Capitolo 20

Il messaggio di Max le era giunto nel mezzo della mattina, mentre convinceva Vega a cercarle nell'armadio degli abiti che si abbinassero bene. Aveva lasciato che a leggerlo fosse l'assistente vocale, e per una volta, non le creò un senso di distacco troppo grande con la vera Max: dopotutto, il modo di parlare monocorde era simile.

«Sono in ospedale. Ho avuto un piccolo incidente con Gael, ma sto bene. Ho alcune cose da riferirti, quando puoi, se ti va, vieni.»

Vega le aveva lanciato i vestiti sul grembo, senza troppe storie. Un odore di ammorbidente la investì in pieno, assieme alla stoffa soffice del maglione. «Un giorno troveremo amicizie che non fanno cazzate ogni due per tre, vero?»

Elettra si era concessa una risata. Voleva godersi quel piccolo momento di leggerezza perché, lo sapeva, sarebbe finito presto. Per quanto Max si sforzasse di suonare tranquillizzante, fra le righe si celava un'ombra oscura, il peso di qualcosa che avrebbe cambiato tutto.

Presto avrebbe dovuto rivelare la verità sul piano di Sherlin, sul suo tentativo di riportare la Tempesta, e temeva la risposta di Altair e Mira. Aveva stretto forte a sé gli abiti puliti, ne aveva percorso la superficie ruvida; aveva paura perfino della risposta di Vega. Cos'avrebbe voluto lui? Avrebbe scelto di rincorrere la possibilità di una nuova Tempesta?

Si era vestita lentamente. Qualsiasi cosa, pur di rimandare il momento. Poi era uscita di casa, il bastone in una mano e il braccio di Vega a sorreggerla dall'altro lato. Chiamò Altair soltanto una volta arrivati all'ospedale, quando gli odori di malattia, medicinali e disinfettante si mescolavano a creare quell'unico, caratteristico tanfo. Aveva riconosciuto lo sbuffo snervato di Mira in sottofondo, così le aveva avvisate entrambe di raggiungerli.

Entrarono nella stanza di Max accompagnati da un'infermiera. Elettra lasciò andare il braccio di Vega, fece un paio di passi con l'aiuto del bastone fino a trovare una sedia.

Quella si spostò, trascinata da qualcuno che si alzava in piedi. «Prego, siediti pure.» Un ragazzino. Aveva un tono calmo e timido al contempo, e un timbro che le ricordò un albero dal busto lungo e sottile.

«Grazie.» Si esibì in un mezzo inchino con la testa, poi occupò il posto lasciato vagante dal ragazzo. Il calore di lui scaldava ancora la plastica.

I macchinari emettevano rumori bianchi, fastidiosi. Le riuscì difficile concentrarsi sul respiro di Max, ma dopo averlo riconosciuto non lo lasciò più andare. Di fronte a lei, distesa al letto. Aveva il respiro pesante di chi nascondeva un dolore.

Elettra allungò una mano, tastò le coperta cercando quella dell'altra. Max aveva le dita molle e sudaticce. «Ehi. Tutto bene?»

L'infermiera canticchiava sottovoce. Trafficava con qualcosa, spostava le coperte.

«Credo di essere andata nell'Aldilà per un paio di secondi,» rispose Max. «Faceva abbastanza schifo, c'era una musica orribile.»

Elettra le lasciò la mano in un sorriso. «Peggiore delle marmotte?»

«Molto peggio. Rap commerciale. In pratica tutta gente che bestemmia davanti al microfono.»

«Marmotte?» borbottò il ragazzino, rimasto in piedi lì accanto. Era silenzioso, fin troppo. Elettra era convinta si fosse allontanato.

«Esiste un rap non commerciale?» chiese invece Vega. A questo, Max ridacchiò.

I passi del ragazzino vibrarono contro il terreno. Sorpassò la sedia, andava verso Vega. «Io ti conosco?»

Un attimo di pausa. Se lo immaginò Vega, con le braccia conserte e un cipiglio confuso; nella propria mente lo osservò scrutare quel ragazzino da cima a fondo. Un ragazzino senza volto. «Non lo so,» disse alla fine, ma traspariva incertezza nella sua voce.

«Lui è Shiro,» intervenne Max. «Mi ha aiutato a parlare con Gael. Shiro, loro sono Elettra e Vega.»

Solo un sospiro da parte di Shiro, che si affrettò a farsi da parte. «Piacere mio.» Chissà se ancora cercava segni familiari addosso a Vega, qualcosa che lo aiutasse a comprendere se davvero si erano conosciuti, un tempo.

«Questo Gael, sembra simpatico.» Vega si aggrappò allo schienale dietro a Elettra. Sollevò di poco le gambe anteriori della sedia; lei poggiò con forza i piedi contro il pavimento, un riflesso della paura di cadere. «Spara proiettili dalla bocca quando parla o ha solo il grilletto facile?»

«No, è un coglione,» disse Shiro, brusco. L'ondata di risentimento nella sua voce investì Elettra con la forza di un pugno.

Si zittirono tutti, attesero che l'infermiera lasciasse la stanza. Soltanto dopo Max si lasciò andare a un sospiro. «È stata colpa mia.»

«Ti sei sparata da sola?» Vega sollevò le mani, la sedia ricadde in avanti. Spostò le dita sulle spalle di Elettra.

«No. È che l'ho istigato.»

«Non è vero,» intervenne Shiro. «Cercavi solo di farlo ragionare.»

«No, io...» Max parlava piano, più del solito. «Mi davano fastidio le cazzate che diceva. Non avrei dovuto sbottare in quel modo, è stato stupido.»

«Chi è che dice cazzate?»

Altair si presentò nella stanza sbattendo la porta contro il muro. Portava un'ondata di energia con sé, nonostante il passo più incerto del solito. Assieme a lei c'era un'altra presenza, qualcuno che le andava dietro in silenzio, un altro paio di piedi che si avvicinava a Max: Mira.

«Strano a dirsi, ma non parlavamo di te,» le rispose Vega.

«Ma va'.» Altair sparse un'ondata d'ambra nell'aria nel sedersi sul bordo del letto. «Che cazzo hai fatto, sconsolata? Chi hai fatto incazzare?» Batté un colpetto, forse sulla gamba di Max perché lei lanciò un lamento.

«Uno della banda di Sherlin,» a rispondere fu Shiro.

Altair schioccò la lingua. «Ah. Tu sei il tizio fantasma dell'altra volta?»

«Tizio fantasma?»

Elettra si prese la radice del naso fra le dita. Troppe persone, troppi dettagli di cui non era a conoscenza, rischiava un esaurimento nervoso. Si concentrò sui suoni di sottofondo, sul costante bip dei macchinari, sul vociare nel corridoio.

Il peso di una mano sulla spalla la riportò al presente. L'ancorò al mondo da cui si allontanava, quello oltre il buio, quello a cui non apparteneva più. Strinse le dita di Vega nelle proprie. Quante volte lui le aveva impedito di perdersi?

Prese dei respiri profondi. Gli altri si scambiavano battute. Altair aveva creato un'atmosfera diversa, più leggera. Un superpotere che le invidiava.

«Max,» li interruppe Elettra. «Raccontaci quello che è successo.» Quello che hai scoperto, pensò, ben consapevole che il momento che tanto aveva evitato si avvicinava.

Gli altri si zittirono. Max deglutì, si prese il suo tempo. Riordinava i pensieri, o forse cercava solo le parole giuste. «Gael è il migliore amico di Shiro, perciò avevo pensato che almeno a lui avrebbe dato ascolto. Che avrebbe lasciato perdere questa storia di Sherlin e della Tempesta.»

«Ma quello scemo è convinto di voler diventare un figlio della Tempesta,» continuò Shiro, stizzito.

Elettra tirò giù le maniche del maglione. Affondò il mento nel colletto alto. «Cosa?»

Altair tamburellava il pollice contro le coperte. «Ma chi, quel biondino sfigato?» disse, e nello stesso momento Mira se ne uscì con un «Che stronzata.»

Non aveva senso. Era impossibile. Seppure la Tempesta fosse tornata, nessuno conosceva il motivo per cui ci annidasse solo nel cuore di alcune persone. Nessuna sapeva cosa la attirasse.

Max si schiarì la gola, ma la voce le uscì comunque rauca. «Non so quanto sia vero, ma Gael ha detto che Pablo Alvaréz potrebbe aiutarlo a diventare uno di noi.»

La situazione era peggiore di quanto credeva. Esisteva la possibilità che fossero solo frottole, una favoletta raccontata da Sherlin per tenerlo nelle proprie grinfie e convincerlo a fare quello che voleva. Se invece fosse stato vero...

«E come?» Altair era tornata in piedi, passeggiava in giro. Produceva un tintinnio, giocava con qualcosa.

«Non lo so. L'unica cosa di cui sono sicura è che credono che Alvaréz possa risvegliare i nostri fulmini. E poi sperano di scatenare una nuova Tempesta.»

Eccola, l'informazione che Elettra evitava di pronunciare ad alta voce. Poggiò il bastone sul grembo, lo strinse a sé fino a conficcarselo nello stomaco; sarebbe potuto essere una lama, e lei avrebbe continuato a spingerselo contro, avrebbe tagliato il suo stesso corpo in due. Forse allora la tensione sarebbe finalmente volata via.

«Per evitare che si esauriscano di nuovo,» disse Mira.

Altair si arrestò di colpo. «Che?»

«Abbiamo perso i fulmini perché la Tempesta non c'è più. Se tornasse...»

«Avremmo la ricarica infinita?» terminò Altair. Correvano sempre sulla stessa frequenza, quelle due. Attirate dallo stesso bisogno di sfogarsi, dall'amore per la violenza, orbitavano attorno a un unico obiettivo: tornare come prima.

Elettra piantò il bastone sul pavimento. Il riverbero echeggiò fra le mura, le rimbombò nelle orecchie. «Non possiamo lasciarglielo fare.»

Altair le sostava a pochi passi di distanza. Spostava l'aria con le braccia; le spalancava come faceva sempre. «Perché cazzo no?»

«Perché no?» Una crepa le percorse la voce. Formò una piccola fessura, e al di là si affacciava l'occhio giallo dell'angoscia. «Ci tieni a far tornare Nuova Folk il disastro che era prima? Con la Tempesta, quella dannata cupola del cazzo e la gente che ci odia?»

Perdeva la calma. Non andava bene. Non doveva.

L'aria le entrò i polmoni, ma l'intero corpo le rabbrividì.

«Sempre meglio che vivere come una cazzo di disabile, imbottita di medicine per non sentire come mi fa male ogni fottuto centimetro del corpo!» Altair urlava adesso. Di sicuro stava attirando l'attenzione delle persone nelle altre stanze.

Elettra doveva placarla, ricordarle che si trovava in un ospedale, invece batté ancora una volta il bastone a terra. «Credi che a me non piacerebbe vederci di nuovo?» Non controllò le parole, le vomitò prima ancora di poterle soppesare. «Almeno quella stupida vista menomata che avevo... Ma non così.» Scosse la testa. Le tremavano le mani. «Non possiamo sacrificare mezza città.»

Vega le circondò la vita con il braccio. «Ely,» mormorò, e fece per attirarla a sé, ma lei scivolò via dalla sua presa.

«Perché no?» chiese Mira. La freddezza con cui parlò le trapassò il petto.

Il bastone era l'unico motivo per cui Elettra riusciva a stare ancora in piedi. La terra le era sparita da sotto i piedi, e lei sostava su una landa oscura, nel vuoto. «L'ho appena detto.»

«Ma Nuova Folk esisteva benissimo anche con la Tempesta.»

Una verità distorta, la sua; ironico come proprio Mira parlasse, colei che più di tutti aveva sofferto, fingendosi umana. Lei, che aveva rischiato di esplodere dopo una vita passata a reprimere se stessa e trascinare l'intera città nell'oblio.

Bussarono alla porta. L'infermiera avvertì dell'arrivo dei genitori di Max. Elettra annuì subito, lieta della tranquillità nella voce della donna. Mentre gli altri salutavano Max, tastò il pavimento con la punta della scarpa, ne stabiliva la solidità. Non sarebbe precipitata in un baratro. Poteva respirare.

Si congedarono senza fare storie, uno dopo l'altro. Elettra si tenne vicina a Vega, ma senza aggrapparsi a lui; ne sentiva la vicinanza, il profumo, il calore, e lo seguiva in silenzio. Avrebbe dato qualsiasi cosa per conoscere la sua opinione, eppure non osava chiedergliela.

Così finirono in strada, sotto i raggi di un sole tiepido, ad annusare la puzza dello smog delle auto. Le persone entravano e uscivano dall'ospedale in uno scricchiolare di scarpe sulla neve.

«Non aiuteremo Sherlin a riportare la Tempesta.» Suonò come un ordine. Un ordine moscio e rammollito, che Altair e Mira non avrebbero mai seguito.

Perché avrebbero dovuto?

Altair le fu subito addosso: una spinta appena accennata, un tocco troppo forte sulla spalla. «Smettila di fare sempre la moralista di 'sto cazzo?»

«Scusami tanto, se non ho la presunzione di essere più importante del benessere di un'intera città.»

«Be', fai male.» Sbuffò, in quel suo modo tipico che precedeva un sorriso. Non era arrabbiata. Non era Altair quella che stava perdendo il controllo. Non questa volta. «L'ho sempre detto che ti serve più autostima.»

Elettra si costrinse ad abbassare la voce. Gli sguardi incuriositi dei passanti la schiacciavano, li avvertiva strisciarle lungo la schiena e pesarle sulle spalle. «Non si tratta di autostima,» disse allora. «Non posso sacrificare Nuova Folk solo per avere un mezzo contentino e vedere che cosa? Un ammasso di corpi di energia? Per andarmene in giro con un brutto visore?»

Le mancavano quelle luci nel buio, quei fari colorati che Altair, Mira e Vega portavano con loro. Prima di allora non si era mai resa conto di quanto fosse facile scivolare via, lontana dal resto del mondo, perdersi in una realtà diversa senza un'ancora che la tenesse aggrappata al mondo terreno.

«No, Ely.» Vega le sfiorò la mano, solo per poi allontanarsi. Anche lui sostava dall'altra parte, quella che Elettra non poteva più raggiungere. «Altair ha ragione.» Seguì una risata. «Non posso credere di averlo detto, ma ha ragione.»

«Vedi? Perfino il superuomo depresso non ne può più delle tue stronzate da martire.»

Elettra si pizzicò la pelle della mano. Gelata com'era, sentì poco più di un formicolio. «Non potete essere seri.»

«Guarda che sei tu a essere dalla parte sbagliata, ghiacciolina.»

Ma era davvero così? «Altair, ci tieni così tanto a tornare a nasconderti? A vivere in una società che ti odia? Pensi che potresti ancora nasconderti? Sempre ammesso che ci rimanga, una società in cui vivere, dopo una nuova Tempesta.»

A questo Altair non osò controbattere. Giunse soltanto la sua risata, roca.

«È diverso,» intervenne Mira. «Ormai ci hanno accettati.»

Elettra scosse la testa con tanta forza da rischiare un capogiro. «No, non è vero. L'hai visto anche tu, no? Hanno paura di noi. E onestamente non riesco nemmeno a dargli torto.»

Le discussioni sulle pillole per attenuare i loro poteri, tutti i posti di lavoro vietati, il terrore di vivere con la consapevolezza che prima o poi, da qualche parte, un ibrido avrebbe potuto perdere il controllo e far del male a delle persone. Non poteva ignorarli.

Non poteva fingere che i figli della Tempesta facessero parte di quel mondo, perché non era vero. Non lo sarebbe mai stato.

«Ma senza la Tempesta forse potranno accettarci davvero. Siamo come loro adesso.»

«Cazzate,» rispose Mira. «Non saremo mai come loro.»

Ripensò a Max, alla sua melodia maledetta, alla dualità del sentimento che scaturiva dalla sua musica. «Forse hai ragione,» le concesse allora. E stirò le labbra, mentre una lastra di ferro le comprimeva il petto. «Però ora non possono più avere paura di noi. Siamo liberi. È una vittoria per tutti.»

«Non per me. Io voglio la Tempesta.»

«Diglielo, pazza sadica.»

Altair e Mira erano vicine. Affiancate, unite come lei non sarebbe mai stata con nessuno. Nel poco tempo trascorso insieme l'avevano allontanata. O forse era stata Elettra a discostarsi dal suo gruppo di amici, dalla sua famiglia, senza nemmeno rendersene conto.

Chinò il capo. Il sole le riscaldava il retro della nuca. «Quindi cosa avete intenzione di fare?»

Al contrario di lei, Mira non esitò. «Aiuto Sherlin, finché abbiamo gli stessi obiettivi. Se vuole creare un esercito di ragazzini figli della Tempesta che lo facesse, non sono affari miei.»

«Capisco.»

Sarebbe spettato a Mira il ruolo di leader, ne era certa. Altair glielo avrebbe appioppato senza farsi troppe domande, e Vega si sarebbe adeguato, perché non avrebbe mai reclamato quel compito per sé. E chissà, magari Mira avrebbe svolto un lavoro migliore di lei.

Vega le prese un braccio. Lo strinse fra le dita per una frazione di secondo, prima di lasciarla di nuovo sola nel buio. «E tu? Che vuoi fare?»

Aveva poco spazio per l'aria nella gola. Un blocco di cemento la ostruiva. «Fermarvi, immagino.»

«E dai, che cazzo! Guarda che non ti costringe nessuno a fare l'eroina.»

«Mi dispiace, Altair.»

Il suo sbuffo la colpì in pieno stomaco, le trapassò le membra come una lama. «Allora fai come cazzo ti pare, vivi da repressa, se proprio ci tieni così tanto.» Il suono dei suoi passi sulla neve era diverso dagli altri, aveva un ritmo veloce, fiducioso. Mira la seguì via, borbottandole dietro un «Questa volta guido io però.»

Elettra si ritrovò ad aprire e chiudere le palpebre davanti a una scena che poteva solo immaginare. Erano bastati pochi minuti per sbatterla fuori dal gruppo.

Vega esitava, poco distante da lei. Diviso a metà fra quelle due nuove realtà.

«Sicuro di volerti unire a loro?» lo chiese in tono leggero.

Lui si prese il suo tempo per rispondere. Attese che un gruppo di persone li superasse, rimase in silenzio finché le loro voci non furono scomparse fra le mura dell'ospedale. «Preferirei se venissi anche tu, ma sei troppo testarda per cambiare idea.»

Elettra si passò la lingua fra le labbra. Le scoprì salate. «Mi dispiace.»

«Anche a me.»

Lui percorse un breve tragitto, prima che Elettra lo richiamasse. «Vega?»

«Sì?»

Doveva lasciarlo andare? Sparire del tutto oltre la barriera che la separava dall'altra realtà?

Non osò chiederglielo, non subito: temeva che la voce non le reggesse. Così grattò le unghie contro il manico del bastone, spostò la testa in direzione del vento che spirava leggero. Gli occhi le bruciavano; li chiuse con forza, ricacciando indietro le lacrime.

E alla fine, alla fine trovò il coraggio di parlare. Di farlo allontanare oltre la barriera. «Mi stai lasciando?»

Vega emise un paio di versi inarticolati. Poi prese un sospiro e riprovò. «Non lo so. Non vorrei.»

Allora non farlo.

«Quindi è un sì?» disse invece.

«È che non ci riesco,» rispose lui. Il tremolio nella sua voce le sconquassò il petto. «Non ci riesco a starti accanto, a vedere come ti sacrifichi per un'umanità che non ti merita nemmeno.»

Il volto di lui cominciava a svanire dai suoi ricordi. Elettra tentò di visualizzarlo, con la mano sulla nuca e la sua aria nervosa, stanca, ma non riuscì a ricostruire ogni dettaglio. Gli occhi erano troppo piccoli, la parte inferiore del viso un ammasso di pennellate sfocate.

I piedi le si mossero in avanti. Voleva affondare nel suo abbraccio, perdersi nel suo profumo, sentire il contrarsi dei suoi muscoli sotto le dita. Invece si costrinse a fermarsi. «Pensi che far tornare la Tempesta sia la soluzione migliore?»

Qualcosa di particolare gli sporcava la voce. Delusione, o magari tristezza. «Forse. Chi lo sa? L'unica cosa che so per certo è che quando hai perso i fulmini non riuscivi a smettere di piangere.» Lui indietreggiò, strisciando gli stivali sulla neve. «Ti ho promesso che avrei trovato una soluzione, ed è quello che farò.»

Casa era così silenziosa.

Elettra si arrampicò sul letto, si sdraiò sulle coperte. Strinse il cuscino fra le braccia e finalmente lasciò che le lacrime le percorressero le guance. Guidata solo dal suono dei suoi stessi singhiozzi, costruì una bolla attorno a sé. Una bolla isolata, indistruttibile.

Un miagolio però fece una piccola breccia. Romeo le strusciò la testa contro il braccio, le bussò sulla spalla. Elettra gli lasciò uno spiraglio, e lui scacciò il cuscino per raggomitolarsi accanto a lei.

Gli affondò le dita nella pelliccia morbida. Il corpo di Romeo vibrò al suo tocco.

«Grazie,» gli sussurrò, e lui agitò l'orecchio. Un sorriso le spuntò sulle labbra, a bloccare i singhiozzi.

Almeno Romeo era ancora accanto a lei.

Note:

Il gruppo si divide e non so voi, ma io vorrei solo dare un abbraccio a Elettra.

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