Capitolo 4
La tranquillità di casa la accolse fra le proprie braccia, la strinse a sé con la stessa foga di una madre iperprotettiva. Elettra buttò le chiavi le casa su una mensola, dove giunse il miagolio di Romeo; la sua pelliccia candida e folta fece capolino dietro un vaso vuoto. Lei gli tese la mano e lui si avvicinò ad annusarla. I baffi si muovevano e le provocavano il solletico.
Un tonfo. Vega che chiudeva la porta. Salutò anche lui Romeo, mentre Elettra si toglieva il visore di dosso e si lasciava piombare nell'oscurità totale. Quando tutto attorno a lei scompariva, quando non restavano altro che suoni e odori, poteva concentrarsi sul proprio respiro, sulle proprie sensazioni. Si allontanava dal resto del mondo. I suoi stessi pensieri la circondavano, si trasformavano nelle sbarre di una gabbia che la teneva separata.
Camminò rasente al muro, le dita a sfiorare la parete. Il freddo di fuori penetrava all'interno. Immaginò che il suo appartamento fosse diventato un igloo, con le pareti fatte di blocchi di ghiaccio. Doveva ancora imparare a regolare il riscaldamento. Per tutta la sua vita non ne aveva avuto bisogno, sotto la cupola Nuova Folk aveva sempre lo stesso clima: umido sì, ma mai freddo.
Romeo le zampettò dietro per un breve tratto. Le si infilò tra i piedi, le si strusciò fra le gambe in cerca di attenzioni. Elettra accennò un sorriso e lo accontentò. Poi il gatto si decise a sparire chissà dove, così lei raggiunse la camera.
Non credeva che la testa fosse tanto pesante. Le gravava sulle spalle, la costringeva a tenere il collo arcuato in avanti perché la sbilanciava. Nel fondo dello stomaco, attorcigliati fra di loro, i fulmini emettevano dei versi. Erano una voce gutturale nel pieno di un lamento.
Inciampò nel letto. Si lasciò cadere, affondò le ginocchia sul materasso. Tenne il busto sollevato e, lenta, a fatica, si mise seduta in una posizione più composta.
Vega non c'era. Quand'era che i suoi passi si erano interrotti? Aveva avuto la convinzione che la stesse seguendo.
Invece la sua camera era solo un buio vuoto. Nessuna luce, nessun respiro rassicurante lì accanto a lei. Lei e l'oscurità.
Lisciò le coperte sotto di sé. Perfino quelle la congelarono. Così si portò le mani al grembo, cercò di scaldarle fra le cosce. Raddrizzò il busto, le orecchie tese al rumore delle scarpe che si avvicinavano. Sentì le guance distendersi, le labbra allargarsi.
Vega portò con sé la luce. Debole. Una piccola fiaccola in fondo a un tunnel. Non illuminava molto oltre la propria figura. «Ho dato da mangiare a Romeo. Anche se forse dovremmo metterlo a dieta. È una mia impressione o ingrassa a vista d'occhio?»
Elettra si sfilò gli stivali. Li lanciò del tutto a caso sul pavimento davanti a sé. La mattina dopo li avrebbe rimessi a posto. «Dici?»
«Dico.»
L'energia che animava la figura di Vega era confusa. Si concentrava al centro del suo stomaco, dove i fulmini lanciavano grida di battaglia. Elettra non le udiva, le loro urla, ma le percepiva: tagliavano l'aria, la fendevano in due e si sperdevano nella stanza.
Abbassò la testa, mordendosi le labbra. Quanto era stata stupida a non notarlo prima. Pensò di scusarsi, ancora, invece restò in silenzio.
Vega le strinse la spalla. «Hai bevuto troppo, per una che si definisce astemia.» Il suo sorriso la raggiunse in una ventata sulla guancia.
«Ogni tanto bisogna provare cose nuove, no?»
Lui le stava a pochi centimetri. Gli afferrò il maglione, affondò le dita nel calore della stoffa. «E beccarsi un mal di testa colossale per un giorno intero? Io passo.»
Così rigida, l'energia dentro di lui. Era stata proprio una stupida a non notarlo prima.
Fece risalire le mani, gli accarezzò il petto fino a raggiungere il collo. Strinse la stoffa del maglione, lo tirò a sé. Chiuse gli occhi non appena le labbra di Vega la baciarono, si lasciò trasportare via, nel buio, con solo il suo bagliore a scaldarle le palpebre.
Lo spinse verso di sé. Vega poggiò un ginocchio sul materasso, le affondò le dita nei capelli. Si cercarono a vicenda. I fulmini di lui si placarono, quelli di lei scoppiarono in tante piccole esplosioni.
Poi le si contorsero nelle viscere. Li immaginò come tanti omini che si armavano di forconi e si battagliavano a vicenda, distruggendo qualsiasi cosa si trovassero davanti. E allora Elettra gli si aggrappò di più, gli sollevò il maglione ma, nella foga, glielo lasciò ricadere addosso mentre lui le spingeva il busto contro il letto.
Sprofondò nel materasso. Le saette continuavano a combattersi dentro di lei.
Le risalì un sapore di bile. Si separò da Vega, gli allontanò il viso. Si passò la lingua sui denti, tossendo, l'acido che le bruciava sul fondo della gola.
«Stai bene?» le chiese.
Elettra deglutì. Una lumaca sgusciante le ostruiva la trachea. «Sì,» disse. «Forse ho solo bevuto troppo.»
Vega la teneva per la vita. Le stava addosso, la scaldava con la sua presenza. La osservò per un paio di secondi, in silenzio. «Forse è meglio se ti metti a dormire.» Si rialzò così, senza aggiungere altro, lasciandola di nuovo sola e al gelo.
Elettra sollevò il busto. «Sto bene,» provò ancora. «Ce la faccio benissimo.»
La risata di lui fu improvvisa. Tagliò l'aria, proprio come le urla dei suoi fulmini, ma al contrario di questi, riportò con sé una dolce leggerezza. «Non è mica una sfida.»
«No,» concordò, la fronte aggrottata. «No, è che voglio...»
«Sei stanca, è meglio se ti fai una dormita.» Le si sedette a fianco. Profumava di sapone e di sandalo. «E poi, senza offesa, ma ti trovo più sexy da sobria.»
Elettra arricciò il naso. «E se mi fossi offesa?»
«Te ne farai una ragione.»
Le venne da ridere. Poi sospirò, e mandò giù l'ennesimo eccesso di acidi che le percorse la gola. «Mi dispiace,» mormorò.
Vega poggiò la mano sulla sua. Gliela schiacciò contro il materasso, e lei si aggrappò al suo caldo, alla sua presenza. «È perché non è venuto nessuno?»
«Cosa?»
«Ci hai lavorato tanto, al tuo progetto.» Le carezzava il polso con il pollice. «Era solo il primo giorno. Vedrai che la prossima volta verrà qualcuno.»
Questo credeva?
Elettra issò i piedi sul letto, li premette contro le coperte. Dall'arrivo di Altair aveva perso di vista il senso di quello che faceva. In un'esplosione di energie, i fulmini l'avevano agitata. «No,» mormorò. «Non è questo, non ci sono rimasta male.» Solo che non lo sapeva, quanto ci fosse di vero nelle sue parole.
Vega si afferrò il mento, in un'espressione strana, giocosa. «Aspetta, faccio finta di crederti.»
Le strappò una mezza risata. «D'accordo,» ammise. Circondò le ginocchia con le braccia e le tirò a sé. «Forse un po' ci sono rimasta male.» Scoprì con sua stessa sorpresa che sì, questa era la verità. «Speravo di essere utile, invece a nessun ibrido serve una rompicoglioni che cerca di insegnargli a controllarsi.»
«Non è vero.»
Elettra scrollò le spalle. «Dopotutto, perché dovrebbero?» Fendette l'aria con una mano, come se volesse lanciare qualcosa verso il soffitto. «Ormai siamo liberi, no? Non dobbiamo nasconderci, non dobbiamo fingere di essere normali. Quale imbecille inscatolerebbe i propri fulmini?»
Quale imbecille a parte me, pensò, e fu sul punto di dirlo, ma si acciaccò la lingua all'ultimo.
Si strinse ancora di più le ginocchia al petto. Il sapore di bile le galleggiava ancora nel palato, insieme a un retrogusto amaro. Si concentrò sul proprio respiro, sulla sensazione dell'aria che le viaggiava in circolo fino ai polmoni, finché non sentì più quel sapore.
Il tocco di Vega sulla caviglia fu dolce, ma anche veloce; lui lasciò il letto, e la sua luce passeggiò via, verso la porta. Si bloccò al centro della stanza, accanto all'armadio chiuso. «Siamo liberi.» Le parole gli uscirono stentate, come se gli costasse fatica ammetterlo. Come se, nonostante fosse la verità, non la sentisse tale. «Però quante cose ci sono, che ci limitano ancora?»
Elettra nascose il volto nelle ginocchia. Lì, la luce di Vega non la raggiungeva. Era soltanto il buio ad accoglierla.
«Possiamo esistere, è vero. Però ci sono tante cose che non possiamo fare.»
«Non è niente di così limitante,» rispose lei.
«No? Per te, forse.» Compì altri passi. Si avvicinava. «Non possiamo andarcene in giro a usare i fulmini in pubblico, perché la gente dà di matto. Alcuni posti di lavoro ci sono vietati per paura che causiamo disastri. E, a proposito, non ci sarebbe nessun pericolo del genere, se fossimo tutti bravi a controllarci.»
Non aveva torto. La legge che escludeva i figli della Tempesta da lavori visti come "pericolosi" – ironico come fra questi ci fosse l'impossibilità di entrare nelle forze dell'ordine – era il motivo per cui aveva creato il circolo. In un mondo in cui gli ibridi sapevano controllarsi, leggi del genere potevano essere abolite.
Vega le arrivò di fronte, si chinò davanti al materasso. Elettra sollevò il capo, si perse nel bagliore dei fulmini di lui riflesso negli occhi. «E poi, non so se ci hai fatto caso, ma negli ultimi tempi abbiamo tutti bisogno di regolarci meglio.»
Lei annuì. «Non parli solo del tuo problema.» Non una domanda.
«Altair è più insopportabile del solito, non riesce a stare ferma nemmeno un secondo.» Gonfiò il petto in un sospiro. «E tu, con quella storia delle vibrazioni?»
Le venne spontaneo sorridere. Liberò le ginocchia, distese le gambe; Vega si arrampicò sul materasso accanto a lei. «Non lo so. È come se i miei fulmini cercassero di mettersi sulla stessa frequenza degli altri. Ha senso?»
«No,» disse lui. Passò le dita sulla nuca, fra i capelli radi. «O forse sono scemo io. Il che è probabile.»
Elettra scosse la testa. «Non era solo al locale. Anche prima, quando è arrivata Altair per esempio, all'improvviso i miei fulmini sono diventati irrequieti, volevano che mi muovessi.»
«E mentre parlavi con Mira eri irritabile.»
«Non aiuta il fatto che Mira sia irritante.»
«Vero.» Si distese anche lui, appoggiò la guancia contro la mano, il gomito affondato sul materasso. «Qual è il motivo, secondo te? Non può essere un caso.»
Lisciandosi la maglia, Elettra raddrizzò un poco la schiena. Durò meno di un secondo, poi si lasciò crollare contro il letto. «Non lo so. Forse ha a che fare con il fatto che abbiamo assorbito la Tempesta. Quando Mira ce l'ha passata.»
«Forse stiamo sviluppando nuove capacità,» ipotizzò lui.
«O forse è perché la Tempesta non c'è più.»
Si zittirono entrambi. Si lambiccarono alla ricerca di una soluzione – o almeno, Elettra si scervellò per comprendere. Con gli occhi rivolti a un soffitto che non vedeva, la luce di Vega che faceva capolino da un angolo della sua visuale, e le mani poggiate sul grembo, ci rifletté fino a perdere la cognizione del tempo. Lo sentì alzarsi, muoversi, e quando si fu allontanato abbastanza Elettra non capì nemmeno più se gli occhi ce li avesse aperti o chiusi.
I pensieri volarono via, uno dopo l'altro. Il letto sotto di lei si dissolse, e rimase così, a levitare nel vuoto.
Delle mani le presero le caviglie, la spostarono. Le poggiarono la testa sul cuscino e la coprirono con le coperte. Capì che si trattava di Vega solo quando lui si chinò a spostarle i capelli dal viso.
«Buonanotte,» le sussurrò.
Elettra fece appello a quel poco di coscienza che le rimaneva: gli chiuse il polso fra le dita, impedendogli di andarsene. «Resta qui,» gli chiese in un filo di voce.
Percepì il suo sorriso, sebbene non lo vedesse. Senza il bagliore che lo animava, Vega fece il giro del letto. Scostò le coperte e, il secondo dopo, il suo calore le scaldò la schiena. La strinse a sé, in silenzio.
Elettra si addormentò subito.
Note:
Non ho molto da dire questa volta, non commenterò l'epic fail di Elettra xD
Voglio anticiparvi però che nel prossimo capitolo ci sarà un nuovo pov...
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