Capitolo 10

Altair rotolò su un fianco in un lamento strozzato. Non trovò il materasso sotto di sé, e cadde dal letto dritta sul pavimento, le lenzuola intricate attorno ai piedi. Il freddo delle mattonelle le premeva contro la pelle, contro il fianco, dove i nervi le esplodevano in una spirale di dolore.

«Cazzo.»

Strinse i denti e si puntellò sui gomiti. Pesava, come se quella cazzo di pizza dell'altro giorno le avesse fatto prendere almeno trecento chili in una volta. Si aggrappò alla gamba del letto, tirò con forza nel tentativo di convincere le gambe a sollevarsi.

Ricadde sulle ginocchia.

«Ma che cazzo,» mormorò ancora, e provò una seconda volta. Stesso risultato.

Stramazzò al suolo, i denti stretti al punto da udirli incrinarsi. Qualcosa le scavava sottopelle, lì sul fianco, dove la cicatrice le bruciava; qualcosa di invisibile, che non trovò al tatto. Qualcosa che somigliava a un proiettile, e che pungeva quanto i fulmini. Gli stessi fulmini che le avevano lasciato un vuoto.

Altair si distese la coperta sul corpo infreddolito. All'improvviso le sembrava di essere caduta dentro un frigorifero.

Fu un atto di puro istinto, il risultato di un'abitudine coltivata nel corso della sua intera vita: chiamò la Tempesta dentro di sé. Cercò un guizzo delle saette, le pregò di darle la forza di muoversi, perché i muscoli da soli non ce la facevano. Le pregò di cancellarle il dolore, perché perfino respirare diventava sempre più faticoso.

Non trovò nulla. Il cuore le pulsava nelle orecchie, le rimbombava nella testa; il sangue le scorreva caldo nelle vene. Ma i fulmini non c'erano.

Dove cazzo erano finiti? Quella figlia della merda di Sherlin le aveva combinato qualcosa. Doveva essere per forza così.

In un gemito, riprovò ancora una volta a rialzarsi. Si issò prima sulle ginocchia, poi strinse le dita alla testiera del letto e si sollevò spingendo sulle braccia. «Vaffanculo.» Si ritrovò così in piedi, ansimante, con le coperte che le scivolavano sulle gambe.

Le ginocchia la reggevano appena. Il pavimento era tutto fuorché solido, i muro le giravano attorno. Cadde con il sedere sul materasso.

Così non andava bene. Così non andava bene per niente. Sembrava una vecchia che aspettava di distendersi nella sua bara.

Attese qualche secondo, o forse qualche ora – il tempo non significava più nulla, un concetto stupido e astratto che si perdeva a ogni pulsazione. Le si accese un fuoco lungo tutto il corpo, un fuoco bruciante. Boccheggiò senza fiato.

«La ammazzo, quella figlia della merda.»

Nonostante le proteste dei muscoli, Altair si rialzò. Ciondolò fino al bagno, inciampando in un cumulo di vestiti sporchi buttato a terra. Trovò sostegno nel lavandino, a cui si aggrappò con quel briciolo di forza che le restava.

Incontrò il proprio riflesso: una stronza dal colorito pallido, gli occhi spalancati e arrossati, che la fissava con l'aria di una appena uscita da un funerale. Il proprio funerale.

Molto sexy, per chi amava i cadaveri.

Arcuò le labbra in un sorriso amaro al pensiero. Il proiettile immaginario le scavò più a fondo nel fianco, e Altair si morse la lingua. Il sapore di sangue le inondò il palato.

Aprì lo sportello dei medicinali accanto allo specchio. Vuoto, fatta eccezione per lo spazzolino, un tubetto di dentifricio mezzo spiaccicato, una spazzola e una confezione di saponette per le mani che aveva lasciato la proprietaria – una vecchietta con più rughe che capelli e dal sorriso sempre esagerato. Nient'altro. Nemmeno una confezione di antidolorifici, una bustina contro il dolore del ciclo, niente.

E perché avrebbe dovuto averne? I fulmini erano sempre stati la sua miglior medicina.

Sbatté lo sportello con un'imprecazione. Aprì il rubinetto e il movimento a cascata dell'acqua la ipnotizzò. Scosse la testa una buona manciata di secondi dopo, quando una nuova fitta la riportò al presente. Raccolse l'acqua nelle mani a coppa e se la buttò in faccia, gelida. Le congelò i pensieri per un secondo.

Lo fece di nuovo, finché i muscoli del viso non persero di sensibilità. Allora chiuse il rubinetto e si osservò ancora allo specchio, con le gocce che le percorrevano gli zigomi e si arrestavano sul mento.

Dietro il suo riflesso, una lampadina oscillava dal soffitto. Diffondeva delle ombre lunghe e sbilenche sulle piastrelle ingiallite dal tempo. Quell'appartamento faceva schifo; nonostante fosse più grande di quello precedente – addirittura aveva la stanza da letto separata dalla cucina – l'ambiente sapeva di vecchio e stantio. In quel momento, quel bruttissimo cesso minuscolo le sembrò una vera e propria catacomba.

Non sarebbe morta lì, però. Lo sapeva e basta, che il suo corpo era sofferente ma vivo.

Desiderò che finisse tutto. Un pensiero fugace, che l'attraversò in punta di piedi, timoroso. Le aprì l'entrata di un tunnel nero, profondo, che sprofondava verso il basso.

Strinse il bordo del lavandino e chiuse gli occhi.

No. Col cazzo. Non si sarebbe mai nemmeno avvicinata a quel tunnel di merda.

Si asciugò il resto delle gocce sul viso con un asciugamano; lo lasciò cadere a terra e tornò in camera trascinando i piedi. Un giro all'aria aperta, ecco cosa le ci voleva. Lontana dall'aria viziata di quel cazzo di appartamento orribile.

Trovò la forza di vestirsi, sebbene con la lentezza di un bradipo in fin di vita. Non fece caso a cosa si mettesse addosso. I primi pantaloni decenti che le capitarono a tiro, una maglia abbandonata su una sedia che profumava ancora di ammorbidente. Infilò addirittura le scarpe, fra un «muori,» e un «vaffanculo».

Percorse tre passi, che la portarono verso il letto. E lì crollò di schiena, le braccia spalancate. Rimbalzò sul materasso; un'ondata di acido le attraversò il corpo intero e Altair si morse il labbro.

Chi cazzo voleva prendere in giro? Non sarebbe mai arrivata nemmeno alla porta di casa.

Le serviva un antidolorifico, un tranquillante, una droga, dell'alcol, qualsiasi cazzo di cosa le ottenebrasse i sensi. Voltò la testa verso il comodino. Il cellulare non c'era, chissà dove l'aveva lanciato prima di sprofondare in quel sonno improvviso. Non sapeva nemmeno che ore fossero. Non ricordava quale fosse stata l'ultima cosa che aveva fatto prima di buttarsi sul letto e cadere in coma per la prima volta dopo giorni.

Se ne stette così, con il proiettile che le scanalava il fianco e una ragnatela rossa pulsante che le si diramava lungo tutto il corpo.

Attese per minuti, secoli, fissando le macchie di umidità sul soffitto. Tante piccole bolle assembrate agli angoli, erano come lentiggini. Il muro aveva le lentiggini.

Che immensa, gigantesca rottura di palle.

Sarebbe morta di noia. L'avrebbero trovata lì, distesa sul letto, con gli occhi ancora aperti e il cervello mummificato.

Qualcuno suonò il campanello. Una pernacchia prolungata, che la fece sobbalzare e poi sorridere. Altair fletté le dita, ma perfino un movimento minimo come quello le fece esplodere l'energia rossa e pulsante di dolore. Provò a girarsi su un fianco. Né il busto né le gambe risposero al comando.

«Bella merda,» sussurrò.

Chiunque fosse alla porta, bussò con forza. Altair immaginò qualcuno buttarsi contro la porta di peso e picchiarla con i gomiti. «Altair? Ci sei?»

La voce arrivò ovattata, smorzata dai muri che le separavano. Riconobbe lo stesso il timbro di Elettra e una strana nota di preoccupazione.

«Sfonda la porta!» le urlò Altair.

«Cosa?»

Ma il secondo dopo arrivò un colpo sordo, seguito dal rumore della porta che sbatteva contro il muro. Dei passi in avvicinamento. Altair voltò soltanto la testa, le braccia spalancate nella posizione del martire.

A entrare nella camera fu Mira, con il suo solito cipiglio incazzato. No, non incazzato. C'erano delle piccole differenze nel modo in cui teneva le sopracciglia abbassate.

Altair sollevò l'angolo delle labbra in un ghigno. «Ah, c'è anche la pazza sadica. Mi sembrava strano.»

Mira la osservò, il capo inclinato di lato, il mento immerso nella finta pelliccia del suo cappotto. «Che hai fatto? Sembri una mummia.»

Quasi, pensò lei. Quasi. Se non fossero arrivate loro, lo sarebbe diventata di sicuro.

Elettra comparve subito dopo. Poggiava due dita sul lato del visore, la luce azzurrina si rifletteva sui polpastrelli. Poi la luce si spense. «Altair, che è successo?» Si tolse quello stupido arnese dagli occhi e le puntò le pupille addosso. Solo che non la vedevano, non la mettevano a fuoco, fissavano nel vuoto.

«Secondo voi? Faccio le prove per quando devo mettermi nella bara.»

Le si avvicinarono entrambe. Mira si fermò ai piedi del letto, il labbro intrappolato negli incisivi; Elettra arrancò fino a sedersi al suo fianco. Il materasso si piegò sotto il suo peso. «I tuoi fulmini...»

Altair schioccò la lingua, la guancia premuta contro il letto. «Andati,» rispose.

«Da quanto?» Non ne sembrava scioccata, non del tutto almeno. Mira gliel'aveva detto, allora, di quel giorno.

«Mi sono svegliata così. Vuota e con la sensazione che un cazzo di camion mi abbia ballato addosso.»

Le mani di Elettra la cercarono. Le tastarono il braccio, un tocco piacevole che attenuò l'incendio di luci rosse e pulsanti; nessuna energia della Tempesta però risuonò con quella di Elettra, solo dei muscoli che si contraevano per le fitte continue.

Mira era ancora lì accanto, ma faceva attenzione a non far cadere lo sguardo su Elettra. L'azzurro dei suoi occhi seguiva, spento, il viso di Altair, scendeva lungo il fianco. «Ti fa male?»

«Dove?» scattò Elettra.

Altair sbottò in una risata. Una domanda davvero stupida. La ragnatela di dolore si era diramata in ogni più piccolo anfratto, arrampicandosi su, fino alla testa. Dietro il collo, dei bozzoli di muscoli contratti le tiravano la pelle. «Ovunque.»

«Che tipo di dolore è?» Elettra le premette i polpastrelli nella spalla. Trovò una delle tante contratture sbucate da chissà dove, e in quel preciso punto la pelle prese a pulsarle con più insistenza.

«Il tipo che fa male. Che cazzo di domanda è?»

Ottenne uno sbuffo e un mezzo sorriso che morì subito dopo. «Riesci a muoverti?» chiese allora.

«Sì, me ne sto qui sdraiata perché mi piace fare la melodrammatica.»

Ci fu una pausa, una lunga pausa in cui Elettra ritirò le mani e le posò sul grembo, una maschera enigmatica a nascondere i suoi pensieri. Voltò la testa in direzione di Mira, che non se ne accorse nemmeno.

«Non sei l'unica,» disse Elettra. Lo buttò fuori come un sospiro trattenuto troppo a lungo. Le spalle le si sollevarono per un momento, per poi afflosciarsi del tutto, private della forza che fino ad allora le aveva tenute alzate.

In un lamento, Altair rotolò su un fianco. «A fare che? A essersi ridotta a una merda spiaccicata?»

«Altri figli della Tempesta stanno perdendo i fulmini.» Elettra strinse la stoffa del cappotto fra le dita, così forte da sbiancarsi le nocche. «L'abbiamo sentito alla protesta.»

«La protesta?»

«Una protesta per riconoscere i nostri diritti.»

Una di quelle stronzate inutili in cui la gente si metteva a sventolare bandiere a caso e cartelloni stupidi e a sgolarsi per denunciare le ingiustizie della società. Immaginò quelle due in mezzo alla calca di deficienti, una con la sua espressione perplessa e il gentile sorriso di circostanza, e l'altra con la faccia incazzata e l'aria di chi è pronto a prendere tutti a calci in culo; entrambe a reggere l'estremità di un qualche striscione con su scritte parole di pace.

Di sicuro era stato un successone.

Altair si puntellò su un gomito per sollevare di poco il busto. La ragnatela rossa le esplose sottopelle, un paio di secondi, poi il dolore si attenuò fino a diventare sopportabile. «Li avete convinti a riconoscerci più diritti con un paio di pugni in faccia?»

Elettra scosse il capo, un sorriso appena accennato a solcarle le labbra. «Quella saresti stata tu.»

«Se lo sarebbero meritato,» rispose invece Mira. In una scrollata di spalle, si fece un po' più vicina. «Soprattutto la tizia delle pillole.»

Altair fletté le dita. Non le causò nulla di più di un leggero formicolio. Forse aveva una speranza. «La tizia delle pillole?»

«Dobbiamo vivere ingollando quelle stupide pillole che ci tolgono i poteri, secondo lei.»

«E non l'hai fritta sul posto?»

«Per fortuna non c'eri tu con lei,» s'intromise Elettra.

Altair sbuffò un mezzo sorriso. «No, ero troppo impegnata a morire sul letto.» Non che sarebbe mai andata in ogni caso. Aveva tutt'altri piani – che ora non ricordava, ma qualcosa si sarebbe inventata.

«Avresti dovuto dirmelo subito.» La morsa di Elettra sulla stoffa del cappotto si fece sempre più intensa. Sembrava volesse spezzarsi le ossa a furia di stringere. «Anziché aspettare che i fulmini se ne andassero del tutto.»

«Che cazzo di differenza fa?»

«Avremmo potuto provare a fermare il processo...» Le parole le morirono in gola. Chissà, forse si era resa conto della gigantesca stronzata che stava per dire. Perché nessuno di loro avrebbe potuto farci un cazzo di niente in ogni caso.

Altair ricadde con la testa sul materasso. Un sollievo inaspettato le attraversò i muscoli del collo. Un flusso di rilassatezza, fin troppo piacevole, che le serpeggiava fra i nodi che le tiravano la pelle. «Hai detto che non sono l'unica, no?»

Non le rispose a parole, solo un cenno di assenso con la testa.

Mira sbatté la porta del bagno; il tonfo le fece sobbalzare entrambe. Si addentrò nel piccolo e umido anfratto che la proprietaria di casa chiamava "confortevole bagno" e sparì per una manciata di secondi. Rumori di sportelli che venivano aperti e richiusi con furia risuonarono nel silenzio.

Quando tornò in camera, Mira aveva un cipiglio più strano del solito. A metà fra l'incazzato e il disgustato. «Non ce li hai degli antidolorifici?»

Altair aggrottò la fronte. «Perché? Ti è venuto il ciclo?»

«Per te, idiota.» L'azzurro del suo sguardo si spostò subito, si concentrò sul comodino, frugò fra il cumulo di oggetti gettati lì sopra alla rinfusa senza vederli davvero.

Nonostante il proiettile invisibile continuasse a penetrarle nel fianco, Altair scoppiò a ridere. «No, le medicine non mi sono mai servite a un cazzo.»

Mira roteò gli occhi al soffitto, ma non replicò. La pelliccia del cappotto le celava la metà inferiore del mento. Le labbra invece spiccavano, troppo rosse sullo sfondo di un colorito pallido, sebbene lucente. «Ne ho qualcuno a casa,» disse alla fine, in una scrollata di spalle. «Cerca di non rimanerci mentre vado a prenderle.»

Gentile, da parte sua. Altair mimò uno sparo nella sua direzione, per poi far ricadere il braccio accanto a sé. «Non posso morire, o friggi il mondo intero dalla disperazione.»

Vide solo l'ombra di un dito medio sollevato prima che Mira sparisse oltre la soglia. Andata così, come se niente fosse, come se camminare fosse la cosa più facile del mondo.

Altair sentì l'occhio fremerle. Le dita le si agitavano da sole, mosse da un bisogno disperato di sfogare quel barlume di energia che le bruciava ancora nel profondo. Le tamburellò contro le coperte.

«Merda.» L'imprecazione di Elettra strappò il silenzio in cui era caduta. Altair aveva quasi dimenticato che fosse ancora lì, che fosse qualcosa di più di una macchia scura al lato della sua visuale.

«Che hai fatto?»

La lucina azzurra del visore lampeggiava di nuovo. Elettra digitava qualcosa sul telefono. «Fra poco ho il raduno.»

«Quello degli stronzi anonimi?»

«Se preferisci, posso aspettare qui finché non torna Mira.» Fece strisciare una mano sul materasso, a cercare le dita iperattive di Altair.

Lei ritirò il braccio prima che Elettra potesse sfiorarla. Con i denti stretti e una serie di parolacce casuali, tirò su il busto e si mise a sedere. La ragnatela rossa di dolore si era trasformata in una ragnatela pulsante e formicolante, che si accendeva con la furia di un paio di abbaglianti nel pieno della notte a ogni suo movimento, ma che scemava fino a spegnersi quasi del tutto.

«Non mi serve la babysitter. Va' a quel raduno di sfigati, se devi.» Altair la scacciò con un gesto della mano.

Se non fosse stato per il proiettile invisibile che le scavava nel fianco, sarebbe stata bene. Più o meno.

Elettra attese un paio di istanti, immobile, una statua di ghiaccio in attesa di sciogliersi. «Se davvero sta succedendo anche ad altri ibridi, forse potrei incontrarne qualcuno lì. Potrei scoprire se Max ne sa qualcosa.»

Altair impiegò una manciata di secondi a ricordarsi di Max. La stramboide con l'aria da derelitta capace di leggere nei pensieri altrui. «Muovi il culo, allora.»

«Sei sicura? Non hai bisogno di aiuto?»

«So ancora andare al cesso da sola,» rispose lei, in un'alzata di sopracciglia. Una verità, almeno per il momento.

Elettra annuì e si issò in piedi. «Mira dovrebbe tornare subito.»

«Ti ho detto che non mi serve una cazzo di babysitter.»

«Forse no, ma cerca comunque di non strafare.» Le sfiorò la spalla, con quel suo tocco pieno di una forza che Altair non percepiva più.

Note:

Altair sta una vera schifezza, e questo capitolo è stato strano... ma vabbé. L'avevo detto che i momenti chill erano terminati

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