Capitolo 14

Faceva male. Ancora.

Altair si tastò il fianco alla ricerca di un foro nella pelle che non trovò, perché non c'era, non più. Accarezzò soltanto la cicatrice, così vivida, così accentuata da sembrare fresca. In una smorfia e uno sbuffo, si girò sull'altro fianco; le lenzuola le solleticarono la pelle nuda. Erano ruvide da far schifo, troppo nuove e troppo stirate.

Mira fissava il soffitto. Il respiro le usciva a fatica dalle labbra, in tanti piccoli soffi. Il petto si sollevava e abbassava a un ritmo irregolare, nascosto sotto le coperte. Alcune ciocche le si erano appiccicate alla guancia, le gocce di sudore riflettevano il bagliore del neon.

Se ne stava immobile, persa in chissà quali pensieri del cazzo. Il labbro però le tremava, di tanto in tanto.

Altair sollevò la testa dal cuscino. Le lenzuola le scivolarono via, lasciarono scoperta la spalla e il seno; non se ne curò. «Non serve che continui con la sceneggiata.» Agitò un dito a indicare la sua intera figura.

Ottenne un'occhiata in tralice. Un azzurro glaciale le attraversò il petto; la luce asettica della stanza lo metteva in risalto, così come le faceva sembrare la pelle troppo pallida. «Che sceneggiata?»

Altair le rivolse un sorriso obliquo. «Fissi il soffitto come una di quelle protagoniste dei libri mezzi porno che si fanno sverginare dallo stronzo di turno e rimangono sconvolte.»

Si aspettava un tocco di rosso a colorarle le guance, invece rimase solo il pallore. Mira strinse il lembo del lenzuolo e lo tenne premuto contro il petto. «Deficiente.»

Levò di poco la testa, la sistemò meglio sul cuscino afflosciato contro la testiera del letto. Una fragranza sensuale ne accompagnava i movimenti, la stessa che le stava appiccicata sulla pelle: un miscuglio di aromi floreali e legnosi appena accennato, eppure la descriveva alla perfezione.

Altair appoggiò la guancia contro il pugno chiuso. Strinse i denti per un secondo, quando una nuova pallottola invisibile le si conficcò nel fianco. Trattenne a stento la tentazione di cercare tracce di sangue. «Dico davvero però. Chi cazzo ce l'ha avuto il coraggio di venire a letto con te la prima volta?»

Mira alzò le ginocchia, e le lenzuola seguirono la forma delle gambe, la accennarono, mentre lei le riabbassava. «Potrei farti la stessa domanda.»

«Un coglione troppo più vecchio di me,» le rispose. L'altra si voltò a guardarla in uno scatto. Altair smorzò una risata, la trasformò in un altro sorrisetto. «Gli avevo detto che non era la mia prima volta.» Tipica stronzata da ragazzina, ma all'epoca aveva il bisogno di sentirsi grande. Non aveva mai capito se lui fosse davvero così stupido da crederle, o se avesse solo finto.

«Sei sempre stata un'idiota, quindi.» Mira distolse subito gli occhi, come se la sola vista di Altair l'avesse scottata.

«Ora tocca a te. Chi è la tua prima volta? E, soprattutto, è ancora viva?»

Il sesso con Mira era stato bello. Passionale, aggressivo. Abbastanza intenso da cancellarle la sensazione di una pallottola che le frugava nella carne per un po'. Eppure, Altair lo sapeva, se ci fosse stata la Tempesta in loro sarebbe stato tutto diverso. Avrebbero avuto percezioni differenti, più acute.

Mira si lisciò il lenzuolo sulle cosce. «All'accademia, prima che diventassi una poliziotta. Lei stava nella stanza a fianco alla mia.»

«È ancora viva per raccontarlo?»

Le labbra le si arricciarono appena verso l'alto. «Per quello che ne so.»

Le riusciva difficile immaginare una Mira più giovane alle prese con la vita di tutti i giorni. Con gli studi. Gli allenamenti. Le relazioni con persone normali. Quando reprimeva i suoi fulmini e cercava a tutti i costi di mescolarsi con la massa.

Assurdo, considerato che ce l'aveva davanti proprio adesso, in tutta la sua normalità. Senza la Tempesta, solo una donna dalla faccia incazzata seppellita in un bozzolo di coperte.

Altair inspirò a fondo; l'aria le tremolò nei polmoni. L'illusione del proiettile le scavava sempre più a fondo. La scarica di dolore le si diramò lungo il busto, verso il braccio, dei piccoli rami di agonia che le attraversavano il corpo intero.

Afferrò il lenzuolo di Mira, glielo tirò via. L'altra lottò per tenerselo addosso, una protezione contro il suo sguardo. Come se servisse a qualcosa. Come se ormai non fosse troppo tardi.

In un verso a metà fra un risolino e un lamento, Altair le salì addosso. Le bloccò i polsi contro il materasso. Mira si divincolava senza forza. Un'altra delle sue stupide sceneggiate. I suoi occhi in realtà la divoravano, le trasmettevano un brivido sulla pelle che ne seguiva i movimenti; Altair si godette quel brivido, lasciò che la attraversasse, che le cancellasse il ricordo della fitta sul fianco.

Si abbassò a sfiorarle il viso. Mira deglutì, poi dischiuse le labbra. «Che cazzo fai?»

«A te che sembra?» Altair le baciò il collo, ne percorse la curva con la lingua.

A Mira sfuggì un gemito. Quel suono strozzato le risvegliò un formicolio fra le gambe. «Smettila.»

«Andiamo. Ti piaceva fino a dieci minuti fa.» Altair le accarezzò la spalla, scese verso il fianco. Ma Mira se la scrollò di dosso e si alzò dal letto, lasciandola da sola su un materasso troppo grande.

«Vado a farmi una doccia,» mormorò. E se ne andò così, con una manciata di vestiti raccattati da un cassetto, usati per coprirsi le parti intime. Sparì oltre la porta e pochi istanti dopo arrivò lo scroscio dell'acqua.

Altair ricadde con la testa fra i due cuscini. «Che cazzo.» Senza Mira a distrarla, senza la scarica di adrenalina dovuta alla sua vicinanza, il dolore prese il sopravvento.

Il fiato le usciva dalle labbra in una nebbiolina. Uscita da casa di Mira senza nemmeno salutare, Altair raggiunse il proprio appartamento in un tempo infinito. Quando il proiettile nel fianco aveva ripreso a scavarle nella carne, aveva fatto una sosta davanti al distributore, preso una coca, e ingollato altre quattro pillole di antidolorifico. Fissare la gente che passava davanti a lei, con il culo posato sul muretto che separava una scuola scalcinata dalla strada, si era rivelata l'esperienza più pallosa della sua vita.

Una mezz'ora trascorsa così, e già sentiva di essere sull'orlo della pazzia. Poi le medicine fecero effetto, la testa le divenne leggera e il dolore sparì poco a poco.

Tornò a casa a tarda mattinata. Con il cellulare in una mano a scrollare fra le chiamate perse di Elettra, Keira ed Evelyn, salì le scale per il suo appartamento. Trovò la porta socchiusa, lo stipite saltato dopo il calcio di Mira.

Con il culo degli ultimi giorni, probabile che qualcuno fosse entrato a derubarla. Non che ci fosse molto da rubare. Forse allora dentro ci sarebbero stati Sherlin e i suoi stupidi scagnozzi marmocchietti.

Spalancò la porta con un calcio. Una figura bassa, bionda, la aspettava dall'altro lato. Le puntò il dito contro non appena la vide, la fronte increspata dalla preoccupazione. «Altair, che cazzo di fine avevi fatto? Ti avrò chiamato almeno quarantatre volte.»

Altair sollevò il dito medio. «Avevo di meglio da fare che ascoltare le tue lamentele.»

Battendo i piedi per terra, Evelyn le si avvicinò. Le picchiettò l'indice sulla spalla. «Elettra mi ha detto che stai male. Non dovresti andartene in giro a fare casini.»

«Sto bene.» Sollevò le sopracciglia in una danza allusiva. «Abbastanza da rimorchiare, almeno.»

Questo le fece cadere le braccia lungo i fianchi. Evelyn si riscosse subito dopo, si picchiò la fronte con il palmo. «Ci riesci a stare due minuti senza portarti a letto gente a caso?»

Gente a caso. Le venne da ridere, e non trattenne l'istinto. Sbatté la porta dietro di sé e si accomodò al tavolo, addossato contro la parete. Il ronzio del frigorifero le mormorava contro l'orecchio. «Non è mica colpa mia se sono troppo figa.»

«Troppo stupida, semmai.»

Altair tamburellò le dita contro il tavolo, senza smettere di ridere. Sentiva a malapena il peso della testa sulle spalle. Mai prima di allora si era resa conto del carico che le gravava sul collo; se ne accorse soltanto allora, quando all'improvviso la testa le era diventata un enorme palloncino.

Evelyn prese posto di fronte a lei, le braccia incrociate sul petto. «Dico sul serio. Come stai? Ti fa ancora male tutto?»

«No.» Una verità, sebbene il merito fosse degli antidolorifici.

L'altra annuì, il labbro inferiore intrappolato fra le dita. Se lo tormentava con insistenza. «Anche Elettra e Vega non hanno più la Tempesta.»

«Sì? Anche la pazza sadica.»

«Però nessuno di loro si è buttato sul letto con l'aria di un malato terminale.»

Altair sbuffò. Sferrò un colpetto con la punta del piede sulla sedia accanto a lei. Quella stridette contro il pavimento. «Sei venuta qui solo per prendermi per il culo?» Sporse il busto e aprì il frigorifero. Un odore di carne andata a male la assalì, ma lo ignorò; afferrò l'ultima lattina di birra e lo richiuse.

«Ci tieni un topo morto, là dentro?» Evelyn sventolò la mano davanti al naso arricciato.

«Ho comprato una bistecca, una settimana fa, ma poi me ne sono scordata.»

«E la lasci lì?»

«Poi la butto.» Stappò la lattina e se la portò alle labbra. La birra le regalò un'ondata di freschezza lungo la gola.

Ignorò il sospiro esasperato di Evelyn. Ancora non capiva perché continuasse a stupirsi. «Sai, penso che non sia normale, il fatto che ti faccia male tutto.» Tornava all'argomento principale. Petulante come al solito, distrarla era impossibile.

«Non mi fa male un cazzo niente.» A parte il fianco, con quel bastardo di un proiettile fantasma che le riapriva di continuo la cicatrice. Perfino con la testa così leggera, lo percepiva ancora. Portò le dita in quel punto preciso; si aspettò la sensazione di bagnato, il sangue che le colava sui polpastrelli, invece niente.

Evelyn sporse il busto sul tavolo. «Dico davvero. Forse sarebbe il caso di vedere un dottore. Anche Elettra è d'accordo.»

«A che cazzo mi serve un dottore? Non sono malata.»

«Come fai a saperlo? Sei l'unica che sta una merda, no?» Spiaccicò i palmi sul tavolo, le unghie smaltate di fucsia in bella mostra. «E se fosse qualcosa di grave?» Lo disse a bassa voce, un sussurro inghiottito dal ronzio del frigorifero.

Cazzo. Era seria.

Altair svuotò la lattina e la lanciò nell'angolo, nel cestino pieno di immondizia. Quella rimbalzò e rotolò sul pavimento. «Non mi serve un dottore,» ripeté in uno sbuffo.

«Lo sai che quelli che non vogliono farsi visitare non sono coraggiosi? In realtà sei solo spaventata.» Evelyn si ritirò contro lo schienale, le braccia incrociate e un cipiglio serio che poco le si addiceva.

Certo che ne sparava di stronzate.

Altair accolse l'informazione con il sopracciglio sollevato e un'irresistibile voglia di rifilarle un calcio sotto il tavolo. Invece, sferrò un colpetto con il tacco alla sedia, la stessa di prima. «Vaffanculo.»

«Guarda che è vero. È un sintomo di ipocondria, anche se non sembra.»

«Ipo-che? Non sono mica a dieta.»

Evelyn si colpì la fronte con il palmo. «Ricordami che per il compleanno devo regalarti un bel libro.»

«Tienitelo, non mi serve a un cazzo, non ho un camino.» Altair aprì di nuovo il frigorifero – utilizzò il braccio come scudo contro la puzza indecente di carne marcia – ma si ricordò solo dopo che le birre erano finite. Cercò una coca o una qualsiasi altra bibita con un sapore. Niente.

Sbatté l'anta del frigo, alzandosi in piedi. La testa era troppo leggera, le sembrò di spiccare il volo.

Evelyn rimase al suo posto, col culo poggiato sulla sedia. La fissava, in silenzio, le sopracciglia abbassate, il naso arricciato. Un'espressione da gufo con problemi di stitichezza. «Ho già preso un appuntamento con mio fratello,» disse dopo un po'.

Altair ammiccò. «Se volevi darti all'incesto, dovevi farlo prima di accettare la proposta di matrimonio.»

«Deficiente. Dicevo per te.»

Mimò uno sparo nella sua direzione. «Senza offesa, ma non vado pazza per gli stronzi col camice.»

«Altair!» Evelyn scattò su, come se al posto del culo avesse una molla. Si sforzava di apparire seria, solenne, ma doveva nascondere le risatine dietro il pugno. «Soltanto una visita, per favore.»

«Quanto cazzo rompi i coglioni.» Altair le poggiò l'unghia sulla fronte, le scoccò un colpetto. «Ho detto di no.»

«Va bene. Allora accompagnami almeno. Devo dargli la notizia.» Sollevò la mano a mostrare il dito insaccato nell'anello scintillante.

«Sono una testa di cazzo, non stupida,» rispose Altair.

«Oh, andiamo! Sei o non sei la mia damigella d'onore? È tuo dovere accompagnarmi.»

«Sì?» Altair raccolse la lattina da terra. Spinse la scarpa nel cestino, pressando l'immondizia in eccesso, poi ce la buttò dentro. «Allora mi dimetto.»

Quando si girò verso di lei, si ritrovò Evelyn davanti. I centimetri di differenza fra loro divennero un baratro. Eve non era mai stata così bassa; si rigirava una ciocca bionda sul dito e non la guardava più: gli occhi erano incollati al pavimento. Altair ricordava una sola occasione in cui l'altra si era mostrata in quella veste, quando aveva scoperto del problema di Keira con il Rejecto. Quando cercava un modo per aiutarla a smettere, e trascorreva intere giornate a scervellarsi, camminando avanti e indietro nella cucina di Altair, a borbottare piani strampalati.

«Se mi accontenti,» cominciò Evelyn. «Se ti fai fare una visitina veloce, ti regalo una moto nuova.»

Altair si morse la lingua. Una moto nuova le serviva, la vecchia non l'aveva mai ritrovata – grazie agli stronzetti della banda di Sherlin. Assurdo però che quella stupida fosse disposta a sborsare una cifra simile solo per convincerla a vedere uno stupido dottore.

Era così grave?

Con le dita incastrate fra i capelli, sospirò. «Voglio una Nesta Fighter Edition.» Se doveva approfittarne, tanto valeva farlo come si deve.

«Fighter Edition?» ripeté Evelyn, perplessa. Era già tornata quella di sempre.

Altair scrollò le spalle. «È un'edizione speciale. Una delle migliori.»

«Va bene. D'accordo. Affare fatto.» Le tese la mano.

Fantastico. Ora le toccava pure andare dal dottore.

Il lettino medico era scomodo da far schifo. Altair faceva dondolare le gambe, annoiata; nonostante il riscaldamento emanasse getti di aria calda che le colpivano la schiena nuda, nei momenti in cui il calore si dileguava Altair rabbrividiva.

Il dottor Moore, o più semplicemente Ethan, sospirava di continuo. Dopo la visita – la sensazione delle sue dita sottili ancora le solleticava la pelle – si era allontanato per scriversi qualcosa su un quaderno. Sulla parete al di là della scrivania erano appesi cartelloni che mostravano la muscolatura umana, o il funzionamento dello stomaco, con tanto di frecce e termini che solo un cervellone o una persona parecchio annoiata si sarebbe mai ricordato.

Evelyn si aggirava per la stanza, le dita intrecciate dietro la schiena. Fingeva interesse per il modello di uno scheletro nell'angolo.

Quando Ethan si decise a voltarsi e posare la propria attenzione su Altair, Evelyn si avvicinò al lettino. «Non hai niente di particolare.»

Altair scrollò le spalle. «Visto?»

Evelyn nemmeno le diede retta. Concentrata sul fratello, allungò una mano a indicarla. «E allora perché ogni tanto zoppica come se qualcuno le avesse infilato un tizzone nel culo?»

Una nuova ondata di aria calda. Le colpì la spina dorsale con la stessa violenza di una martellata; o forse la martellata proveniva da dentro. In uno sbuffo, Altair raccattò la maglia e se la fece scivolare addosso.

Ethan si appoggiò alla scrivania. Aveva l'aria di uno che aveva appena scoperto di avere un'infestazione di scarafaggi nel bagno. «Non lo so, Eve.» Nel parlare, si afflosciò su se stesso. «Sinceramente non lo so. Questa storia della Tempesta è confusa e nebulosa, nessuno ne ha mai saputo un granché, non nel campo della medicina. Potrebbe essere un effetto collaterale, per quanto ne sappiamo. Magari è sempre stata questa la sua condizione, ma i fulmini le bloccavano il dolore.»

Che stronzata.

Altair aveva provato dolore un miliardo di volte, durante la propria vita. La Tempesta la proteggeva spesso, sì, ma non del tutto. Un conto erano i crampi del ciclo, un conto un proiettile conficcato nel fianco, o una serie di pugni di un'ibrida inferocita.

«D'accordo,» disse Eve, «ma anche se fosse, perché ha questo dolore?»

«Il fatto è questo.» Ethan sprofondò sulla sedia oltre la scrivania, in un sospiro che ne scosse il fisico magrolino. «Il problema sembra accentrarsi soprattutto dove ha la cicatrice. Già il fatto che una come lei abbia una cicatrice è strano. Con la capacità rigenerativa di cui è... era capace, può significare solo che ha ricevuto un colpo mortale, a cui è sopravvissuta grazie alla Tempesta.»

«La so la storia della mia vita, stronzo. Vai al punto.»

Bastò il pensiero per risvegliare l'agonia di un ricordo lontano. O forse nemmeno tanto lontano. Altair premette le dita contro il fianco, accarezzò la forma tondeggiante della cicatrice; poi si infilò l'unghia nella carne, non abbastanza da sanguinare, ma abbastanza da ricordarle che era intera, che nessun proiettile le stava scavando dentro.

«Non so quale sia il tuo problema.» Ethan tornò all'argomento principale, senza battere ciglio. «Posso solo fare ipotesi.»

«E allora fai la tua cazzo di ipotesi.» Allontanò la mano. Si aggrappò al bordo del lettino.

«La Tempesta potrebbe averti protetta da parecchie scazzottate, cadute, sparatorie e chissà cosa, nel tempo.» Un sorriso sfasciò la serietà che gli imbalsamava il volto. Durò appena un secondo. «Ora che non c'è più, può darsi che il tuo corpo debba abituarsi a sentire determinati dolori che finora erano bloccati dalla Tempesta. È come se ti fossi drogata di antidolorifici per tutta la vita e all'improvviso smettessi di prenderli, torneresti a sentire anche i doloretti più piccoli, quelli più normali, in maniera esagerata. Specie,» allungò una mano a indicarle il fianco, «quelli che provengono da ferite mortali.»

Un'ipotesi di merda. E quello stronzo aveva pure studiato anni e anni per arrivare a una conclusione tanto inutile.

Altair affondò un pugno sul materasso. «Che stronzata. Stai dicendo che sono una fighetta che non sa nemmeno sopportare un po' di bua.»

Ethan sbatté le palpebre più volte in successione. Faceva roteare la penna sulla scrivania, senza nemmeno guardarla. «No. Sto dicendo che non sei abituata a sopportarlo.»

«No, Altair ha ragione,» disse Evelyn. «Mi sembra una di quelle stronzate che rifilate voi medici quando non sapete che dire. La seconda opzione scommetto che è lo stress.»

«Eve...»

«Deve avere qualcosa, altrimenti stareste tutti così, no? Perché solo lei?» Aveva alzato la voce. Le guance acquistavano un colorito sempre più roseo.

Ethan si lasciò andare a un sospiro. «Non lo so,» ammise. «Per avere un quadro più chiaro, dovrebbe fare degli accertamenti.»

Massaggiandosi il collo, Altair gli rivolse un'occhiataccia. «Dei che?»

«Delle lastre. Una risonanza magnetica. Magari anche una tac. Non possiamo sapere che non si tratti di un problema neurologico.»

«Cazzo. La prossima qual è? Che me lo sono inventato e devo andare da uno strizzacervelli?»

«Non ho detto che te lo sei inventato. Può darsi solo che il cervello funzioni in maniera... errata.» Si leccò le labbra, come se si pentisse di aver utilizzato il termine sbagliato.

Altair sbuffò un sorriso. «Quello ha sempre funzionato male, quale cazzo è la novità?»

Un nuovo sorriso da parte di Ethan, che questa volta sostò più a lungo. Si alzò dalla scrivania, infilò la mano dentro un barattolo di caramelle e ne estrasse un lecca-lecca incartato. Glielo porse con una risatina. «È alla fragola.»

Altair gli rifilò un manrovescio per scansarlo. «Non sono una marmocchietta.»

«Scusami, lo preferisci all'arancia?»

Lei gli tolse il lecca-lecca dalle dita. «Simpatico quanto un dito nel culo,» gli disse, ma scartò il dolce e se lo portò alla bocca. Sapeva di medicina alla fragola, con uno stucchevole retrogusto di zucchero.

«Facciamo così.» Ethan tornò alla scrivania, scribacchiò qualcosa su un pezzo di carta. «Ti prescrivo degli antidolorifici più adatti, aspettando gli accertamenti. Ne prendi uno ogni volta che senti di averne bisogno. Non esagerare, potrebbero causare dipendenza.»

Il sonoro sbuffo di Evelyn riempì la stanza. «Mi ci manca solo la damigella d'onore drogata. Come se non avesse già abbastanza difetti.»

«Cosa?»

La confusione tirava i lineamenti di Ethan. Vera e semplice confusione. Osservava la sorella, il foglio con la prescrizione a sventolargli in una mano, il camice che gli si apriva sugli abiti da damerino.

Altair stirò le braccia sulla testa. «Sorpresa, le due pazze si sposano.»

«Oh.» Non aggiunse altro, non all'inizio. Consegnò il foglio ad Altair, il mento incassato nel collo. Soltanto dopo si decise ad aggiungere un «Congratulazioni,» senza troppo entusiasmo. Spargeva odore di disinfettante, mentre muoveva un paio di passi indietro.

Evelyn gli si aggrappò al camice. «Tutto qui? Non provi nemmeno a fare uno di quei discorsi da fratello protettivo?»

«Cosa vuoi che ti dica?» Ethan si liberò dalla sua presa in maniera brusca. Sembrava facesse di tutto, pur di non starle vicino. «Sono sicuro che Keira saprà prendersi cura di te.»

«Non verrai al matrimonio, vero?» Non c'erano lacrime a inumidirle gli occhi, eppure Evelyn se li asciugò con un dito, stando attenta a non rovinare il mascara. Al contrario di Ethan, che si allontanava, lei avanzava verso di lui, lo cercava.

«Eve, mi dispiace, davvero, ma...» Lui esitò per un attimo. «Lo sai che non mi piace avere a che fare con nessuno dei famigliari.» Distolse gli occhi nel pronunciare l'ultima parola.

Altair schioccò la lingua. E poi dicevano che era lei, quella che non sapeva dosare le parole.

Riconobbe il momento preciso in cui il colpo arrivò nel petto di Eve; una sola frase, che la schiacciò con il proprio peso. Questa volta fu lei a indietreggiare. «Ma...»

«Be', non ha torto. La famiglia è una merda, e tua madre è una vipera,» le disse Altair. «E tuo padre meriterebbe di essere castrato.»

«Non sarà la famiglia migliore del mondo,» concordò Eve, «d'accordo, però non...»

«Eve, per favore.» Ethan le andò incontro. La prese per le spalle, la scosse appena, poi tornò indietro. «Sono felice per te, dico davvero. Però non partecipo.»

Lei scosse il capo, frenetica. «No, non se ne parla. Tu ci sarai. Per quanto ancora vuoi fingere che non esistiamo nemmeno?»

Lui sollevò i palmi. «Se devi fare una delle tue scenate, ti chiedo per favore di andartene.»

«Una delle mie scenate?» Ed eccolo di nuovo, il rossore sulle guance. «Non dirmi che sono io la stronza qui, adesso. Ti chiedo solo di venire al mio matrimonio, sarà il giorno più importante della mia vita e mi piacerebbe che mio fratello fosse lì a supportarmi. Non ti ho mica chiesto di trasformare Altair in una persona intelligente, non mi sembra una richiesta così assurda.»

Per tutta risposta, Altair se la rise. «Stronza.»

La nota di disperazione nella voce di Eve la pungeva da dentro. Le scavò nel fianco, divenne il proiettile invisibile che le scatenava un fuoco insopportabile sottopelle.

«Perché ci tieni così tanto ad avermi lì, eh?» Ethan allargò un braccio. Anche lui era paonazzo. «Vuoi vedermi litigare con tutti? Ci tieni così tanto a farmi passare un giorno orribile solo perché così tu puoi giocare alla famiglia felice?»

«Porca puttana, manco ancora inizia e 'sto matrimonio è già peggio di una soap opera,» disse Altair. Nessuno le diede retta.

I due fratelli si fronteggiavano, adesso. Nessuno dei due arretrava di fronte all'altro. I colori sgargianti di lei cozzavano contro la sobrietà di lui.

«No, imbecille!» scattò Evelyn. «Vorrei solo avere un po' di supporto da mio fratello. Ma va bene, fai come cazzo ti pare. Tanto sei sempre stato troppo impegnato a piangerti addosso per preoccuparti di me.» Gli diede le spalle e se ne andò. Un'ondata di furia omicida la seguiva.

Altair si morse il labbro, poi schioccò la lingua. «Complimenti, stronzo asociale, hai sbloccato la sua versione villain

Lui strinse i pugni lungo i fianchi, la testa gli ciondolava, come se pesasse troppo per tirarla su. «Tu mi capisci, no? Neanche tu ci andresti, al mio posto, odi la tua famiglia,» azzardò.

Lo afferrò per il bavero, lo spinse verso la scrivania. Pesava più di quanto pensasse – o forse era la mancanza della Tempesta a renderla più debole – ma lui non si oppose. Gli premette un ginocchio contro lo stomaco per tenerlo bloccato. Quel cretino era tanto magro che gli sentiva le costole. «La mia famiglia può andare a morire in un incendio,» gli disse, piano. Il dolore al fianco esplose; trattenne a stento un lamento, ma tenne salda la presa su Ethan. «Ma stammi a sentire, stronzo asociale. Se fosse mia sorella a sposarsi, sarei lì. A prenderli tutti a pugni mentre lei non guarda, ma sarei lì.»

Gli spiaccicò il lecca-lecca sul petto, poi lo lasciò andare, ma non rimase a osservarlo mentre si aggiustava il camice.

Note:

Mi perderò nella quantità indecente di sottotrame di questa storia? Altamente probabile. In teoria ho tutta la scaletta, ma ho decisamente osato tanto a 'sto giro xD

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