17. Bevanda amara


Giovedì 13 agosto. Era passata esattamente una settimana dalla riapertura del locale.

La prima volta che avevo visto entrare qualcuno di diverso da Louis e Giusy il mio cuore aveva perso qualche battito. Per un attimo avevo anche temuto si trattasse di guardie ben travestite venute a imprigionare e giustiziare me e Co.
In quel caso si trattava solo di un signore che aveva bisogno di usare il bagno, ma la volta successiva una ragazza si era fermata la mattina a fare colazione da noi.

Sarino aveva da poco comprato una macchinetta per il caffè. Con quella avevo presto imparato a fare anche il cappuccino, riempiendo forse in modo eccessivo la tazzina di schiuma.
Martedì ci eravamo divertiti a provare a fare delle brioche. Si faceva l'impasto, lo si riempiva di marmellata o cioccolata e si infornavano.
Avevo scoperto il modo di renderle più belle alternando l'impasto semplice a quello al cacao. A Co non sembrava importare, mangiava tutto quello che avanzava senza fare caso al gusto, ma Sarino aveva apprezzato la trovata.

Louis alla fine l'aveva avuta vinta, ora indossavo una divisa. Dato che ormai ero stata classificata da loro con il colore rosso mi ero ritrovata a dover indossare perennemente il grembiule da lavoro che Sarino mi aveva comprato, con l'aggiunta però della scritta "Outland" ricamata sul davanti con filo dorato.

Il signor Adam era passato un giorno per ammirare il nostro, da lui prematuramente definito, "fallimento". Penso fosse rimasto sorpreso dal normale stato del locale, perché da allora smise di lamentarsi quando Sarino andava a fare compere nel suo negozio.

Scesi in cantina, come facevo tutte le mattine prima di aprire il ristorante. Dovevamo tenere aperto tutto il giorno, non avremmo guadagnato niente con il locale chiuso e le poche persone che entravano a chiedere indicazioni stradali.

La precisa ragione che mi spingeva a recarmi in quella buia stanza era controllare se la mia amica stava ancora in vita.
Sentii per l'ennesima volta la solita vecchia canzone rimbombare per i muri di cemento. Come quel disco non si fosse ancora consumato e rotto, dopo tutte le volte che era stato fatto girare sullo strumento, era per me un mistero.

«Sei viva?», domandai.
«Tu?», chiese la ragazza nel buio. «Ho fame.»

«Non dovresti mangiare troppo. Fa male.», la rimproverai.
«Tu non dovresti mangiare? Fa male non farlo.»

«Io mangio.», le feci presente.

«Non abbastanza da quello che dice il vecchio.»

Accesi la luce.
Co nascose la testa sotto alla coperta. Le avevo portato anche un cuscino per dormire più comodamente, ma sembrava solo infastidirla di più e lo usava come antistress mordendolo quando aveva fame. Al momento doveva trovarsi sotto la coperta insieme a lei, perché non riuscivo a vederlo in giro.

La quantità di oggetti nella stanza era diminuita grazie all'accurata selezione che avevo costretto Sarino a fare, ma nonostante questo la stanza sembrava piena come prima. Era probabile che molte cose se le fosse tenute abilmente nascoste e riposte in fine al loro solito posto. Un esempio era il piccolo orologio da taschino in argento con il quadrante di cristallo rotto. Quello avevo la certezza di averglielo visto infilare nel sacco delle cose da buttare.
Fui tentata di buttarglielo io stessa, ma se non si trovava ora nell'immondizia un motivo doveva esserci. Forse ci aveva ripensato perché era un ricordo importante, o progettava di riaggiustarlo in futuro.

«Capirai l'importanza di avere dei ricordi quando sarai più vecchia e vorrai tornare in dietro.», aveva detto quando lo avevo supplicato di buttare almeno uno dei suoi vecchi sigari.

Non mi serviva avere una certa età per desiderare di voler tornare nel passato. Non possedevo oggetti che mi ricordassero del mio tempo trascorso con la regina Diana. Allora ero piccola e non pensavo che lei avrebbe perso la vita in così presto. Avevo sbagliato a credere che le persone fossero immortali solo perché la morte sembrava qualcosa di distante.

«Hai finito?»

La voce di Co mi riportò al presente. Non c'era modo per me di tornare a quei giorni, quindi non aveva senso pensarci.

«Vado ad aprire.», dissi prendendo a risalire le scale.

«Dì al vecchio di portarmi la colazione quando si sveglia.»

Mi avvicinai alla porta d'ingresso e voltai il cartellino così da segnare l'apertura del ristorante. Avevo da poco raggiunto il bancone per dare l'acqua alla piantina nuova, quando sentii il campanello suonare. Sarino aveva insistito per farlo mettere alla porta, così da sapere quando i clienti arrivavano.

Entrò la ragazza che da qualche giorno veniva la mattina. Probabilmente abitava vicino e, a giudicare dalla sua uniforme, prima di andare a scuola, si fermava a fare una rapida colazione.
Sedette al tavolino vicino alla finestra e si mise ad attendere che mi avvicinassi a lei.

In verità il locale non aveva un menù per la colazione, era un ristorante non un bar, ma quella ragazza aveva deciso che data la nostra apertura alle otto del mattino noi fornissimo anche quel tipo di servizio. Non volevamo deluderla e perdere un cliente, quindi nessuno si era ancora azzardato a dirle nulla.

«Cosa vuole ordinare?», domandai con il taccuino delle ordinazioni in mano.

«Ce l'avrebbe del tè nero?», disse con voce tipica da persona sofisticata.

Lo avevamo, ma solo perché l'aveva richiesto sin dalla prima volta che aveva messo piede nel locale e per non deluderla avevo fatto una corsa al supermercato mentre l'acqua si scaldava sul fuoco.

«Certo.»

«Mi porti anche un cornetto vuoto.», aggiunse.

Anche questo era fatto su misura per lei. Il resto delle brioche ripiene che nessuno si mangiava finiva nella bocca di Co.
Sarebbe stato più conveniente per noi non prepararne tante, ma per nostra sfortuna Louis nelle sue giornate no, quando litigava pesantemente con la madre, amava rimpinzarsi di dolci. Era imprevedibile, poteva presentarsi da noi ad ogni ora del giorno, e una volta anche nel cuore della notte, e liberarci di quelli che lui si ostinava a chiamare croissant.

«Vuole altro?», chiesi fingendo di appuntare la stessa ordinazione che ormai osservavo da cinque giorni.

«No, grazie. Sono a posto così.»

Mi allontanai in cucina lasciando da sola la ragazza che, come al solito, tirò fuori il suo taccuino e si mise a scrivere.
Tempo dieci minuti e le avevo già portato al tavolo l'ordinazione.

«La ringrazio.»

«Vuole dello zucchero?», domandai per cortesia, pur sapendo già la risposta.

«No, il tè mi piace amaro. Dovrebbe averlo capito ora, non crede?»

La risposta mi spiazzò perché non credevo possibile che quella ragazza educata potesse pronunciare parole diverse da quelle che solitamente mi riferiva.

«I gusti cambiano con il tempo.», le risposi prima di allontanarmi verso il bancone.

Per un attimo sentii il suo sguardo attraverso i neri occhiali da sole che indossava posarsi su di me, ma durò poco perché il rumore della scrittura riprese.

Indossava, come già accennato, una divisa scolastica. La parte superiore era una leggera giacca bianca rifinita con sofisticati ricami verdi, che sudavo solo a guardare, e sotto una gonna bianca che arrivava al ginocchio.
I lunghi capelli neri erano tenuti all'ombra da un grosso cappello bianco. Non era abbronzata, come tutte le altre ragazze dall'aria snob, ma se per questo nessuna ragazza della sua età sarebbe mai entrata in un locale come quello. Non quando in estate nella piazza principale aprivano i migliori ristoranti e boutique con vista sull'Arco della Ricchezza.

Ora che ci pensavo era strano che una ragazza in estate vestisse con l'uniforme della scuola, chiusa in questo periodo. Persino nel caso stesse prendendo lezioni private non avrebbe avuto alcun senso indossarla.
Forse, per quanto calda da indossare, la trovava semplicemente comoda.

Si alzò dal suo posto una volta finita la colazione e mi venne incontro alla cassa. Anche quella specie di salvadanaio era stato messo lì da poco, prima i soldi Sarino li scambiava a mano senza rilasciare uno scontrino. Con il mio arrivo lo avevo invece avvertito che lavorare in nero non era una cosa molto legale e convinto a prendere quell'aggeggio.

«Sono due conte e una contessa.»

Mentre la ragazza mi passava in mano le monetine il suo comunicatore prese a squillare con un'allegra musichetta. Imbarazzata si mise a frugare nella borsa appoggiando sul bancone gli oggetti che le capitavano davanti. Tirò fuori il taccuino, una penna, una matita, la gomma, un paio di chiavi con un morbido pon-pon verde attaccato, un grosso lucidalabbra rosa e dei fazzolettini, prima di trovarlo.

«Signora madre, a cosa devo questa chiamata?», domandò seria mentre cercava di infilare di nuovo tutto in borsa.

«Ehm... Salve», salutò un uomo entrando proprio in quel momento nel ristorante.

«Ecco a lei.», dissi porgendo lo scontrino alla ragazza per recarmi dal nuovo cliente.

«Saprebbe indicarmi dove si trova l'albergo Hotel?», domandò l'uomo.

«Certamente. Lo trovate proprio qui a fianco, deve solo uscire e voltare la testa alla sua destra.», dissi tra i denti.

«La ringrazio.», bofonchiò aprendo la porta e uscendo insieme alla ragazza.

Tornai sconsolata alla mia postazione. Sarino era appena sceso e aveva assistito alla scena mentre portava in cucina i piattini sporchi e la tazzina del tè.

«È tuo quello?», domandò indicando qualcosa dall'alto lato del bancone.

Mi sporsi per capire di cosa si trattasse e vidi il taccuino della ragazza abbandonato lì a terra. Misi una mano nella grossa tasca del grembiule, scoprendo che il mio libricino per le ordinazioni non si trovava al suo posto.

Corsi fuori dal negozio stringendo il taccuino, ma sullo stradone non c'era più traccia né di lei né del signore. Sarei potuta entrare nell'albergo per chiedere all'uomo se sapeva da che parte si era diretta la ragazza, ma l'idea di rivedere Lolly Gloss non mi entusiasmava.

«Tornerà domani mattina. Tienilo tu per ora.», mi tranquillizzò l'anziano.

«Magari ha scritto un indirizzo all'interno, il numero del comunicatore o un nome con cui poterla rintracciare.», dissi aprendo il taccuino in cerca di qualcosa.

Era un piccolo libricino color carta da zucchero con all'interno fogli a righe. La prima pagina era semplicemente bianca, la seconda aveva scritto sopra con una perfetta grafia le parole "Diario investigativo di Nihil Descartes".

«Cos'è?», domandò Sarino.
«Il suo diario.»

«Cosa dice?»
«Non andrebbe letto il diario di una persona senza il suo consenso.», osservai.

«Solo una sbirciatina, non lo verrà mai a sapere.», mi pregò lui.

«Hai ragione verrà a riprenderselo da sola domattina. Per ora lo tengo io al sicuro.», sentenziai riponendolo nella tasca del grembiule rosso.

Mantenni la promessa fatta solo fino a sera.
Chiusi il locale alle dieci dato che nessuno sembrava volersi presentare e Louis era già passato il pomeriggio, ordinando, con disappunto di Co, tutti i biscotti con gocce di cioccolato che avevo fatto il giorno prima.
Mi ritirai poi sul tetto. La sera mi piaceva stare là sopra a guardare il tramonto o, in questo caso, la luna.

Inizialmente mi limitai a tenere in mano il quadernino. Ne sentivo la consistenza, era ruvido al tatto, e facevo scorrere le dita tra le pagine senza guardarle.
Provai anche ad annusarlo dato che non sapevo cosa farci, sapeva di cannella.

Estrassi in fine la torcia e guardai l'angolo superiore delle pagine leggendo vaghe parole mentre le facevo scorrere velocemente. Mi fermai quando vidi qualcosa che non erano parole: Un pentagramma musicale.

Una volta, tanto tempo fa, avevo preso lezioni di solfeggio, e da quel poco di conoscenza basica che mi rimaneva della lettura delle note provai a leggere la musica.
Sembrava essere una melodia tranquilla, dalle note non troppo basse, ma neanche eccessivamente alte. Quelle che più si ripetevano sul foglio erano il Fa e il La.

Non sapevo a che strumento musicale fosse riferito quello spartito, cercai quindi se ci fosse scritto da qualche parte sulla pagina.
L'unica parola che riuscivo a leggere sul foglio era il titolo: Teresa.

Per qualche secondo rimasi immobile a fissare quel nome scritto in piccolo sul margine superiore della pagina.
Poteva trattarsi di una semplice coincidenza. La ragazza conosceva qualcuno con il mio stesso nome, o semplicemente l'aveva letto in qualche vecchio libro polveroso della libreria personale del padre.
Il fatto che da quasi una settimana frequentasse regolarmente il locale non significava niente.

Tornai alla seconda pagina del taccuino e rilessi il titolo: Diario investigativo di Nihil Descartes.
Su cosa stava investigando la ragazza?

Voltai pagina. Un pezzo sbiadito di giornale era stato plastificato e bloccato al foglio con una graffetta viola.

21 Giugno 1790.

NOTIZIA DEL GIORNO

La famiglia reale adotta un orfano abbandonato davanti alla loro porta. Si pensa che le origini del piccolo appartengano a una famiglia residente a Foreverland, terra distrutta ormai da più di un mese dalla grande catastrofe dell'Ombra. La magnanima Regina Diana gli assegna il nome di Teresa, con significato: colei che è molto amabile, o colei che è nata in estate.

Ecco l'unico ricordo materiale che mi legava ancora alla regina, il mio nome. Mai avrei dimenticato il giorno in cui la donna mi aveva rivelato il vero motivo di quella scelta.

«Il nome Teresa ti ricorderà ogni giorno di dover essere amabile con gli altri, e terrà sempre sveglio nella tua memoria il ricordo del primo giorno d'estate in cui ti abbiamo trovato. Ma devi sapere che prima di tutti questi significati, Teresa, vuol dire colei che fa la cacciatrice. Con questo ti assegno il compito di essere coraggiosa e proteggere con tutta la forza che hai il regno dall'oscurità dell'Ombra che ti ha portato qui.»

Non era esattamente una cosa che tutti direbbero a una bambina che aveva appena compiuto gli undici anni, ma nel suo ultimo periodo Diana aveva cominciato a delirare.
Qualche mese dopo sarebbe morta della malattia che la costringeva a letto.

Spostai lo sguardo sulla pagina accanto nel taccuino, anche lì era stato attaccato un pezzo di giornale.
Una foto raffigurante il mio volto prima della fuga da palazzo era incorniciata dalla scritta "Ricercato vivo o morto". La taglia era di venti principessa, piccole moneta d'argento con il bordo d'oro.

La ragazza non frequentava il locale per una coincidenza. Non sapevo come, ma era riuscita a collegare quell'ordinata ragazza dai lunghi capelli e il leggero trucco messo per la foto, all'essere che ero diventata adesso.

Non tutto però era perduto. Era probabile che non avesse ancora la conferma delle sue tesi. Lo dimostrava il fatto che finora non aveva chiamato delle guardie a catturarmi.
Tutto ciò che mi rimaneva da fare ora era fingere di non sapere niente e tenerla d'occhio per cercare di sviare i suoi sospetti.

In fondo quanto poteva essere difficile?




Commentate e ditemi se vi è piaciuto. In caso contrario fatemi pure notare dove ho fatto errori o come potrei migliorare questo capitolo.

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