2. Spilli di ferro
Sto correndo nel bosco.
Tutto attorno a me scorre molto velocemente.
Vedo gli alberi stare fermi mentre io gli sfreccio accanto per non sbatterci addosso.
Sento il rumore dell'erba e dei rami schiacciati a forza sotto al mio peso.
Non è l'unico rumore presente in quel luogo. Percepisco anche quello del mio respiro ansante, ma esso per quanto intenso passa come in secondo piano, talmente inserito nella mia testa da non riuscire a sentirlo.
Se qualcuno appoggiasse ora l'orecchio al mio petto potrebbe udire il veloce battito del mio cuore che pulsa con forza nella cassa toracica.
Ho paura.
Sto aspettando nel bosco.
Rimango fermo dietro una pianta ad aspettare.
Fa abbastanza caldo, ma il mio respiro è freddo quasi quanto il mio cuore.
Porto dietro all'orecchio una ciocca di capelli che mi blocca la vista.
Finalmente vedo qualcosa muoversi a molti metri di distanza. È da un po' che lo sto tenendo d'occhio. Corre velocemente tra gli alberi, saltando sull'erba e le foglie cadute.
Scappa da qualcosa che lo sta inseguendo.
Ha paura.
Sto scappando nel bosco.
Qualcuno mi sta tenendo sotto tiro con un fucile.
Non so dove si trovi ora, ma sto cercando di scappare il più lontano possibile da lui.
Non voglio morire.
Sto uccidendo nel bosco.
Tendo il fucile dritto davanti a me.
A momenti comparirà nel mio mirino, il mio unico compito allora sarà quello di premere il grilletto.
Lui deve morire.
Sto morendo nel bosco.
Scivolo a terra dopo aver ricevuto quel colpo.
L'unico pensiero che ho fermo in mente è quello di non voler morire.
Un po' alla volta non vedo più niente, non sento più niente, non provo niente.
Sono morto nel bosco.
Lascio il fucile e mi avvicino a quel corpo caduto a terra.
In testa sento strani rumori.
Non sento più niente, però sono ancora vivo.
C'è il mio corpo a terra, ma io lo sto guardando.
Il mio sangue esce, ma non ho bisogno di bloccarlo.
Sono io ad aver colpito il cervo o è l'uomo con il fucile che ha sparato a me?
Sono ancora nel bosco.
Con questa frase mi risvegliai dai miei pensieri.
Posai sul tavolo il bicchiere di vetro che fino a pochi momenti prima era stato pieno fino all'orlo di una dolce bevanda molto amata dagli adulti.
Non mi ero accorto del tempo che passava, tanto ero stato preso dal mio lavoro.
Passai una mano tra i lunghi capelli che avevo in testa e rimasi dubbioso ad osservarli, decidendo che forse era proprio arrivato il momento di accorciarli. Non avrei mai permesso a Fetonte di toccarli, non perché non fosse abile con le forbici, ma per una questione di principio mi ero imposto di tenere una certa distanza tra me e il mio maggiordomo. Avrei certamente trovato qualcuno di più abile che mi desse un'aggiustata alla folta chioma chiara che mi portavo continuamente appresso sulla testa.
Sbuffai con fare annoiato e lasciai che il silenzio di quell'inquietante luogo mi penetrasse fin dentro il cervello superando con poca difficoltà la mia ossea scatola cranica.
Mi tirai su dalla rigida sedia di metallo e uscii dalla stanza portando tra le mani il frutto delle ore dedicate al lavoro.
I pavimenti di assi scricchiolavano quasi impercettibilmente sotto alle mie lucide scarpe nere e il mantello che mi ero scordato di posare scivolava silenziosamente dietro di me.
L'anziano domestico doveva trovarsi nelle cucine, a giudicare dal nuovo silenzio che circondava quel freddo corridoio.
Il grande orologio segnava quasi le quattro del pomeriggio, ma la dorata luce del sole non riusciva a filtrare dalle scure tende delle grandi finestre e lasciava quel luogo nella semi oscurità.
Né io né il mio subordinato amavamo molto quei caldi raggi che a volte illuminavano quasi con disprezzo le nostre figure.
Nel mio caso, il Sole, non mi era nemico, ma da lui percepivo una sorta di tacito ribrezzo nei miei confronti e penso che se avesse la capacità di muoversi come più gli andasse si rifiuterebbe di continuare a illuminare il mio regno.
Fetonte d'altro canto odiava ogni forma di luce che riuscisse a raggiungerlo e mostrarne con chiarezza i tratti emaciati della secca pelle. Io stesso a volte mi sono ritrovato a guardare quelle bruciature sugli arti, solitamente tenute premurosamente coperte, ed è in quei momenti che riesco a sentire quanto in realtà io necessiti della sua presenza.
Entrai nel mio studio e guardai la scrivania su cui avevo posato il barattolo di vetro con all'interno la principessa delle fate.
Le avevo fatto dei buchini sul tappo per lasciarla respirare, così per ora non sarebbe morta.
«Ti ho portato una sorpresa.», dissi appoggiando sulla scrivania un rettangolo spesso due centimetri e alto venti, coperto da un lungo telo nero.
Era il quinto che le portavo questa settimana e non sarebbe stato l'ultimo.
Alla sua vista lei fu confusa, ma poi, dopo che ebbi levato il telo, capì e rabbrividì nascondendosi in un angolino del contenitore a piangere con la testa fra le mani.
Io lo appesi insieme agli altri sulla parete e mi diressi verso la porta.
Dovete sapere che le fate non hanno una buona memoria e che ricordano solo le cose belle, per questo io mi diverto ad appendere i miei trofei di caccia alla parete.
Trofei che in questo caso sono fate infilzate da spilli di ferro su tela.
Ma chissà, forse il prossimo sarebbe stato più divertente.
☆Commentate e ditemi se vi è piaciuto. In caso contrario fatemi pure notare dove ho fatto errori o come potrei migliorare questo capitolo.☆
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