Capitolo 8

«L'ho capito, adesso! L'ho capito! Sono sempre stato così stupido da credere di poter vivere da solo. Ma non è possibile. E non voglio, non voglio più vivere da solo.»

Un monologo che andava avanti da troppo. L'attore aveva le lacrime agli occhi, nascondeva il volto nel palmo. Esagerava. Un'esibizione fin troppo sopra le righe. Chi parlava così? Chi urlava in maniera tanto diretta le proprie emozioni? Era stupido e poco realistico.

La sua innamorata – come si chiamava il suo personaggio? Elle? Priscilla? – lo cullava fra le braccia.

Mira poggiò il mento su una mano; con l'altra tamburellava il bracciolo. A pochi sedili di distanza, il profilo di un ragazzo svettava nel buio. Almeno lui era interessato: fissava la scena con le labbra dischiuse, stringendo a sé uno zainetto strapieno.

Un urlo. La protagonista del film premeva una pezza intonsa di sangue contro la gola squarciata dell'attore che fino a pochi secondi prima piangeva. Adesso piangeva lei. Un cambio d'inquadratura, ed ecco l'assassino, un uomo dallo sguardo allampanato. L'ex marito della protagonista – come diamine si chiamava? Ginger?

Qualcuno alle spalle di Mira risucchiò l'aria dalle labbra. Chissà cosa ci trovavano, di tanto scioccante. Il colpevole si capiva dalla prima scena.

Il cellulare le vibrò nella tasca. Lo estrasse, incurante della luce che rischiarava la sala buia e delle occhiatacce degli altri attorno a lei.

Un messaggio. Quella deficiente si era degnata di risponderle, alla fine. Con la vena sulla tempia che pulsava allo stesso ritmo dei tamburi del film in sottofondo, Mira aprì la chat.

Altair: Cazzo me ne sono scordata

Certo che se ne era dimenticata. Si dimenticava sempre tutto. Un sintomo del suo disturbo da deficit dell'attenzione, diceva sempre. Eppure sembrava peggiorare di giorno in giorno. Nonostante se ne andasse in giro con il telefono pieno di sveglie per ricordarsi perfino di mangiare, erano più gli impegni che scordava che quelli che portava a termine.

In uno sbuffo, Mira digitò una risposta veloce.

Mira: Fanculo.

Altair: Uno stronzo mi ha rubato la moto. Lo cerco da tre ore ma niente

Mira: Ben ti sta

Altair: Che è successo, sei scazzata? Ci sei rimasta male?

Ad accompagnare l'ultimo messaggio c'era una sfilza di faccine maliziose. La solita imbecille.

Mira: Eri tu quella che voleva vedere questo film di merda. Me l'hai fatto sorbire da sola

Ma Altair non era già più online. Ci sarebbero volute un paio di ore, prima di riavere di nuovo la sua attenzione.

Le avrebbe spoilerato il finale, decise.

Mira ripose il cellulare in tasca. Quando rialzò lo sguardo, la protagonista del film – Annabelle? – si aggirava per un boschetto, di notte, con indosso una sottoveste trasparente. L'inquadratura sostava più del necessario sulle cosce e sul seno. Perché certo, chi non si sarebbe svestita con un assassino sulle proprie tracce?

Inciampò su una testa mozzata. Urla. Sangue. Poi comparve il suo ex, l'assassino armato di coltello da macellaio: camminava lento fra gli alberi.

Tempo una decina di minuti, e la protagonista trovò il modo di rinchiuderlo in una casetta disabitata e dargli fuoco. I titoli di coda arrivarono subito dopo, in sovrimpressione sulle fiamme.

Le luci si accesero. Gli spettatori si alzarono uno dopo l'altro. Chiacchieravano e si facevano strada verso l'uscita; trascinavano con loro i barattoli di pop-corn vuoti, da cui saliva un odore invitante. Un odore che Mira associava al cinema, e a tutti i momenti in cui, da adolescente, si rifugiava in sala a guardare qualsiasi stronzata le capitasse a tiro pur di stare lontana da casa.

Proprio come allora, restò seduta al suo posto, in attesa che sfollasse. Odiava percorrere le scale nella calca, sentire le altre persone troppo vicine, il loro calore, i loro gomiti che la sfioravano per errore. Odiava le chiacchiere di fine film, quando tutti si ripetevano a vicenda che avevano previsto tutti i colpi di scena, i petti gonfi e le voci fiere.

Così attese. Fece vagare lo sguardo sui nomi che scorrevano accompagnati dalla canzone malinconica finale.

Quando si alzò, non rimaneva quasi nessuno. Raccolse il cappotto sul sedile accanto, lo indossò nonostante il calore della sala l'avesse fatta sudare sotto le braccia. Avvertiva una sensazione bagnata lungo tutto il corpo, di vestiti appiccicati alla pelle. Sporca, ecco come si sentiva. Le ci voleva una doccia.

Allacciò i bottoni del cappotto mentre raggiungeva le scale. Con tutte le luci accese, i led sugli scalini brillavano appena. Un fiotto di aria calda le investì le caviglie, gonfiandole i pantaloni.

Un uomo si tirava giù le maniche della camicia, pochi gradini più in basso. Portava un paio di occhiali dalla montatura sottile e scura; gli caddero sul naso mentre si chinava a riprendere l'impermeabile dal sedile. In un sospiro, si riavviò i capelli corti tirati indietro.

Con le mani nelle tasche e la testa inclinata, Mira lo osservò in silenzio. Nonostante il fisico meno smunto dall'ultima volta che l'aveva visto – adesso era slanciato, sì, ma con una buona dose di muscoli a fasciargli le ossa – lo riconobbe a colpo d'occhio. Dentro di lei, la Tempesta scalciò un paio di volte.

Solo dopo aver indossato l'impermeabile, Norton sollevò lo sguardo su di lei. Sotto il sottile strato di barba che gli velava il volto, le labbra si arcuarono appena verso l'alto. «Mira.» La sua voce le scatenò una fitta nel petto, lì dove i fulmini si rigiravano su loro stessi.

Le poche altre persone nella sala sparirono oltre le tonde rosse dell'uscita. Senza mormorii e rumori di passi, restava la canzone dei titoli di coda, una ballata dal gusto dolceamaro. Il cantante accompagnava gli accordi delle chitarre acustiche con il suo timbro rauco.

«Hai preso peso,» rispose lei, in una scrollata di spalle.

Norton abbassò il mento, si diede un paio di colpi sul petto. La camicia gli calzava perfetta, la stoffa seguiva la forma dei suoi muscoli. Per la prima volta da quando lo conosceva, Norton aveva davvero l'aspetto di un poliziotto.

«Ah, sì,» disse lui. «La mia ragazza mi ricorda di mangiare.»

«La tua ragazza?» Mira sentì le guance tirarle. Per qualche motivo, la notizia la fece sorridere.

«Già.»

Chissà che genere di donna era, a sopportare le giornate in solitaria di Norton, quelle in cui il lavoro lo prendeva troppo perché lui si ricordasse del resto del mondo. Immaginò una versione mondana di Elettra, la donna che sarebbe stata se la Tempesta non l'avesse mai scelta.

Mira allungò il busto, cercò una presenza sulle poltrone, convinta di trovarla seduta lì, ad ascoltare la conversazione come se non ci fosse nemmeno. Ma non c'era nessuno. «Però vieni al cinema da solo,» lo stuzzicò allora.

«Non le piace, questo genere di film.» Abbottonò l'impermeabile, lento.

«E a te sì?»

Lui sorrise di nuovo, e fu strano, perché negli occhi gli riluceva una luce che le era estranea. Un guizzo che vedeva spesso in Vega, quando punzecchiava Altair. «Sono stupidi, ma hanno qualcosa che mi affascina.» Le rivolse il palmo. «Tu? Non credevo ti piacessero gli slasher

La canzone arrivò alla sua conclusione. Ne iniziò un'altra, dal suono meno tormentato.

«Non mi piacciono, sono stupidi,» ammise Mira. «Mi hanno costretta a venire qui.»

Le sopracciglia di Norton si sollevarono. Voltò il capo, scandagliò la sala alla ricerca di qualcuno. Era curioso tanto quanto lei, si rese conto. «Ah, sì?»

«Mi ha dato buca.»

Questo gli fece cadere il sorriso. Un formicolio percorse le nocche di Mira; chiuse i pugni, e ordinò ai fulmini di darsi una controllata. Smisero di pizzicarle sottopelle poco dopo.

Norton mosse un passo all'indietro, verso il gradino in basso. La scarpa copriva il led luminoso. «Oh, mi dispiace. Era un appuntamento?»

In uno sfarfallare di ciglia, Mira dischiuse le labbra per mandarlo a fanculo, ma una scarica elettrica le percorse la schiena. Rabbrividì.

La canzone crebbe d'intensità. Le note si susseguivano lente ma potenti. Si aggiunse un timbro femminile, che si intrecciò con quello maschile.

Mira afferrò il bracciolo del sedile accanto a sé. Affondò le dita nell'imbottitura. I fulmini le si concentrarono sui polpastrelli, le pizzicavano dall'interno. «Che stronzata,» sbottò.

Diede un colpo di spalla a Norton, lo costrinse a spostarsi per farle spazio. Scese il resto dei gradini. Calpestava l'ombra di lui, che la seguiva docile.

Fuori dalla sala era pieno di gente. I mormorii, gli odori di colonie, di profumi e di sudore si spargevano nell'ambiente in un ventaglio, trasportate dall'aria calda del riscaldamento. Mira mantenne la testa bassa, si concentrò sulle scarpe e sui passi della gente attorno a sé. Si spostò in mezzo alle persone con una serie di spintoni, finché non raggiunse la porta.

Varcata la soglia, il vento freddo le punse le guance. Si godette il gelo penetrarle sotto il cappotto, raffreddarle le orecchie in un soffio feroce. Aveva quasi smesso di piovere.

Norton le restava a fianco. Aveva il viso arrossato per il caldo nel cinema, ma il naso viola per il freddo. «Come va la tua nuova vita?» Nessun commento su quello che lui aveva definito "appuntamento".

La Tempesta dentro di lei si placò. Mira allentò i pugni. «Va.»

«Ti trovi bene con gli altri ibridi?»

«Più o meno.»

Non andava d'accordo con nessuno di loro. Elettra cercava sempre di farla parlare di argomenti stupidi; Vega la accoglieva in una nube fatta di silenzio, non si scambiavano più di due parole quando rimanevano soli; e Altair...

Si acciaccò la lingua al pensiero di Altair. Detestava come i fulmini diventassero un ammasso di caotica agitazione, quando si trattava di quella notte, di come l'aveva vista accasciarsi a terra in un grido di dolore. Max aveva ragione: quella stupida doveva parlarne con gli altri.

«E il lavoro?» Norton chinò il busto per abbassarsi alla sua altezza. Le sventagliò una mano sotto al naso.

Mira si strinse nelle spalle. «Salto da una cosa all'altra. Niente di entusiasmante.»

A volte i muscoli le si contraevano nell'udire l'allarme della polizia. Il corpo rispondeva a un suono familiare, e si metteva sull'attenti. Quello non era mai stato il suo posto, eppure le mancava; distribuire volantini, rispondere al telefono o pulire le scale dei codomini di certo non era meglio.

Norton annuì, le labbra ridotte a una fessura. «Capisco.»

Alle sue spalle, una figura incappucciata gli puntava il coltello contro, immerso in uno sfondo scuro sfumato. Il titolo del film sanguinava sul fondo della locandina. Il Gioco della Morte. Il ronzio dell'insegna al neon del cinema copriva a stento il vociare che proveniva dall'interno.

Mira batté il tacco su un tombino. «Tu e Alex?»

Norton controllò il cellulare. Il bagliore dello schermo gli inondò il viso per un paio di secondi. «Ce la caviamo. La squadra speciale è stata smantellata, ma siamo rimasti nello stesso reparto.»

Si incamminò lungo la strada, a passi lenti, il mento sollevato a osservare il cielo. Delle lanterne penzolavano ai lati della strada. Sfoggiavano disegni di stelle e forme geometriche sulle loro facce di carta, illuminate dalla luce racchiusa all'interno.

Mira gli andò dietro. «È stata davvero una buona idea smantellare la squadra speciale?»

Norton voltò il busto nella sua direzione. «Perché?» Non sorrideva, tuttavia l'ombra del divertimento gli sostava sul volto.

«Ho sentito che avete dei problemi con una banda capeggiata da una figlia della Tempesta.»

«Ah. Sherlin.» Strinse la radice del naso fra le dita, annuendo fra sé e sé.

Quindi la richiesta veniva davvero da lui. C'era da aspettarselo. Dopotutto, quale altro agente di polizia si sarebbe mai "abbassato" a chiedere una mano agli stessi ibridi che avevano combattuto fino a poco tempo prima?

«Ti sei rivolto a una di noi,» gli disse.

La risata di Norton fu inaspettata. Un suono spensierato, che non si sarebbe aspettata da lui. «La tua amica, giusto? Altair Almond. Un tipo davvero... particolare

"Particolare" non era il termine esatto. Pazza. Fuori di testa. Tamarra. Volgare. Il caos personificato. Così l'avrebbe descritta Mira. L'angolo delle labbra le si arricciò verso l'alto. Girò la testa dall'altro lato per nascondere quella reazione.

Sperò che non l'avesse notata. Ci mancava solo che lui ricominciasse con la storia dell'appuntamento.

Norton si arrestò davanti a una saracinesca chiusa. «Il punto è che rimaniamo impreparati contro altri figli della Tempesta. Pensavo che avessimo imparato dai nostri errori, e invece no. Contro quelli come Sherlin, che sanno usare i loro poteri, siamo solo delle macchiette ridicole.»

Una folata di vento gli portò un paio di gocce di pioggia sugli occhiali. Se li tolse e li asciugò contro la manica dell'impermeabile. Quando li inforcò di nuovo, le lenti erano piene di righe opache.

«Ed è un problema, quando gente come lei si dà alla criminalità. Non riusciamo a prenderla.» Si lasciò andare a un sospiro. «Ci avresti fatto comodo, in squadra.»

Non ne dubitava. Mira tuttavia si limitò ad aggrottare la fronte e scuotere la testa. «Non era il mio posto. E poi, continuiamo a non essere ammessi nella polizia.»

«Avrei dovuto coprirti, come i vecchi tempi.» Norton accentuò il suo sorriso, ma gli morì sulle labbra subito dopo. Al suo posto, un altro sospiro. Che la fidanzata lo costringesse a mangiare in maniera regolare o meno, l'aria di stanchezza perenne non lo lasciava mai. «Ironico, vero? Considerato che sei stata tu a liberarci della Tempesta.»

«Vero.» Mira affondò il mento nella finta pelliccia del cappotto. «Se non consideri che ho quasi distrutto la città nel mentre.»

Si aspettò una risata che non arrivò. Norton la fissò da dietro le lenti, bagnate di nuove gocce. Era animato da una solennità che la stupì, perché le ricordava i vecchi tempi, quando ci era abituata, alla sua serietà. «È successo perché non hai mai potuto imparare a conoscere i tuoi limiti.»

La pioggia le cadde sulla nuca. Delle gocce grandi, pesanti. Le si formò un nodo di fulmini nello stomaco; al peso di ogni goccia, si stringeva di più.

«Parli come uno di quegli attivisti pro-ibridi,» lo prese in giro.

Norton si batté una mano sul petto. «Perché lo sono.»

Questo era il primo baluardo della libertà. Una persona comune poteva affermare la sua opinione, poteva difendere i diritti dei figli della Tempesta senza il rischio di venire picchiato, arrestato o di perdere il lavoro.

Mira molleggiò sulle punte. «Perché non mi stupisce?»

Lui si grattò la nuca. «C'è un evento, sabato mattina,» disse, secco, come se temesse di pronunciare quelle parole ma sapesse di doverci provare. «In piazza. Protestiamo contro tutti i divieti insensati che vi hanno dato. Ma mi piacerebbe se venissi anche tu.»

«Non lo so.» Rispose di getto. Benché non avesse impegni per sabato mattina, non le andava di sprecarla in mezzo a una folla urlante, a sventolare cartelloni inutili.

«Puoi portare anche i tuoi amici,» aggiunse lui. «Mi piacerebbe se ci fosse almeno Elettra.»

«Perché proprio lei?»

«Perché vorrei chiederle una cosa.»

Mirasi calò il cappuccio sulla testa. «Ci penserò.» Non gli fece promesse, nessuna sicurezza. Lo salutò in un gesto veloce e si incamminò verso casa, nella solitudine dei fulmini che le scoppiettavano nello stomaco.

Note:

Torna un'altra vecchia conoscenza. Della serie, chi non muore si rivede. Comunque, i capitoli chill penso finiscano qui...

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