Capitolo 13

Eccole, le medicine. Un barattolo pieno di pillole bianche nascosto dietro un mucchio di roba inutile nel ripostiglio delle medicine. Mira controllò la scadenza – erano ancora buone, per fortuna – e richiuse lo sportello. Un frastuono di flaconi e scatole che crollavano su loro stesse provenne dall'interno; con uno sbuffo, Mira finse di non accorgersene.

Quella stupida di Altair. Non era nemmeno capace di tenere delle medicine di scorta.

I fulmini le pizzicarono sottopelle. Le venne la pelle d'oca, e assalita da un brivido raggiunse la porta d'ingresso. Afferrò la maniglia, pronta a uscire nel corridoio, verso il portone, quando un trillo la fermò.

Il telefono. Le vibrava nella tasca del cappotto. Mira rimase una buona manciata di secondi a osservare la parola che lampeggiava sullo schermo. Numero sconosciuto.

Pensò di ignorarlo, ma il dito premette sulla cornetta verde prima che lei se ne rendesse conto. Non lo portò subito all'orecchio, osservò la chiamata in corso, i secondi che si succedevano uno dopo l'altro sullo schermo.

La Tempesta – forse l'ultimo barlume – dentro di lei le scombussolava lo stomaco. Prese un respiro profondo, come le aveva insegnato Elettra, e si avvicinò il telefono. «Pronto?»

«Mira? Incredibile, mi hai risposto davvero?»

All'improvviso capiva perché si sentisse tanto a disagio. Non udiva la voce di suo fratello Mitch da anni; eppure la riconobbe all'istante. Riconobbe il timbro roco dovuto dal troppo fumo, riconobbe il modo in cui la lingua falliva ad arricciarsi sulla erre.

«Non sapevo fossi tu,» gli rispose.

Gli arrivò l'antifona. Mitch sbottò in una risata esagerata, nervosa. «Sempre la solita simpaticona, eh?»

La vena sulla tempia prese a pulsarle al ritmo dei fulmini. «Che vuoi?»

Una pausa. «Sono contento di risentirti. A proposito, buon compleanno in ritardo. La settimana scorsa erano quanti? Ventisette, ventotto?»

«Era un mese fa.» Un compleanno passato in sordina, come tutti quanti. Mira aveva evitato di farlo sapere agli altri, o le avrebbero preparato una di quelle snervanti feste a sorpresa. Un'esperienza che preferiva evitare.

«Ah, già. Scusami. Lo sai che faccio schifo con i numeri.» Un'altra risata nervosa.

Mira strinse il flacone con l'antidolorifico fino a sbiancarsi le nocche. Solo un altro po' e la plastica si sarebbe piegata. Allentò appena. «Che vuoi?» ripeté. «Non ho tempo da perdere, vado di fretta.»

Le giunse un sospiro dall'altro lato. Lo vide nella propria mente, con le dita premute contro la radice del naso, a raccogliere i pensieri con la sua espressione esagerata, le palpebre serrate e le labbra increspate. Era fatto. Ancora. «È papà,» sbottò alla fine.

Mira non emise un singolo suono. Le saette le vorticavano fra le dita, le si arrampicavano sulle nocche. «Cioè?»

«Ha avuto un ictus.»

Chissà che genere di reazione si aspettasse Mitch da lei. Chissà che genere di reazione si aspettasse Mira.

Se ne stettero entrambi in silenzio, le parole di lui a separarli come la cupola dalla Tempesta. Una cupola destinata a frantumarsi; Mira serrò le dita sul telefono. «È morto?»

«No, no. È in ospedale, l'hanno salvato. Però, ecco, ha un lato della faccia paralizzato

«Si riprenderà?»

«Improbabile

«È stabile ora?»

«Per il momento

I fulmini le si contorcevano fra le budella. Giravano in tondo, cercavano una via di uscita.

Mira annuì, un riflesso che non riuscì a trattenere. «Hai il mio numero, se dovesse peggiorare.»

«Sì, sì, certo. Ma non vuoi venire a trovarlo? Non ti vediamo da un bel po'.»

Andare a trovarli. Tornare nel mondo di persone che non la conoscevano, convinti di sapere ogni cosa su di lei. Incontrare la stessa gente che l'aveva ignorata per anni, dimenticando la sua stessa esistenza. Voleva andarci? Voleva rivederli?

Voleva macchiare il ricordo già pessimo di suo padre con la visione di un vecchio con mezza faccia paralizzata?

Non ebbe bisogno di trovare una risposta, i fulmini scelsero per lei. Esplosero in un'intricata ragnatela che si protese verso le pareti. Il telefono le scoppiò fra le dita. I frammenti le si conficcarono nei polpastrelli, il sangue le scivolò lungo il palmo, gocciolò sul pavimento. Il neon sul soffitto saltò in aria. Un odore di plastica bruciata invase l'appartamento.

Mira crollò in ginocchio. Li sentì riversarsi fuori, tutti quanti. Ogni barlume di energia, ogni rimasuglio della Tempesta.

Il flacone rotolò a terra, si bloccò contro la porta. Aveva il tappo bruciato.

Con dita tremanti, Mira si affrettò a recuperarlo. Le pillole all'interno erano intatte. Per fortuna. Erano tutte al loro posto; i suoi fulmini invece no.

Spariti.

Al loro posto, il vuoto che credeva non avrebbe sentito mai più. Se ne stette a lungo inginocchiata, ad aspettare che la Tempesta tornasse.

Ma non tornò mai.

Altair era seduta sul materasso, ad abbassarsi le maniche della maglia. Larga, di un blu scuro, con l'immagine di un teschio che faceva capolino da uno stampo fumoso. Le lasciava scoperta una spalla; i capelli le si adagiavano morbidi sulla pelle. Appena si accorse dell'arrivo di Mira, alzò il mento nella sua direzione. Le era tornato il sorriso strafottente sulle labbra.

«Sei in piedi,» le disse Mira. Nessun fulmine a rimestarle lo stomaco, solo il suono della stessa saliva che scendeva giù per la gola nella deglutizione.

Altair picchiò il materasso accanto a sé. «Il dolore va e viene.» Non stava ancora bene, non del tutto. Manteneva la schiena incurvata, e pendeva di lato. Qualsiasi problema avesse al fianco, ancora non la lasciava in pace.

Mira le lanciò il flacone con le pillole. Altair l'afferrò al volo – senza trattenere una smorfia. «Prendine almeno tre, e non mischiarle con l'alcol.»

Ottenne un cenno sbrigativo della mano come risposta. Altair ciondolò verso di lei, le si appoggiò alla spalla e la superò. Lasciò la stanza per una manciata di secondi, quando tornò, teneva una bottiglia di birra in una mano. Cadendo con il sedere sul letto, si portò quattro pillole alla bocca e le mandò giù con una lunga sorsata.

«Ti ho appena detto di non mischiarle con l'alcol.»

«Tanto qual è la cosa peggiore che può capitarmi? Sto già una merda.» Accostò ancora le labbra alla bottiglia.

Mira si lasciò andare a un sospiro. Inutile cercare di farla ragionare, tanto Altair faceva sempre come cazzo le pareva. Mosse un paio di passi, si accostò al vecchio mobile sgangherato sotterrato da un cumulo di vestiti. Una scintilla le scoppiettò sul fondo dello stomaco, e per un attimo osò sperare.

Ma non era la Tempesta.

«Tu che cazzo hai fatto?» Altair ciondolava una gamba, rigirandosi la birra davanti agli occhi. «Hai scambiato lo scazzo con la depressione sulla via del ritorno?»

«'Fanculo.»

Faceva caldo, lì dentro. Mira sbottonò il cappotto, lenta, e se lo tolse di dosso. Se lo tenne ripiegato sul braccio, premuto contro il petto.

Altair sbuffò un sorriso. «Fammi indovinare. Non ce li hai più nemmeno tu, eh?»

Impossibile nasconderlo, a quanto sembrava. «No,» ammise.

«Bella merda.»

Mira accennò un sorriso amaro. Proprio una bella merda, sì. Non le rispose però, si limitò ad annuire, scalciando una maglia caduta dal cumulo sopra il mobile. Era pulita, si rese conto, o almeno lo era stata prima.

«Ti fa male qualcosa? O quella è una caratteristica sfigata tutta mia?»

Alzò gli occhi verso Altair, seguì le onde che i capelli le formavano sulla spalla. «Sto bene. Mi sento solo vuota.»

Altair sollevò la bottiglia sulla testa. «Benvenuta nella realtà della merda.» Poi la agitò di fronte a sé, un gesto di offerta.

Mira la scacciò con un buffetto. «Tu non ti senti...» Si morse la lingua. Qual era la parola giusta per descrivere il modo di merda in cui si sentiva? Una schifezza? Inutile? «Fragile?» chiese alla fine.

Le diede le spalle, camminando fino alla porta, nascosta dal biondo della propria chioma. Reggeva il cappotto stretto fra le dita, e l'orlo sfiorava il pavimento.

«Perché?» La voce di Altair le giunse lontana. Ingabbiata oltre una protezione di vetro, innalzata dalla sua stessa mente per tenerla lontana. «Perché non riuscivo nemmeno ad alzarmi dal cazzo di letto?» La sentì bere ancora.

Mira le rivolse un'occhiata veloce, la schiena premuta contro il muro freddo. «No,» mormorò. «Cioè, sì, ma...» Sbuffò.

Non le era piaciuto, entrare in casa e trovare Altair abbattuta sul letto. Se non fosse stato per la luce vitale che le brillava negli occhi, avrebbe pensato che stesse per morire. Eppure la parola "fragile" non le era passata nemmeno per l'anticamera del cervello; non l'avrebbe descritta mai come fragile, nonostante tutto.

La forza di Altair non dipendeva dalla Tempesta.

«Forse aveva ragione Drake,» disse. Le parole avevano un sapore aspro sulla lingua. «Sono solo una stupida creatura fragile che senza i fulmini non vale niente.»

Lo sentiva ancora, il sapore delle sue labbra. Amaro e intenso, quanto le sue parole.

Altair si alzò in piedi. «Chi?»

«Il bamboccione. Tu lo chiamavi così.»

«Ah, quello.» Le si avvicinò di un paio di passi. Premeva il palmo contro il fianco, ma aveva un'aria solida. «Quando te l'ha detta 'sta stronzata?»

La lingua le si appiccicò al palato. La saliva era evaporata via. «Poco prima di tutto il casino con la cupola. Mi ha drogata e ammanettata. E mi ha...» Di nuovo il suo schifoso sapore la invase. Scosse la testa, frenetica, nel tentativo di scacciare il ricordo.

Un rumore di vetri infranti la riportò nel presente. Altair teneva il braccio teso; la bottiglia le era volata via, contro il muro, e i suoi resti si sparpagliavano sul pavimento. «Dovevo staccargli quella faccia da cazzo con le unghie, a quello stronzo.»

Strano, vederla tanto arrabbiata per una questione che nemmeno la riguardava. Mira ingoiò il resto del racconto, ma le guance le tirarono in un sorriso.

«Ormai è morto,» le ricordò.

Altair le era vicina adesso. La fissava, un sopracciglio sollevato. Aveva delle piccole lentiggini sparse sugli zigomi; Mira non le aveva mai notate, eppure sotto quella luce divennero evidenti. «E allora smettila di pensarci, no?»

Facile a dirsi. «Ma aveva ragione.»

«Quel coglione diceva un sacco di stronzate. Non ci ha mai capito un cazzo, di te.»

E lei questo come lo sapeva?

«Forse,» mormorò Mira.

L'altra le picchiettò l'unghia contro la fronte. «Guardati, stronza sadica. Con o senza i fulmini, sei la persona più figa del gruppo. Be', dopo di me.»

Qualsiasi cosa fosse a tormentarle lo stomaco, si dileguò allora. Ne rimase un senso di leggerebbe, che le venne fuori sotto forma di risata. Mira si godette la vibrazione delle risa che le scuotevano il petto, per quanto piccole fossero. Le assaporò fino alla fine.

«Mi ha telefonato mio fratello,» disse poi, una mano fra i capelli. Non sapeva nemmeno perché glielo stesse dicendo. Non aveva pensato di farlo, le era uscito e basta.

Altair inarcò il sopracciglio. «E?»

«Mio padre ha avuto un ictus.» Strano, ammetterlo ad alta voce.

Altair era tanto vicina che il suo sospiro le solleticò la punta del naso. «Bella merda. O lo vuoi morto? Perché se lo vuoi morto, organizziamo una festa.»

«Non lo voglio morto.»

L'altra si scrollò nelle spalle. «Non si sa mai.»

«È che pensavo non me ne fregasse niente di loro.» Né di suo padre, nei dei suoi fratelli, né di sua madre.

Altair inclinò la testa. «E invece?»

«Non lo so.»

Altair le sferrò un pugno moscio sulla spalla. «Lo so io che ti serve,» sorrise, in quel suo modo che non prometteva nulla di buono, ma talmente sicuro che Mira volle crederle.

«Cosa?» le chiese in un sussurro.

«Devi distrarti, sfogarti un po'.»

«Non so come si fa, senza i fulmini.»

Ottenne un occhiolino e un manrovescio sull'altra spalla. «Ci sono trecento modi di sfogarsi. Vieni, ti insegno a divertirti.»

Nel locale, la musica era assordante. I bassi rimbombavano fra le pareti, rimbalzavano sui corpi delle persone sulla pista da ballo; un enorme cuore pulsante che viveva di vita propria. Mira seguì Altair fra i tavoli, una mano sul petto, dove il suo, di cuore, accelerò il ritmo fino a imitare la musica.

Gli specchi appesi alle pareti rimandavano l'immagine di loro che si facevano strada fra la calca, due creature piccole, inghiottite dalle fauci della folla, eppure spiccavano come due torce luminose in una landa buia. O forse era solo Altair a spiccare, con la solita giacchetta di pelle, i jeans che le fasciavano le gambe, l'andatura sicura e il suo sorrisetto.

Nemmeno la sua capacità di conquistare l'attenzione era opera della Tempesta.

Sgomitò fra le persone che agitavano i corpi in danze scomposte. Mira invece si arrestò davanti all'ultimo tavolo. Un paio di bicchieri vuoti e una borsa abbandonata sulla sedia segnavano la presenza di qualcun altro. Mira ci si appoggiò soltanto con una mano.

Altair rispuntò dalla calca, le andò incontro. «Che cazzo fai? Siamo qui per divertirci, ricordi? Non per fare la musona.» Puntò il pollice verso la pista da ballo.

«Non mi diverto a ballare.»

«Davvero? Ci hai mai provato, almeno?»

No. Non ci aveva mai provato. Non sapeva nemmeno da dove iniziare. Cercava un senso, nei movimenti delle persone attorno a lei, qualcosa da imitare, ma tutto quello che distingueva era agitare il corpo come se fossero privi di spina dorsale. Le sembravano tutti dei molluschi: sguscianti, fluidi, rilassati. Lei non sapeva fare il mollusco.

Non rispose mai, non ce ne fu bisogno. Altair sbuffò e le rifilò una pacca sulla spalla, troppo forte. «Fa' come ti pare. Se cambi idea, sai dove trovarmi.» Accompagnò le parole con un movimento di sopracciglia, una provocazione. La odiava, quando faceva così.

Ma non cercò di convincerla, e Mira si sentì invadere da un'ondata di sollievo. Incrociò le braccia al petto, scivolando su una delle sedie libere del tavolo. La osservò allontanarsi di nuovo.

Fu ovvio fin dal primo istante che quello fosse il suo ambiente. Altair ballava da sola, roteava da una coppia all'altra, si insinuava fra i gruppi più numerosi e poi scivolava via, seguita dagli sguardi di quelli che aveva incrociato. Non si muoveva come un mollusco. Tutt'altro. Riusciva a essere fluida, nel modo in cui portava le mani alla testa, si scompigliava i capelli mentre il resto del corpo danzava, senza perdere la dignità.

C'era qualcosa, nelle sue movenze, che ricordava la stabilità di un artista marziale. Per quante volte girasse su se stessa o scuotesse la testa, non perdeva mai l'equilibrio. I piedi la tenevano stabile sulle gambe.

In un mare di pesci lenti e boccheggianti, lei era rapida e presente.

Mira si ritrovò la bocca piena di saliva. La mandò giù con una smorfia stizzita. Poggiò il gomito sul tavolo, distolse lo sguardo, ma lei era sempre lì: riflessa negli specchi, a conquistare l'intera pista da ballo.

Le persone le orbitavano attorno, ma Altair le teneva a distanza. Le sfiorava con la mano quando era di passaggio, e nulla di più. Finché non fu lei a scegliere una donna, più bassa di lei di pochi centimetri; le mise le braccia attorno al collo e la tirò a sé. L'altra le si spalmò addosso, i capelli lunghi e biondi che le dondolavano dietro la schiena.

Qualcosa, nello stomaco di Mira, fece una capovolta. Non erano i fulmini, non potevano esserlo. Eppure il dolore era lo stesso. L'acido le risalì lungo il petto, le corrose la gola.

Altair fece voltare la sua accompagnatrice. La bionda dava le spalle ai tavoli; lo sguardo di Altair riluceva nella calca. Come un magnete, attirò quello di Mira a sé.

Si ritrovarono così, a fissarsi l'un l'altra. Incatenate da un filo invisibile, legate da una forza più forte di loro.

Mira fece scivolare via il gomito dal tavolo, senza nemmeno accorgersene. Altair alzò un sopracciglio nella sua direzione, arcuò le labbra in un sorrisetto. Poi prese le mani dell'altra donna, se le portò ai fianchi; quella le lasciò lì, a seguire i suoi movimenti.

Mira fletté le dita. Le nascose sotto la coscia.

Altair non le scollava gli occhi di dosso. Lei e la compagna giravano in tondo, si avvicinavano fino a sfiorarsi le labbra e si riallontanavano, ma la sua attenzione versava sempre altrove. Seguiva la forza che la teneva legata a Mira.

La musica accompagnava la danza in una serie di note basse e sensuali. Un ritmo lento, scandito dai tamburi.

La bionda fece risalire le mani lungo il corpo di Altair. La accarezzò fino a raggiungere le spalle. Altair la lasciò fare, le si strinse di più; ma il verde dei suoi occhi scintillava in mezzo alla calca.

Mira sentì la sensazione della sua maglietta ruvida sotto le dita. La sentì come se quelle mani fossero le sue.

La canzone rallentò. L'ondeggiare dei corpi di Altair e della bionda ne seguirono il ritmo, si fecero meno accentuati, più intimi. Mira desiderò distogliere l'attenzione, concentrarsi sulla tizia che si era avvicinata al tavolo a recuperare la borsa, ma il filo invisibile la teneva legata ad Altair, alla luce riflessa nel suo sguardo.

Giunse la fine della canzone. La rimpiazzò il lamento di un piano, una singola nota ripetuta. L'unico sottofondo era il suo stesso riverbero.

Mira si alzò dalla sedia; Altair spinse via la donna.

E mentre una voce femminile cantava suadente, si fecero strada l'una verso l'altra.

Si incontrarono in mezzo alle altre coppie. Una vena pulsava arrabbiata sulla tempia di Mira. Altair le stava a pochi centimetri, con quel suo solito, stupido sorriso provocatorio. L'aspettava immobile, ma l'incantesimo che le teneva allacciate era ancora presente, un'energia palpitante fra di loro. Un'energia viva.

«Ti sei decisa, pazza sadica?»

Mira deglutì. All'arrivo delle percussioni, sollevò le braccia. La afferrò per i baveri della giacca, la tirò a sé. I muscoli le si contrassero. Le dita strinsero fino a farsi male. Pensò di rifilarle un pugno per cancellarle quel cazzo di sorrisetto dalla faccia.

Altair però le poggiò i palmi sui fianchi. Il suo tocco sprigionò un'ondata di calore che le risalì su fino alle guance. Altair la guidò, le fece muovere l'anca in movimenti appena accennati, lenti; le insegnò a seguire il ritmo della musica.

Mira si tenne aggrappata a lei. Le braccia le si rilassarono. Si lasciò guidare, con il palato inondato di saliva e la testa all'improvviso leggera, troppo leggera. L'altra accostò il viso al suo; qualsiasi cosa tenesse incollati i loro sguardi si sciolse allora, quando Altair fece cadere gli occhi poco più giù. Mira la imitò, e si ritrovò a osservare le sue labbra. All'improvviso così vicine. Così lucide.

Le scoppiò un fuoco nelle viscere. Le fiamme lambivano le pareti dello stomaco, danzavano anche loro, cullate dal ritmo imposto da Altair.

Non c'era odore di Tempesta in lei, non più. Rimaneva solo l'ambra, eppure Mira ne fu assalita con la stessa forza. Quel profumo la inebriava, le cancellava i pensieri.

Si perse nel movimento. Allentò la stretta sulla giacca, aprì un poco le dita. Stordita, continuò a seguire i lineamenti di Altair con gli occhi: dal verde del suo sguardo, giù verso la punta del naso, lungo lo zigomo accentuato dal riflesso della luce, e sulle labbra tirate verso un lato, in quel suo mezzo sorriso.

Altair la fece voltare. Mira si ritrovò con la schiena premuta contro il suo seno. L'altra le accarezzò le braccia, mentre con una mano continuava a guidarle i fianchi.

Una scarica la attraversò, lì dove Altair la toccava. Le pizzicava sulla pelle, in una maniera piacevole, come il guizzo di un fulmine della Tempesta.

Ma non era la Tempesta. Non poteva esserlo.

Mira non percepiva una solo saetta dentro di sé. Eppure aveva un fuoco, adesso, a scaldarla e donarle energia.

La musica esplose nel ritornello finale.

Mira tornò a fronteggiare Altair. Le passò le braccia sulle spalle, le circondò il collo. Si fecero più vicine. I fianchi si sfioravano. I seni si scontravano. Gli occhi si incontravano, solo per poi riscendere.

La presa di Altair sui fianchi si fece più salda. La spinse verso di sé. Il caldo del suo fiato le accese le guance di una fiamma viva. Mira rimase immobile mentre l'altra inclinava appena il capo. Le sue labbra si accostarono alle sue.

Poi la musica terminò. Un sonoro sospiro della cantante risuonò fra loro.

Mira scivolò via dalla sua presa, le membra ancora scottate dal calore della loro vicinanza.

Le labbra di Altair si schiusero. La lingua saettò fuori per una frazione di secondo. Mosse un passo, pronta a parlare, a dire una delle sue solite cazzate. Mira indietreggiò, e l'altra richiuse la bocca di scatto.

Gli specchi erano tutti puntati su di loro. I riflessi di persone che si divertivano le circondavano, ma il centro esatto della scena erano sempre loro.

«Ohi, pazza sadica,» cominciò a dire Altair.

Mira scosse la testa. Non rimase ad ascoltare il resto della frase, girò sui tacchi e si diresse all'uscita del locale. Il freddo del vento fuori le rinfrescò le guance, tuttavia il fuoco dentro di lei divampava più vivo che mai.

Altair le andava dietro, sentiva il rintocco dei suoi passi alle sue spalle. Non correvano, eppure entrambe volavano sul marciapiede.

«Che cazzo ti è preso?» La domanda di Altair le arrivò lontana. Scalfiva appena il rumore del sangue che le pulsava nelle orecchie.

Mira raggiunse casa senza mai risponderle. Si infilò nel portone – lo lasciò aperto, un gesto istintivo e inconscio – e salì le scale fino al proprio appartamento. Altair la seguì. La seguì, e la consapevolezza di lei che si avvicinava le fece tremare le mani; trovò a fatica la serratura e ancora più a fatica ci infilò le chiavi. Quando aprì, Altair era dietro di lei, il respiro pesante.

La superò, entrando nell'appartamento per prima. In un sospiro, Mira oltrepassò la soglia subito dopo. Accese la luce. Il soggiorno era in ordine, con le solite mensole piene di gufi, tartarughe e altre cianfrusaglie lasciate dalla proprietaria.

Richiuse la porta.

Altair era una presenza così anomala, lì dentro. Un tocco di colore, con il rosso dei suoi capelli; un tocco di calore, con l'energia che le trasmetteva la sua sola vista. Bastava averla davanti perché Mira rivivesse la scarica elettrica sulla propria pelle.

Sebbene la Tempesta avesse lasciato entrambe, la sua ombra viveva ancora dentro di loro.

Questo era il motivo per cui si sentiva tanto confusa, tanto esaltata e stordita. Doveva c'entrare per forza la Tempesta. O no?

Altair spalancò le braccia, in quel suo modo sicuro di sé. Occupava spazio. «Allora? Ti sei sfogata?»

Mira aveva ancora le dita sulla maniglia. Scrollò le spalle. «Più o meno.» La carica l'aveva ricevuta di sicuro. Un desiderio le aveva messo radici nel ventre, ed era quello ad alimentare le fiamme. L'energia di cui l'animava però portava sofferenza, perché mancava ancora qualcosa.

In uno sbuffo, l'altra fece ricadere le braccia lungo il corpo. I capelli le si erano scompigliati a causa del vento, alcune ciocche le coprivano l'occhio. «Che cazzo ti aspetti, se te ne vai dopo due minuti?»

«Te l'ho detto. Non mi piace ballare.»

Altair accentuò il sorriso. «Sì, l'ho visto, infatti.»

Mira si sentì avvampare. Si morse il labbro, in silenzio.

«Be', sei fortunata però.» Altair schiacciò un palmo contro la porta; la intrappolò fra il finto legno della porta e il suo stesso corpo. Assieme al profumo di ambra si era aggiunto il fresco di fuori. «Puoi sempre scegliere di prendere anche il dessert.»

Ridacchiò alla sua stessa battuta di merda.

Mira invece avrebbe voluto darle una testata per farla stare zitta. Così si ripeté, che voleva picchiarla, quella faccia da idiota. Che era per questo che le si aggrappava di nuovo alla giacca.

La sentì irrigidirsi per un attimo. La vide sollevare il sopracciglio.

Poi le loro labbra si scontrarono. Violente. Affamate. Mira la tirò a sé; Altair le portò una mano sul fianco. Si assaggiarono a lungo, si morsero a vicenda. Finché Altair non la cercò con la lingua.

Aveva un sapore diverso da come Mira se l'era aspettato. Altrettanto pungente, eppure con un retrogusto dolciastro. Non era il sapore della Tempesta, ma ci andava così vicino da lasciarla senza fiato.

Altair allontanò il viso. La teneva ancora costretta contro la porta. «L'ho sempre detto, che morivi dalla voglia di saltarmi addosso.» Le uscì in un sussurro, una carezza sulla guancia.

La solita imbecille. La odiava. Mira la detestava.

«Sta' zitta,» le disse.

Altair le accostò le labbra all'orecchio. «Costringimi.»

E Mira la baciò ancora. Con meno violenza di prima, ma altrettanta foga. Le affondò le dita fra i capelli, la spinse verso di sé. Il fuoco dentro di lei era esploso, le fiamme la controllavano. Si tolse il cappotto, lo lasciò cadere ai propri piedi.

Le mani di Altair le afferrarono l'orlo della maglia. Gliela sfilarono da sopra la testa e la lanciarono via.

Note:

Ebbene sì, è successo davvero. Sarò sincera, ero convinta che avrei avuto difficoltà a scrivere la scena, invece le parole uscivano da sole. Avviso che la parte erotica non la scriverò manco sotto tortura, però mi sono divertita a cercare di rendere comunque la scena "hot" a modo suo. Spero di esserci riuscita.

Con questo capitolo infinito, si apre la seconda parte.

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