Capitolo 21
Far incontrare quella pazza dai capelli da pony di Sherlin con Evelyn, la maniaca dei lustrini, era stata un'idea di merda. Si erano trovate subito, ed Eve non la smetteva di dire quanto le sarebbe piaciuto gettare la testa dentro un arcobaleno per tingersi delle stesse sfumature. Keira dal canto suo annuiva e basta, aggiungeva dettagli ancora più di merda mentre spargeva spirali di fumo di sigaretta.
Quelle due teste di rapa si erano dette d'accordo con l'idea di far tornare la Tempesta. Non che ci guadagnassero qualcosa, loro – al contrario di quell'imbecille di Elettra – ma Evelyn avrebbe provato di tutto pur di "non vederla più zoppicare come un orco non-morto".
«Basta che prima mi fate sposare,» aveva detto, «poi scatenate pure l'Armageddon.»
Keira non le avrebbe mai dato torto. Dopotutto, da quando le aveva messo l'anello al dito, si comportava come un bravo zerbino. Un modo per chiedere scusa di tutte le stronzate con la droga, forse.
Ad Altair non fregava un granché. L'importante era saperle dalla sua parte. Nuova Tempesta o meno, si sarebbe assicurata che vivessero il loro matrimonio di merda in un bel giardino con una fontana che spruzzava acqua rosa.
«Ecco il piano.» Nel suo rifugio che puzzava di fogna, con la lampadina penzolante dal soffitto, Sherlin srotolava una nuova manciata di cartelloni sul muro.
«Basta con quei cazzo di schemini. Non siamo a scuola, ragazza pony.»
«A me piacciono,» aveva detto Evelyn. «Anche se forse ci aggiungerei un tocco in più. Qualche fiocco colorato, magari.»
Sherlin le aveva puntato un dito addosso, annuendo, e aveva trafficato in una delle sue scatole. Sotto pistole e fucili accatastati, giaceva una confezione di fiocchi da regalo. Aveva scelto solo quelli rosa e li aveva appiccicati ai lati del cartellone con un'espressione soddisfatta.
Altair aveva tirato un sospiro esasperato. Mira aveva schioccato la lingua, le braccia attorno al corpo, e distolto lo sguardo. Vega si era solo accigliato, con l'aria di uno che contemplava l'idea di darsi fuoco.
«Molto meglio.» Evelyn e Sherlin intanto si davano il cinque.
«Il piano?» aveva detto Mira, secca. La camicia rossa a quadri da lesbica le stava meglio del dovuto; la teneva fuori dai pantaloni, e l'orlo le ondeggiava a metà sedere. Altair l'aveva osservata resistendo a stento all'impulso di strappargliela di dosso.
Sherlin pugnalava il cartellone con un coltellino, uno di quei mezzi ciocchi che si portavano appresso i tizi fissati con il fai da te. Bucava il disegno brutto di un edificio storto con le barre alle finestre. «L'altro giorno abbiamo provato a liberare Alvaréz da soli.»
«E come? Avete inscenato una gita di classe?» chiedeva Altair.
«Prima o poi ti stancherai di ripetere sempre le stesse battute,» rispondeva Sherlin.
Vega se n'era approfittato per intromettersi, scuotendo la testa. «No, non si stanca mai. Te lo assicuro io.»
«Confermo,» avevano detto Evelyn e Keira. Mira era l'unica che si era limitata a sbuffare un mezzo sorriso.
«Comunque, non è andata bene.» Sherlin allora riprendeva a picchiettare l'edificio disegnato, questa volta con il dito. «Potrei raccontarvi la versione lunga, ma sarebbe una perdita di tempo.»
«Che tradotto,» mormorava Altair nell'orecchio di Mira, «vuol dire che non vuole raccontarci la sua figura di merda per intero.» Aveva ricevuto una pacca sulla spalla, poi Mira aveva roteato gli occhi.
«La versione breve è che abbiamo dato fuoco all'edificio.»
«Cosa?» scattava Vega. «Perché?»
A Sherlin tremava il labbro. Si rigirava il coltellino fra le mani, come se cercasse in tutti i modi di resistere all'impulso di conficcarglielo nel petto. «Perché si erano permessi di darmi dell'incompetente.»
«Quindi l'hai fatto per vendetta?» Keira teneva il braccio attorno alla vita di Evelyn, la stringeva a sé.
«No. L'ho fatto per dimostrargli che gli incompetenti erano loro, e che noi facciamo sul serio. Ora, se mi fate continuare, posso spiegarvi il cazzo di piano. Che ne dite?» Ricordava uno di quei personaggi dei cartoni animati, con le linee rosse di rabbia a pulsarle sulla tempia e il sorriso forzato che tentava di celare lo scazzo.
Vega aveva cercato lo sguardo di Altair. Con chi cazzo mi stai facendo collaborare?, chiedeva in silenzio. Lei aveva accantonato l'argomento con una scrollata di spalle.
«Sfortunatamente, sono riusciti a spegnere l'incendio in fretta. Nessun morto. Qualche ferito. Però un'ala del carcere adesso è fuori uso, perciò stanno pianificando il trasferimento di alcuni detenuti.» Sherlin annuiva beata del suo operato. «E indovinate chi c'è tra i fortunati?»
Evelyn aveva alzato la mano e l'aveva agitata con la foga di una scolaretta con una cotta segreta per il professore che sperava di attirare la sua attenzione. «Pablo Alvaréz!»
Uno schiocco di dita, e Sherlin tornava a picchiettare il cartellone con il coltello. «Esatto. Lo trasferiranno nel penitenziario di Blackford. Quello nella strada di Blackford, avete presente, quella sul lato est, dove ci sono solo container?»
«Sì, abbiamo presente.» Vega era sull'orlo di una crisi isterica. Altair se la rise nel vederlo tanto disperato. Non che non lo capisse.
«Ecco. Lo trasporteranno insieme agli altri detenuti su un piccolo autobus. Sarà quello, il momento in cui attaccherete.»
Altair spalancava un braccio, appoggiata con il sedere a una delle pile di scatole chiuse. «Attaccheremo? Voi che fate intanto? Pettinate le treccine ai punk?»
«Noi vi copriamo le spalle e vi aiutiamo a farlo fuggire.»
Per il resto del piano gli aveva dato carta bianca. Altair si era rifiutata di preoccuparsene – aveva preferito stuzzicare Mira, soffiandole nell'orecchio quando nessuno le guardava per vederla rabbrividire. Keira, Evelyn e Vega avevano fatto quindi le veci di Elettra, e se n'erano usciti con il piano più rischioso che potesse esserci. Altair e Mira avevano approvato in pieno.
Perciò eccola, adesso, al galoppo della moto nuova, ad attendere il segnale di partenza sul ciglio della strada. Di neve ne rimanevano pochi spruzzi sparsi, e un cumulo ai lati del marciapiede, dove era stata ammassata per pulire l'asfalto.
Quella mattina Altair aveva buttato giù cinque pillole di antidolorifico con una bottiglia di birra. Si sentiva la testa leggera e i muscoli più sciolti. Cercò la Tempesta dentro di sé, un istinto che non seppe controllare. Non trovò altro che un vuoto nel petto.
L'autobus giallo del carcere le passò davanti a una velocità moderata. Lo osservò entrare nella superstrada che costeggiava la città e accelerare di poco.
Il telefono le squillò. Le note di una chitarra elettronica le scoppiarono nella tasca. Altair lo ignorò; diede fuoco alla moto e si lanciò sulla superstrada a tutta velocità. La pistola a doppia canna le premeva contro il fianco.
Sfrecciò fra le corsie, infiltrandosi in ogni spiraglio fra le macchine. Le suonarono il clacson con rabbia, qualcuno le lanciò delle maledizioni. Altair mostrò il medio a un paio di stronzi, accelerando. Quella moto era una bomba: con la bellezza di duecentotrenta cavalli e un design moderno e minimalista, avrebbe vinto qualsiasi gara a occhi chiusi.
Il giallo dell'autobus ondeggiava poco più avanti. Altair gli si affiancò ed estrasse la pistola per puntarla contro le ruote anteriori. Difficile prendere la mira a quella velocità, soprattutto quando la quantità eccessiva di pillole le faceva sentire la testa come un palloncino, pronto a salire verso il cielo.
Sparò, ma mancò il bersaglio. Prima che potesse riprovare, l'autobus prese a sbandare. Altair tirò una bestemmia sotto il casco, chiuse un occhio e tese di nuovo la pistola; una macchina dalle sirene lampeggianti si mise in mezzo e la costrinse ad allontanarsi per non finire travolta.
I poliziotti le miravano alle ruote dai finestrini. Altair sollevò la schiena, lasciando andare il manubrio, e alzò il medio. Poi, in un accelerata improvvisa, si nascose dietro un camion di passaggio. I proiettili della polizia rimbalzarono sull'asfalto.
Gli altri veicoli si accostavano lungo la corsia d'emergenza. Altair sfrecciò via, oltrepassò il furgone giallo, inseguita da almeno tre diverse auto a sirene lampeggianti.
Bella merda. Quegli stronzi sapevano dell'attacco. Sherlin, la sua banda di bassotti rosa e il loro stupido tentativo fallito li avevano messi all'erta.
Altair travolse un segnale di lavori in corso e percorse a tutta velocità una rampa di legno. In un salto, raggiunse la corsia opposta, e le venne da ridere nel ritrovarsi tutte le macchine correrle incontro. Era contromano. Ma andava bene così, perché seminare i piedipiatti sarebbe stato più facile.
Zigzagò fra le vetture, mentre la polizia la seguiva dall'altro lato del guardrail. Non osavano sparare, non finché c'erano civili di mezzo.
Altair invece faceva fuoco a ogni occasione. Centrò una ruota posteriore, un finestrino e un parabrezza. Soltanto una delle vetture fu costretta ad arrestarsi, le altre due sfruttarono un'apertura per cambiare corsia.
Adesso ce li aveva attaccati al culo. E ora che tutti i civili avevano accostato, potevano puntare di nuovo le pistole.
Altair serpeggiò lungo la strada, un'andatura da ubriaca che le permise di evitare i colpi. Alcuni le sfrecciarono a pochi centimetri dal casco, altri sbalzavano sull'asfalto, nei punti più disparati. Doveva fermarli, o presto o tardi si sarebbe ritrovata spalmata sulla strada come un pezzo di burro.
Li distrasse con un paio di proiettili alla cieca. Mentre i poliziotti armati abbassavano le teste per ripararsi, Altair si esibì in un drift, girando su stessa. Accelerò in direzione della polizia, e fece esplodere un paio di proiettili. Distrusse entrambe le ruote anteriori e si allontanò urlando un sonoro «Vaffanculo, stronzi!», lasciandole sbandare.
Note:
Questo e il prossimo capitolo ho odiato scriverli ma mi sono divertita a rileggerli. Spero sia un buon segno. Altair e il suo pov almeno portano un po' di "allegria" in questo marasma di disperazione.
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