e aveva aiutato mia sorella a sedersi. Si era tolto la camicia, e gliel'aveva adagiata sulle spalle. Poi si voltò verso di me.

«Senti freddo?»

Ancora una volta mi riscosse dai miei pensieri.

Aveva il busto completamente nudo, il tatuaggio che prima avevo intravisto sul lato del suo collo, ora era ben visibile. Era un drago, quella che avevo visto sul suo collo era la testa, il disegno continuava sulla sua spalla e si snodava lungo tutto il braccio. Non avevo fatto caso che finiva sul polso destro. Mi soffermai solo un secondo a guardare i suoi muscoli esposti in modo così prepotente, se non lo avesse fatto per dare la camicia ad Aurora, avrei potuto benissimo pensare che stesse facendo lo spaccone. Invece, anche se era a torso nudo ed era sicuramente consapevole di avere un fisico da urlo, non lo ostentava, era rilassato e non cercava di mettersi in mostra. Come se fosse una cosa del tutto normale. Ma, dopotutto, non era colpa sua se eravamo in estate, se indossava solo la camicia e se non aveva altro da mettere sulle spalle di mia sorella.

«No, sto a posto grazie.»

Risposi acida. Me ne rendo conto, avrei potuto rispondere meglio, ma proprio non riuscivo a farmelo stare simpatico. Lui invece mi sorrise, e si sedette accanto a mia sorella per non lasciarla da sola. Rimasi in piedi, senza riuscire a muovermi fin quando non arrivò la polizia. Forse mi sarei potuta sedere accanto a loro, forse aspettavo che Vladimir mi invitasse a sedermi. Non so perché mi aspettassi una cosa del genere, dal momento che non lo sopportavo.

Quando la polizia arrivò, insieme all'ambulanza, che a mio parere era del tutto inutile, si portò dietro alcuni uomini con delle tute bianche che analizzavano ogni cosa. Insieme a loro, altri uomini con la divisa della polizia e uno smanicato blu con scritto "polizia scientifica", stavano scattando delle foto. Ormai era quasi l'alba. Io e mia sorella fummo spostate da li, ci misero in una volante con delle coperte termiche, Vladimir salì in un'altra auto, da solo. Istintivamente mi voltai per guardare la macchina che stava parcheggiata dietro di noi, per assicurarmi che non ci abbandonasse.

Nonostante la mia ritrosia e la mia paura, dovevo ammettere che mi aveva dato la forza necessaria per agire, e che da sola non ce l'avrei fatta.

Tra i sedili posteriori e quelli anteriori, c'era una grata di metallo, probabilmente serviva per impedire ai criminali che venivano arrestati di aggredire gli agenti. Il nostro sedile era interamente di plastica. Lo guardai perplessa, mi faceva anche un po' schifo ad essere sincera. Non ero mai stata in una volante della polizia, e la cosa mi faceva uno strano effetto. Correvamo a velocità elevata, verso la stazione di polizia di Civitavecchia.

Una volta arrivati, ci fecero scendere dalla macchina. Appena fuori dall'auto, mi voltai a guardare l'altra macchina, sempre per accertarmi che Vladimir ci fosse. E lui era ancora li, e mi sorrise quando incrociò il mio sguardo. Distolsi subito il mio, non volevo in alcun modo dargli l'impressione che mi importasse. Poi trasalii. Mi importava? No, scossi la testa come per scrollare quel pensiero dalla mia mente.

Passammo il resto della notte al commissariato, mille domande, mille racconti, mi sembrava come se non avessero capito che non eravamo state noi. Finché Aurora non iniziò a dare di matto, stanca e provata, voleva solo tornare a casa e dormire. Ma lo ero anche io. Non so se fu quello o le parole che disse Vladimir a lasciarci andare. So solo che lui si alzò dalla sala d'attesa in cui ci trovavamo, entrò nella guardiola, disse qualcosa all'agente che si trovava li, e dopo più di tre ore riuscimmo ad uscire. Ci riaccompagnarono con la volante che ormai era mattina, all'entrata dello stabilimento in cui ci avevano trovate, per poter riprendere la macchina.

«Avanti, dammi le chiavi.»

Mi disse, davanti all'auto di mia madre. Guardai le chiavi nella mia mano. Effettivamente, non credevo di riuscire a guidare in quelle condizioni, ma l'orgoglio che era in me mi fece indugiare sulla risposta. Poi, senza guardarlo, gli passai le chiavi, e mi recai verso l'altro sportello.

Mia sorella si sdraiò sui sedili posteriori, e in pochi istanti si addormentò. Io mi sedetti al posto del passeggero, e mi rassegnai al fatto che uno sconosciuto, che mi terrorizzava e che non volevo vedere, mi stava per accompagnare a casa, così avrebbe saputo esattamente come rintracciarmi. Una situazione davvero surreale.

«Bene, direi che sono giunto al mio obiettivo di riuscire a scoprire dove abiti, in modo da stalkerizzarti, e chissà, intrufolarmi di notte dalla tua finestra e aggredirti. Magari rapirti e chiedere un riscatto. Siete ricchi?»

Mi girai a guardarlo senza riuscire a fiatare. Non capivo se stesse scherzando, oppure stesse dicendo sul serio, buttandola sullo scherzo in modo che non ci credessi.

«Scusa?»

Rise. Di cuore proprio.

«Perdonami, dovevo prenderti in giro. Sei così tesa, la tua paura si fiuta da chilometri di distanza. Hai paura di me dal primo istante che ci siamo visti, io ho tentato solo di essere gentile. Ma non preoccuparti, non ho intenzione di importunarti. Non avrei mai potuto lasciare due ragazze scosse tornare a casa da sole. Ora vi accompagno, e le nostre strade si divideranno se lo vorrai.»

Mi vergognai. Abbassai la testa senza riuscire a pronunciare parola, avevo gli occhi che mi pizzicavano per le lacrime che cocciutamente stavo ricacciando indietro. Non avrei pianto, mai. Soprattutto non davanti a lui.

Le uniche parole che ci scambiammo durante il viaggio, furono per le indicazioni da seguire. Non parlammo d'altro. Se solo la strada fosse stata libera come la sera prima, almeno ci avremmo messo di meno, invece rimanere in macchina con quell'atmosfera fu davvero un'agonia.

Lo feci parcheggiare proprio sotto casa nostra, Robert e mia madre erano li ad attenderci. Quando aprii lo sportello mia madre era pronta per abbracciarmi, mentre Robert aiutava Aurora a scendere dalla macchina. Poi si rivolse direttamente a Vladimir.

«Ti ringrazio per esserti preso cura di loro. Se vuoi ti riaccompagno ovunque devi andare.»

«Oh, non si preoccupi, non abito distante, posso andare con i mezzi pubblici.»

Mentre mia madre mi stringeva, Vladimir mi lanciò un'ultima occhiata, poi si voltò e se ne andò. Lo osservai camminare per qualche secondo ancora, mentre mi spingevano verso il portone, sperando, incredula di pensarlo veramente, di vederlo voltarsi e tornare indietro.



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