16. Scottatura tagliente
Cucinare non era mai stata la mia passione. La farina si infilava sotto le unghie, la carne cruda era molliccia e mi dava il voltastomaco, il guscio delle uova è sempre stato per me troppo duro da rompere.
Avevo scelto io di lavorare in quel posto. Sarei potuta rimanere a palazzo e sopportare a denti stretti i tentati omicidi o rimanere in strada a vivere tra i cassonetti finché un giorno uno spazzino troppo distratto mi avesse buttato nel suo macchinario e schiacciato, ma no. Avrei anche potuto rimanere a lavorare alla fabbrica degli arcobaleni, lì prendevano chiunque fosse disposto a entrare nei condotti dell'aria per ripulirli dalle sostanze nocive degli arcobaleni. Detta in questo modo sembrava una cosa semplice, per questo una volta ci avevo provato.
La paga è bassa, due duca al giorno, ma le persone addette a questo compito sono giovani abitanti di Inkland o umani con un estremo bisogno di soldi.
Fino ad allora non mi ero mai posta la domanda del perché in così tanti rifiutassero quel lavoro.
Non è qualcosa che mi piace ricordare, probabilmente se qualcuno mi avesse chiesto se ero mai stata in quel luogo avrei negato, non per cattiveria, ma perché la mia mente non voleva accettare di aver partecipato a una cosa del genere.
Prima di entrare ci fecero mettere delle tute nere con una torcia in fronte. La mia era la taglia più grande, ma calzava comunque stretta. I condotti dell'aria erano troppo piccoli per permettere l'entrata ad adulti, ma in caso di mancanza di personale lasciavano a chiunque la possibilità di provare il lavoro. In tre entrammo dallo stesso condotto che si diramava poi in altre vie della fabbrica. Ci furono dati degli strumenti in metallo per raschiare via le sostanze colorate dai grigi tubi e un limite di tempo di venti minuti all'interno.
Fu un compito faticoso quello di grattare via le sostanze, erano dure e si attaccavano con forza al metallo. Dato che si trattava della prima volta per me sobbalzai quando sentii la campanella che segnava la fine del tempo a disposizione. Sentii gli altri due ragazzi trascinarsi rapidamente nei condotti verso l'uscita e li imitai immediatamente lasciando a terra lo strumento. Gli addetti richiusero il portellone non appena fummo all'esterno. Aspettammo per cinque minuti lì davanti, poi ci diedero il via e tornammo al lavoro.
Non appena toccai il condotto d'aria mi accorsi che la temperatura all'interno era cambiata. Chiesi spiegazione all'uomo che ci sorvegliava e lui in risposta mi esortò ad entrare.
L'aria era molto più calda del precedente viaggio, ma per fortuna il metallo non scottava. Raggiunsi la mia postazione, ma nel punto in cui avevo abbandonato lo strumento c'era solo una scura poltiglia fumante.
La seconda volta che sentii la campanella mi recai in tutta fretta verso l'uscita e mi ritirai da quel lavoro senza neanche chiedere i soldi.
Non sono claustrofobica, ma dopo quell'esperienza non sopporto di stare per troppo tempo nei piccoli posti chiusi.
Misi l'arrosto in forno. Avevo seguito con diligenza la ricetta e sperai fosse venuto bene.
Ormai passavo le mie giornate in cucina con il ricettario di Sarino. L'uomo andava spesso fuori a fare la spesa, ma il resto del tempo lo trascorreva con me. Co si muoveva dalla cantina solo la notte per andare in bagno, e il giorno ascoltava la musica con il giradischi. Sembrava piacerle quello strumento almeno quanto il cibo, ma le canzoni a disposizione non erano poi molte.
Mancava poco al grande giorno della riapertura, circa quattro ore a mezzanotte. Incredibile come diciannove giorni fossero passati tanto in fretta. Avevo trascorso quasi tre settimane a cucinare per capire cosa riuscivo a fare e cosa invece era meglio eliminare dal menù. Parlando di quest'ultimo, ancora non sapevamo bene cosa avrebbe dovuto comprendere. Il ristorante aveva un suo menù, che Sarino utilizzava da anni, ma bisognava apportare alcune modifiche per renderlo comprensibile data la scrittura dell'anziano le sue scelte culinarie.
«Cosa ne dici di questo?», domandò mostrandomi la cartellina che teneva in mano.
La prima pagina era per gli antipasti e i primi piatti, nel retro i secondi e i contorni, e nell'ultima erano elencati i dolci e le bevande.
Molto di quel cibo andava cucinato sul momento. In cantina tenevamo le bottiglie d'acqua, ma i clienti non potevano certo tirare avanti delle ore solo con quella.
«Non è un po' grande per noi? Non verrà nessuno a mangiare, tutto questo cibo andrà a male.», feci notare.
«Lo prenderemo surgelato.», rispose l'uomo.
«Le persone non vanno al ristorante per mangiare qualcosa che possono scaldare comodamente a casa.»
«Certo, qui glielo scaldiamo noi.», continuò lui.
«Non penso vogliano questo.»
«Cerchiamo di superare il primo giorno per ora, penseremo poi a cosa fare.»
«Adesso sono stanca. Vado a letto.», dissi con uno sbadiglio.
«E la cena?»
«Portane un po' giù a Co.», risposi mentre salivo le scale verso la mia stanza.
Potevo ammettere senza ombra di dubbio che quella era stato il mercoledì più impegnativo della mia vita, ma mai quanto immaginavo lo sarebbe stato il giorno successivo.
Indossai il mio pigiama e andai in bagno a lavarmi i denti. Non avevo davvero bisogno farlo, ma mi infastidiva l'idea di non lavarli quando ne avevo la possibilità.
Sciacquai le mani sotto il getto d'acqua e mi accorsi di avere le unghie del pollice e l'indice destro completamente rovinate. Non avevo più prestato attenzione alla mia abitudine di mordermi le unghie, e ora mi trovavo costretta ad accorciarle con una forbicina.
Non vedevo l'ora infilarmi sotto alle coperte, così mi diressi di nuovo verso la camera. Alzai lo sguardo al soffitto del corridoio e per la prima volta notai una sagoma rettangolare tra le assi.
Mi fermai ad osservarla, sembrava essere una botola.
Nello studio di Sarino c'era una scala a pioli. Andai a prenderla e con essa provai a spingere la botola fino a farla aprire. Mi arrampicai su di essa e sbucai con la testa all'esterno della casa. Vivevo in quella casa da quasi un mese e prima d'ora non avevo mai prestato attenzione al tetto dell'abitazione.
Uscii sul terrazzo a guardare il cielo. Come al solito c'era calore nell'aria e il sole faticava a calare.
Da un lato del ristorante c'era l'Hotel, un palazzo molto alto, e dall'altro un grande negozio di vestiti. Tutto di Bestland era grosso, tutto tranne quel locale, Outland.
Osservai il gigantesco grattacielo nero, la Die House, riuscivo a vederlo anche da lì. Il palazzo reale si trovava invece molto più lontano e, anche se fosse stato vicino, i palazzi lo avrebbero coperto.
Abbassai lo sguardo al retro del negozio per vedere Dlos. Dormiva seduto sulla strada deserta, ancora legato al carretto.
Non sapevo se gli animali meccanici dovevano mangiare, non avevo mai visto Sarino portargli del cibo. Non sapevo neanche se potevano effettivamente dormire. Per quello che ne sapevo l'asino stava solo riposando gli occhi in una posizione più comoda. Chissà se almeno lui riusciva a sognare.
«Va a fuoco!», gridò Sarino.
«Come ha fatto a bruciare il gelato!», esclamai presa dal panico.
«Non lo so!»
Era da poco passato mezzogiorno e come previsto non si era presentato nessuno, o quasi.
Giusy e Louis avevano deciso di farci visita, probabilmente grazie alla telefonata di Sarino che li supplicava di venire. Era stato un gesto gentile da parte loro presentarsi al locale. Adam e suo fratello ci avevano invece riattaccato il ricevitore in faccia. Per un momento avevo pure temuto che l'uomo potesse chiamare Gitan per invitarlo a mangiare, ma per fortuna non l'aveva fatto.
Inizialmente sembrava che tutto stesse andando per il verso giusto. Li avevo fatti entrare, illustrato l'unica copia buona del menù che per adesso possedevamo, e avevo preso le ordinazioni.
Non era stato un compito tanto difficile, così mi ero rilassata, fin troppo.
«Hai portato l'acqua in tavola?», mi aveva domandato Sarino dopo una decina di minuti.
Ovviamente l'avevo dimenticato. Rimediai portando anche il pane e scusandomi per l'accaduto.
A quel punto sarei dovuta tornare in cucina ad aiutare l'uomo, ma il figlio della signora Additif mi bloccò in una lunga conversazione sulle divise. Louis sosteneva che tutti i posti per bene dovessero fornire ai lavoratori delle divise. Sua madre, forse per cambiare argomento, prese a zittirlo lamentandosi dei vestiti che indossava che, a suo parere, erano troppo blu.
Presto nel locale si poterono udire gli insulti velati che madre e figlio si urlavano a vicenda. Invano cercai di allontanarmi dal tavolo, Giusy mi afferrò la maglietta per controllare se mi andasse davvero bene e Louis prese a studiare con disappunto i miei stivali, come se li vedesse ora per la prima volta.
Dopo una decina di minuti, non sapendo cosa fare, iniziarono con i discorsi invadenti.
«Da dove hai detto di venire?»
«Non l'ho detto.», risposi.
«Devi essere contenta che i tuoi genitori ti lascino stare qui con tuo nonno. Dove sono loro?», domandò Giusy.
«Non lo so.»
«Capisco, si sono presi una vacanza.»
«Molto lunga.», commentai.
«Res! Puoi venire?», aveva gridato a quel punto Sarino dalla cucina.
«Arrivo.»
Non avrei mai pensato di tornare a vedere la cucina nello stato in cui l'avevo trovata la prima volta.
L'anziano aveva provato a fare del sugo frullando i pomodori, dimenticandosi però di chiudere il macchinario. L'acqua con la pasta stava bollendo, sul punto di fuoriuscire dalla pentola. La carne stava bruciando nella padella, dimenticata al suo destino.
«Mi aiuteresti con quella pentola lì?», disse l'uomo intento a sbucciare le patate sul tavolo.
«Cos'hai fatto?!»
Capire come risolvere quella situazione non fu immediato. Per prima cosa spensi le pentole, scolai l'acqua e salvai ciò che rimaneva del sugo per la pasta. Portai il tutto in tavola con il formaggio per non essere costretta a fare più viaggi.
La carne, in condizioni pessime, fu messa da parte per il pranzo di Co. Cambiai padella e ne misi dell'altra sul fuoco.
Tolsi dalle mani di Sarino le patate mal sbucciate e gli pregai di controllare i fornelli mentre le sistemavo.
Nella fretta di pelare mi tagliai con il coltello. Lasciai cadere sul tavolo la patata che stringevo in mano e misi in bocca il dito ferito. Non fermai però il mio lavoro. Con la mano libera iniziai a fare a pezzi i vegetali sul tagliere di legno.
«Mettile in una pentola sul fuoco.», dissi togliendo la mano dalla bocca il tempo sufficiente per dire la frase.
Ero poi andata in bagno per passare la mano sotto l'acqua fredda sperando di far passare il dolore.
Avevo aperto l'armadietto nero in cerca dei cerotti e da esso mi erano piovute addosso una ventina di bustine di zucchero.
Dal pollice riprese a mostrarsi il sangue. Mi ero ritrovata a pensare a come quel liquido vitale continuasse a voler uscire da me, non era così che doveva andare. Ero fragile, un essere debole.
«Res!», mi chiamò Sarino.
Aveva bruciato il gelato.
«Come hai fatto a bruciare il gelato!»
«Non lo so!», mi urlò contro.
L'uomo aveva provato a cuocere il gelato con la fiamma ossidrica riuscendo a non farlo sciogliere, andando contro le leggi della fisica. Non capivo le motivazioni di questa sua azione, ma di Sarino non capivo molte cose.
«Ok, mantieni ma calma. La carne è pronta?», dissi cercando di salvare la situazione.
«Sì»
«Bene, aggiungi le patate e portala al tavolo. Qui ci penso io.», gli ordinai.
Nei giorni precedenti, quando mi insegnava a preparare cibi vari, si era sempre dimostrato capace nel suo lavoro, tralasciando alcuni errori che lo rendevano umano. Probabilmente l'idea di una nuova apertura stava destabilizzato l'abilità di Sarino di saper cucinare, o forse era il fatto di dover fare una buona impressione con i suoi amici. Sta di fatto che oggi il ruolo di capo cucina spettava a me.
Presi due ciotole per il gelato. Aspettavo il ritorno di Sarino con i piatti sporchi, ma dando un'occhiata alla sala vidi che si era seduto al tavolo a chiacchierare. Si era sfilato il grembiule sporco, lasciandolo su una sedia lì vicino, ed era intento a ripulirsi gli occhiali con un tovagliolino.
Fui quindi costretta a dover portare io il dolce e ritirare i piatti.
«Senza di lei non saprei proprio cosa fare.», mi elogiò Sarino una volta che fui vicina al tavolo.
«Vorrei avere anch'io una nipote così brava, ma con questo qui non c'è speranza.», disse l'anziana donna con aria rassegnata.
«Perché non dici qualcosa anche di Antoine allora?!», esclamò Louis furioso.
«Non tirare in mezzo tuo fratello!», urlò lei.
«Perché? Parli tanto male di me, ma anche lui non era un santo, e lo sai!»
«Lui si è sposato almeno!»
«Con una donna come quella. Pensi l'abbia fatto per amore? Voleva solo i suoi soldi.», continuò alzando il tono di voce.
«Non osare parlare male di lui!»
«Altrimenti?! Mi manderai a lavorare alla Die House proprio come lui? Ti renderei orgogliosa se lo facessi, madre?!»
«Non vale la pena litigare in questo modo per una così stupida ragione. Parliamo del pranzo invece, vi è piaciuto?», domandò Sarino.
I due si guardarono intensamente negli occhi per alcuni secondi, come se non volessero davvero abbandonare la discussione. Louis stava per riaprire la bocca, e qualcosa mi diceva che non aveva intenzione di parlare di cucina.
«Avete ancora il dolce da mangiare. Non volete assaggiarlo?», intervenni prima che ricominciassero a discutere.
«Certo, cara.», rispose con tono dolce la signora Additif distogliendo finalmente lo sguardo dal figlio.
Tornai in cucina e iniziai a pulire il casino. Misi le pentole sporche e le posate a bagno nel lavandino con il detersivo. Presi uno straccio e un po' alla volta cercai di togliere i pezzi di pomodoro dal muro e i mobili.
«Grazie.»
«Andavano fermati in qualche modo.», risposi all'anziano.
«No, intendo, grazie per tutto.»
«A chiunque può capitare di andare nel panico quando si fa qualcosa di importante. Io sono qui per aiutarti.», spiegai tranquillamente.
«Grazie per non essertene ancora andata.», disse l'uomo.
Mi voltai verso Sarino. Era entrato nella stanza, spostava in piedi a qualche passo dalla porta.
Forse quella era effettivamente la prima volta che lo vedevo serio. Non aveva un'espressione felice, ma neanche una triste, non era arrabbiato, non sembrava provare paura. Ai miei occhi aveva un viso indecifrabile.
«Perché dovrei? Non posso certo abbandonarti. Ormai vivo qui con te e Co.»
«Dovremmo portarle da mangiare. Se vuoi vado io», osservò prendendo in mano il piatto con la carne bruciacchiata.
«Chiedile se vuole anche del gelato.», raccomandai.
«Lo farò.»
☆Commentate e ditemi se vi è piaciuto. In caso contrario fatemi pure notare dove ho fatto errori o come potrei migliorare questo capitolo.☆
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