Capitolo 2
Il locale scelto da Altair era meno peggio di quanto si aspettava. Luminoso, con una band che si esibiva dal vivo sul palco – ragazzi giovani, cantavano un rock leggero dal ritmo allegro – e gente che ballava senza troppa grazia. Pochi stavano ai tavoli, chiacchieravano in piccoli gruppi, bevevano drink di colori sgargianti dalle cannucce.
Mira seguì gli altri lontano dal bancone, e dal barista, a cui aveva ordinato la prima cosa che le era venuta in mente. Il tavolo lo scelse Vega, e dentro di sé gliene fu grata: il più appartato, addossato al muro. Due divanetti scuri li aspettavano al posto delle sedie.
Ad accoglierli, uno specchio appeso alla parete. La cornice di finto oro si esibiva in intricati disegni a spirale. La superficie limpida dello specchio rimandò indietro la loro immagine: un gruppo disomogeneo di quattro personaggi dall'aria folle.
Vega ed Elettra si accomodarono per primi, vicini. A Mira spettò il posto di fronte; quello accanto a lei però rimase vuoto, perché Altair era troppo impegnata a saltellare sul posto per mettersi giù.
Si appoggiò con entrambe le mani sul tavolino. «Guardate che qui non ci si viene per fare salotto.»
«Cosa ti aspettavi, che ci mettessimo a sgambettare in giro? Io non mi ci butto in mezzo alla calca a farmi schiacciare come una sardina.» Vega picchiettò l'indice sul tavolo, distratto. L'unico a non essersi tolto il giaccone, che lo avviluppava in un bozzolo, facendolo apparire più imponente di quanto non fosse già. «È già tanto che sono venuto.»
La risposta di Altair non arrivò subito: aveva voltato il capo a scrutare la folla in fermento, la testa ondeggiava appena a ritmo di musica. Quando l'incanto della pista da ballo si spezzò li degnò della sua attenzione. «Sei più palloso delle soap opera che guarda Eve,» commentò.
«Grazie, me ne faccio un vanto.» Vega si abbassò il colletto del maglione.
«Voi due? Ve ne state qui a fare le rotture di coglioni viventi come lui?»
Mira fece scivolare una mano sulla coscia, tastò il rigonfiamento del cellulare. «Io non ballo,» disse soltanto.
Elettra si tormentava il lobo dell'orecchio. Il nuovo visore vantava un design più piccolo. Era poco più ingombrante di un paio di occhiali, tuttavia emanava una luce azzurrina che attirava l'attenzione, specie in un luogo privo di neon colorati. «Non lo so. Credo di aver bisogno di più drink.»
Questo bastò a disegnare un sorriso sulle labbra di Altair. La risposta doveva esserle piaciuta, perché smise di lamentarsi e scivolò al suo posto. Spargeva profumo di ambra e Tempesta, un miscuglio tanto intenso quanto irritante. «Quando miss Ghiacciolo è la più divertente, la situazione è grave.»
«Non l'ho mai capito,» disse Elettra, e l'altra prese ad agitare il ginocchio. «Perché mi chiami ghiacciolina.»
«Perché sembra sempre che hai il ghiaccio nel culo.»
Il riflesso dello specchio mostrava una realtà diversa, in cui i gesti esagerati di Altair trascinavano con sé il peso di un'aura troppo immensa, la compostezza di Elettra si incrinava e la rigidezza di Vega aumentava quando Elettra lo sfiorava. Mira invece era lì, il quarto membro di un gruppo che nonostante il tempo trascorso insieme non riusciva ad afferrare davvero.
Una donna arrivò a spezzare il quadro, un faccino piccolo e appuntito sopra il grembiule. Svuotò il contenuto del vassoio davanti a loro, ricordò ogni singolo ordine – un margarita per Mira, un Long Island per Elettra, un semplice bicchiere di vino scuro per Vega e una bottiglia di birra per Altair. La cameriera accolse il «grazie» flebile di Elettra e sparì, diretta a un altro tavolo.
«Altair.» Vega parlò all'improvviso, con voce più leggera del solito. «Perché ci sono quasi solo donne? Mi sento fuori posto.»
Mira cercò di trovare dei tratti, nelle facce sfocate delle figure che si dimenavano nella calca. Contò un massimo di quattro uomini, persi nel mare femminile. Non facevano i polli nel pollaio, però, quanto più i pesci fuor d'acqua. Boccheggiavano, alla ricerca di qualcuna da abbordare, ma si ritrovavano sempre fra di loro.
Un sorso di birra, e Altair riprese a suonare il tavolo con il pollice come fosse una batteria. «Ah, prima questo posto lo chiamavano il lesbo-bar.»
Vega accarezzava il vetro del bicchiere, in contemplazione delle bollicine scoppiettanti nel suo vino. «E adesso?»
«Ha cambiato gestione ed è aperto a tutti, ma sai com'è. Le abitudini rimangono.» Di nuovo il suo mezzo sorriso.
«E gli specchi?» chiese Mira.
«E che cazzo ne so? Il nuovo proprietario ci è fissato.»
«È carino,» disse Elettra. Accompagnava la voce del cantante con dei movimenti del capo. «Il posto, voglio dire. Non è male. Per un attimo ho avuto paura ci portassi in uno di quei posti squallidi dove ci sono i dj che graffiano i dischi.»
Sia Altair che Vega le lanciarono un'occhiata strana, il sopracciglio di entrambi sollevato in un moto di divertita sorpresa. «Ci sei mai entrata in un locale vero?» sbottò Altair.
«Perché, che ho detto?»
«I dj che graffiano i dischi?» Vega aveva le guance tirate, ma si sforzava di trattenere una risata.
Elettra sbuffò. «Scusatemi se non sono una che vive di feste e birra.» Rigirò la cannuccia del suo drink fra le dita, poi se la portò alle labbra.
«Certo con la palla al piede che ti ritrovi come fidanzato.» Altair suscitò un verso irritato da parte di Vega, ma non gli fece nemmeno caso. Con il gomito adagiato sullo schienale del divano, ammiccò a Mira, in quel suo modo odioso.
Cosa voleva, un pugno in faccia?
«Tu? Mai stata per locali a fare le ore piccole e rimorchiare tipe?»
Non avrebbe saputo dire quale parte della domanda le diede più fastidio. Una scossa nello stomaco le regalò un'ondata di energia; Mira raddrizzò la schiena di riflesso. «Ci sono venuta solo un paio di volte,» ammise alla fine. Sperò che le bastasse.
Altair le batté le nocche sul braccio. «Un paio di volte? Cazzo, pensavo zero. Chi ti ci ha trascinata?» Agitò la bottiglia di birra in aria come un trofeo, prima di dare un sorso.
«Una volta cercavo informazioni su di voi, dovevo chiedere a Ulio.» Provò un moto di soddisfazione, nell'osservare l'espressione disgustata di Altair. «L'altra, mio fratello.»
Una giornata vaga, nei suoi ricordi, fatta di luci intermittenti, lumache che scuotevano i corpi come se non avessero una spina dorsale, e ondate di fumo che salivano al soffitto. Quello, e i fulmini incastrati in gola che si mischiavano al sapore della bile.
«Hai un fratello?»
«Due.» Non aggiunse altro, ma lo sguardo di Altair le gravava addosso, la trapassava. Che cazzo voleva, ancora?
«E sono incazzosi come te?»
«E tua sorella è brava a rompere il cazzo come te?»
L'atmosfera raggelò all'istante. Elettra, fino ad allora con la testa poggiata sul palmo, si rattrappì contro lo schienale; Vega afferrò il calice di vino, in silenzio, gli occhi persi nel nulla.
Il sorriso di Altair si smorzò di colpo, al suo posto una linea sottile, labbra che premevano rabbiose l'una contro l'altra. Il braccio si mosse veloce: scagliò la bottiglia e il contenuto che ne restava a terra. Il rumore di vetri infranti non interruppe la canzone dalle note cupe iniziata da poco. «Ups.»
Mira storse il naso. Non si aspettava una reazione così eccessiva, ma almeno aveva colpito nel segno. Sperò che bastasse a farle passare la voglia di fare domande.
«Mi sono rotta i coglioni di fare da balia a voi tre vecchi dentro.» Una semplice frase, e l'atmosfera tornò quella di prima. Altair batté le mani sul tavolo, sollevandosi in piedi. «Quando vi torna la voglia di vivere, sapete dove trovarmi.»
Sogghignava di nuovo, e puntò le dita contro Mira in un finto colpo di pistola. Si allontanò così, già immersa nel ritmo della musica. Si lasciò inghiottire dalla folla.
«Ti ha raccontato lei di sua sorella?» Elettra parlò a bassa voce, in una sorta di timore insensato.
Mira avvolse le dita attorno al bicchiere. «No, me l'ha solo nominata.» Ed era ovvio già all'epoca che ci fosse qualcosa di più, qualcosa di cui stentava a parlare.
«È una storia complicata,» intervenne Vega.
Elettra annuì. «Evita di tirarla in ballo, a meno che sia lei a farlo. A volte ci scherza sopra, ma alcuni giorni...» Esitò. «Be', l'hai vista.»
«Posso sapere perché almeno?»
L'altra però scolò il resto del suo drink senza aggiungere altro. Un chiaro "no". O forse più un classico "spetta a lei parlartene". Le guance le si accesero di un colore rosato, accentuato dal chiarore delle luci.
Nessuno disse più nulla. Senza Altair a fare da collante con le sue battute di merda, il silenzio li inglobava con fin troppa facilità. Mira bevve ancora, fino a svuotare il bicchiere; non ne sentì nemmeno il sapore, lo ingollò tutto d'un fiato, come fosse una medicina. Il vago senso di calore dell'alcol le scaldò la trachea e le membra. I fulmini ci annegarono dentro, si acquietarono per il tempo necessario a distrarsi.
Una ragazza giovane, con un caschetto rosa, pulì i rimasugli di birra e vetro lasciati da Altair. Tenne la testa abbassata. Mira si perse nei suoi movimenti ritmici mentre asciugava il pavimento con un panno pulito; poi un flash attirò la sua attenzione, e sollevò gli occhi a incontrare la sagoma di due donne chiassose che si scattavano delle foto.
Una chioma rossa spiccava poco più in là, al centro della calca. Altair passava da una persona all'altra, le sue mani si appoggiavano alle spalle delle donne attorno a lei, trovavano i fianchi, le avvicinavano a sé.
Un piede la colpì sotto il tavolo. Mira fece scattare la gamba in risposta, ma trovò il vuoto.
«Hai la faccia di una che sta rosicando.» Nascosta dietro il dorso della mano, Elettra ridacchiava.
«Che?»
L'altra continuò a sorridere fra sé e sé, il rossore sulle guance più accentuato. Allungò la mano a rubare il vino di Vega e lo scolò in un solo sorso. Riposò il calice con un tonfo e la lingua che si affacciava fuori dalle labbra in una smorfia disgustata. «Che schifo. Come fai a bere questa roba?»
Un velo di confusione avvolgeva Vega. Era come se non riconoscesse la donna che aveva di fronte. «Se ti fa schifo, potevi lasciarmelo.»
Un altro sorrisetto, così bizzarro da vedere su Elettra. «Volevo provarlo.»
«Si può sapere che hai? È da prima che sei strana.» Lui si riprese il bicchiere vuoto, lo scrutò alla ricerca di una goccia residua. Si arrese subito e lo ripose con un sospiro.
Elettra unì i palmi e se li portò al collo, i gomiti poggiati sul tavolo. «Strana in che senso?»
«Nel senso che sembri esagitata,» intervenne Mira.
«Esatto,» disse Vega.
Questa volta non negò. «Non lo so. Sono le vibrazioni del posto che mi scombinano.» Allargò le braccia a indicare il locale nella sua interezza. «Voi non le sentite?»
E Mira che era sempre stata convinta che Elettra fosse la sana di mente del gruppo. Forse si sbagliava. Forse, dietro quell'aria così composta e il sorriso gentile ma distante, nascondeva la mente più folle e caotica di tutte.
«No,» le rispose Vega. Lui almeno non sembrò stupito.
«Credo ci siano un sacco di figli della Tempesta, qui. Nascosti in giro. Li sento, e sono tutti su di giri.» Li cercava nella folla, gli ibridi in questione.
Mira evitò di seguire la luce del suo visore, perché temeva di sapere su chi puntassero. L'unica figlia della Tempesta accertata, abbastanza esagitata da inondare l'intera sala con la sua energia.
«Balliamo?»
La richiesta di Elettra arrivò dal nulla: sporse il busto verso Vega, gli prese la mano fra le proprie. Il visore la nascondeva, ma Mira la immaginò battere le ciglia lunghe almeno un paio di volte di fila.
«Ely, lo sai che non so ballare,» rispose lui, con una dolcezza atipica. Quel tono lo riservava solo a Elettra, così come a lei riservava il mezzo sorriso stentato che gli affiorò all'angolo delle labbra. «In mezzo a tutti quei bambolotti snodabili, farei solo la figura del ciocco di legno.»
«E io del pezzo di ghiaccio. Che t'importa? Divertiamoci e basta.» Ma lui scosse la testa, ed Elettra scivolò via. Non lo tormentò ancora, accettò la risposta. «Mira, andiamo io e te?»
«Neanche morta,» le disse soltanto.
Elettra si lasciò andare a uno sbuffo. Non si lamentò, si afflosciò sul sedile, il viso rivolto alla folla di persone in agitazione ai piedi del piccolo palco.
«Se vuoi andare, c'è una persona che di sicuro sarà felice di insegnarti a scuotere i capelli di qua e di là.» Vega indicò un punto imprecisato nella calca di gente, il bicchiere ancora stretto fra le dita.
«Non sono abbastanza ubriaca per ballare con Altair.» E nel dirlo, rubò anche il margarita di Mira, o ciò che ne rimaneva. Si esibì in una nuova smorfia mentre glielo porgeva indietro, vuoto. «Adesso posso andare.»
Mosse dei passi stentati verso la folla. Si girò un paio di volte durante il tragitto, colta da sprazzi di sanità mentale momentanei che purtroppo resistevano poco. Si fece strada fra la calca a fatica, e Mira se la immaginava a borbottare una litania continua di «scusatemi,» e «grazie.»
In un modo o in un altro raggiunse Altair. Che interruppe il suo ballo per squadrarla dall'alto in basso; piantò in asso la sconosciuta che le stava appiccicata e trasportò Elettra al centro del caos. Erano un duo bizzarro. Elettra muoveva solo le braccia, il resto del corpo le restava immobile; Altair le prendeva le mani, gliele sollevava, la manovrava come un burattinaio.
Mira tornò a sedersi composta. Si lasciò quello spettacolo ridicolo alle spalle, mentre con le dita accarezzava il vetro del bicchiere. L'effetto effimero dell'alcol era già terminato, i fulmini le si attorcigliavano sul fondo della gola.
Notò che Vega la fissava solo dopo parecchio. Cosa cazzo voleva?
«Non sei geloso?» gli chiese.
Un sopracciglio si sollevò. «No.» La vena sull'occhio prese a pulsarle, risvegliata dalla sicurezza del suo tono. «Non avrebbe senso.»
Una risposta che lei non comprese, ma non chiese spiegazioni. Ci aveva rinunciato, ormai.
Vega abbracciò lo schienale del divanetto, la mano gli penzolava proprio nel punto in cui fino a poco prima c'era stata Elettra. «E tu?»
«Io cosa?»
«Sei gelosa?»
Mira incrociò le gambe sotto il tavolo. «Perché cazzo dovrei?»
«Ah, non lo so. Dimmelo tu.»
I fulmini avevano delle fauci, Mira lo scoprì allora: la divoravano da dentro, un morso alla volta. Le chiedevano di colpire Vega, cancellargli dalla faccia quell'espressione convinta, di superiorità, come se lui capisse ogni cosa.
Invece restò immobile, a contare i respiri. A indicare alle proprie saette la strada verso una scatola strappata e distrutta, rattoppata con lo scotch, come Elettra le aveva insegnato. E ce li portò davvero, chiuse il coperchio e ascoltò il loro borbottio. Non l'avrebbero mangiata, non quel giorno.
Il tempo trascorse lento, una canzone dopo l'altra. Cambiò la band, e delle note dal retrogusto malinconico rimpiazzarono il ritmo frenetico.
Un botto accanto a lei la ridestò. Altair le prese il braccio, la tirò a sé per convincerla ad alzarsi. «Dai, scrollati da quel cazzo di divano, che ti ci hanno incollato il culo?»
Si liberò con uno strattone. «Io non ballo,» disse soltanto. «C'è Elettra, no?»
«Sì, che si muove con la grazia di una pannocchia e si stanca dopo mezzo secondo.» Altair le fece un cenno con il pollice a indicare Elettra, di nuovo sprofondata al suo posto.
Qualsiasi guizzo di energia l'avesse animata fino ad allora, era del tutto scomparso: Elettra si reggeva la testa fra le mani, la schiena curva, il volto paonazzo e l'ombra di un sorriso stanco a infestarla. «Io ho dato. Sono pronta a rinchiudermi a casa per i prossimi dieci anni.»
«Questo è un piano che mi piace.» Vega le circondò le spalle.
Perfino Altair tornò al suo posto. Il sentore di Tempesta che trasportava con sé provocò uno spasmo nei fulmini di Mira – la scatola si scoperchiò per la millesima volta. «Siete divertenti quanto un calcio nel culo.»
«Tu adori i calci nel culo,» le fece notare Mira. Ottenne un manrovescio sul bicipite.
La serata finì poco dopo. Elettra continuava a lamentarsi per i suoni troppo forti e diceva di avere mal di testa, così Vega la accompagnò a casa. Mira li seguì fuori senza nemmeno rifletterci, assorbita dall'idea di uscire di lì e respirare l'aria fresca della sera. In un borbottio continuo, Altair le andò dietro.
Quando Elettra e Vega le salutarono, Mira prese la direzione di casa. Ma Altair le si parò davanti. Teneva il cappotto in mano. Sulle spalle nude aveva la pelle d'oca. «Ohi, pazza sadica,» la chiamò.
«Che vuoi?» Si ficcò le mani nelle tasche. Il venticello serale portava con sé una frescura piacevole, ma che le intorpidiva le dita.
«Non dirmi che hai già sonno.»
«È quasi mezzanotte.»
Un brivido spezzò il sorriso di Altair. Finalmente la stupida si decise a indossare il cappotto: infilò prima una manica, poi l'altra, e terminò il movimento con un paio di strattoni ai baveri. «Appunto,» borbottò nel frattempo. «Non ti va di sfogarti un po'?»
«Ancora?» sbottò, sebbene i fulmini le scalpitassero nel petto. «Ma non ti stanchi mai?»
Si pentì subito di averlo chiesto, prima ancora che Altair le ammiccasse, perché già prevedeva la sua risposta. «Me lo chiedono tutti, però di solito non se ne lamenta nessuno.»
«Fanculo.»
Ridendo, l'altra si allisciò i capelli all'indietro. Il vento glieli sollevava appena. «Andiamo, scommetto che va anche a te, di friggere qualche stronzo.» Gli occhi le caddero in basso per un istante; si risollevarono subito dopo, si agganciarono ai suoi. Un verde più scuro, quasi inquietante, sotto il violetto delle insegne al neon. «A meno che vuoi provare a stancarmi in un altro modo.»
Che imbecille.
Mira la spinse. La sua risata le fece fremere la vena sull'occhio con più forza. «Chi è che dobbiamo friggere?»
Note:
Fra un'Elettra ubriaca che tenta di ballare, un Vega che insinua cose e un'Altair che ci prova spudoratamente, direi che 'sto capitolo vince il mongolino d'oro di cazzeggio xD
Spero sia stato divertente, a modo suo.
Ah, ps: il colore dei divisori cambia a seconda del pov. Per una volta voglio provare a fare una cosa semi-ordinata
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