12. Il Magnifico
Le porte si aprirono mostrando un nuovo piano, e la tremenda musichetta che era partita durante il tragitto cessò. Mi guardai intorno, si trattava del ristorante. Alcune persone stavano già sedute ai tavoli ordinando aperitivi e antipasti nell'attesa del momento della cena.
Quello non era il piano che cercavo. Feci per premere un altro pulsante, ma con sorpresa mi resi conto che a eccezione di esso gli altri erano dei primi due piani.
Rimasi immobile per qualche secondo con lo sguardo fisso sul quadrante dei tasti. Probabilmente la signora Additif aveva fatto visita in questo luogo molto tempo fa, ciò non impediva al proprietario di cambiare la disposizione dei piani o anche solo dei mobili.
«Cosa ci fai lì impalato?»
Distolsi lo sguardo dall'ascensore e incrociai gli occhi con quelli della ragazza che avevo di fronte. Aveva due paia di occhi blu elettrico e una lunga chioma di capelli arancioni. Era alta e magra nel suo corto abito bianco panna. Sul petto la spilla dorata scintillava con il sei di picche.
«Io...», cercai di giustificarmi.
«Dove stai andando?», insistette lei guardandomi con sospetto.
«M-Mi mandano a controllare l'archivio.»
Rimase in silenzio per qualche secondo continuando a studiarmi con gli occhi socchiusi.
«Beh, non penso sia qui.», osservò in fine.
«Già.»
«Di solito le persone in divisa che arrivano su questo piano vanno in cucina e ci stanno per molto. Forse lì c'è un modo per raggiungere quello che cerchi.», aggiunse vedendomi in difficoltà.
«G-grazie», risposi velocemente, facendo per andare verso il rumore di pentole e fornelli.
«Se lavori qui dovresti saperle queste cose, no?»
Mi bloccai. Se avesse scoperto che mi ero introdotta in quel luogo per sottrarre informazioni al proprietario avrebbe subito chiamato le guardie di quel piano.
«Sono nuovo.», dissi con tranquillità.
«D'accordo. Non che mi importi davvero se lavori qui o meno.», aggiunse in fretta. «È solo che non mi aspettavo mi avresti rivolto la parola, di solito quelli con il vostro grado ci ignorano.»
«Il mio grado?»
«Sì, i numeri due.», continuò lei indicando la mia spilletta. «Ne vedo pochi di voi qui in giro, e ogni volta rivolgete la parola solo ai rango sette o otto.»
Ero confusa, ma non volevo darlo troppo a vedere. Quella ragazza sembrava essere il tipo di persona brava a osservare, non mi conveniva averci troppo a che fare.
«Adesso devo proprio andare.»
«Vai, nessuno ti sta fermando.», mi salutò la ragazza entrando nell'ascensore. «Begli stivali, comunque.», aggiunse poi quando le porte stavano per chiudersi.
I miei occhi scesero sui grossi stivali sporchi che indossavo. Come nessuno se ne fosse accorto fino a quel momento rimane ancora un mistero per me.
Tornai alla mia missione. Dovevo trovare il prima possibile l'archivio, altrimenti per Sarino sarebbero stati guai seri.
Entrai nelle cucine. Molti cuochi dall'aspetto sfinito cucinavano senza sosta. Alcuni camerieri si aggiravano con espressione stanca ed esaurita tra i banconi della stanza aspettando che le pietanze venissero completate.
Non era ancora neanche iniziato il servizio serale che già il capo cuoco sembrava preso da una crisi di nervi e punzecchiava di critiche i suoi sottoposti.
«Tu!», sbraitò quando richiusi la porta della stanza. «Muoviti a levarti di torno che qui stiamo lavorando.»
«C-Certo», balbettai.
Superai il piccolo corridoio che divideva in due la cucina e raggiunsi un altro ascensore.
Osservai i numeri sui tasti del quadrante: partivano dal tre e arrivavano all'otto, anche se era presente il numero zero.
Esitai prima di scegliere che pulsante premere. Sicuramente nel piano sotto l'edificio era probabile si trovasse una zona non accessibile al pubblico. Il problema era capire se si trattava dell'archivio o meno.
«Fammi posto, salgo anch'io.», disse una donna in divisa entrando nell'ascensore. «Tu dove devi andare?»
«Mi mandano a controllare l'archivio.», risposi in modo quasi meccanico.
«Se non ti dispiace allora io dovrei scendere prima.», sentenziò premendo il pulsante del settimo piano.
L'ascensore si richiuse e prese a salire, questa volta con un imbarazzante silenzio.
Con la coda dell'occhio osservai il mio compagno di viaggio. Era una grossa donnona dalla carnagione scura e le treccine. Sul petto portava la stessa spilla con i gradi delle guardie e i buttafuori dell'edificio: il tre di quadri.
L'ascensore arrivò rapidamente a destinazione e la donna scese dirigendosi verso la macchinetta del caffè che c'era su quel piano.
Io non dovetti fare altro se non usare la logica e premere il bottone successivo.
Mi ritrovai così davanti a una grossa stanza piena di quadri e statue dall'aria importante. I pavimenti bianchi sembravano molto puliti, proprio come la piccola scrivania con la macchina da scrivere.
Entrando fui sollevata di non trovare nessuno, lo fui un po' meno quando scoprii che l'archivio si trovava al piano superiore. Lo potevo vedere dal punto in cui ero, sembrava parecchio grande. Il problema era che la scalinata per arrivarci al momento non sembrava essere raggiungibile.
Osservai la scala per una piccola metà sospesa nel vuoto della stanza, il resto era probabilmente andato perduto durante i lavori di costruzione o in attesa di una riparazione.
Per quanto la mia altezza mi permettesse di raggiungere il barattolo di biscotti nello scaffale più alto delle cucine reali, in questo momento non poteva servire a molto contro la grandezza che mi separava dalla scala.
L'unica effettiva opzione che avevo era prendere l'ascensore dorato che stava sul muro al centro di quel piano.
Dirigendomi verso esso passai davanti un grosso quadro che mi attirò. Non ero mai stata un'amante dell'arte intesa come materia da studiare, ma apprezzavo i sentimenti che gli autori riponevano all'interno delle proprie opere.
Quel dipinto rappresentava un uomo di spalle che osservava il mare di nebbia sotto di lui. Dava un forte senso di vastità e grandezza. Riuscivo quasi a sentire l'aria fredda passare tra i capelli nonostante il caldo estivo che c'era al di fuori del palazzo. Probabilmente uno studioso sarebbe stato interessato a esso per significati profondi, ma la verità era che io avevo alzato gli occhi su quell'opera solo perché mi piaceva il colore del cielo.
Tornai sulla mia strada, e per la prima volta da quando ero entrata in quel palazzo dovetti attendere l'ascensore, che arrivò in pochi secondi mostrandomi riflessa nello specchio al suo interno.
Non avevo una bella faccia, ma d'altronde non l'avevo mai avuta. Le occhiaie si vedevano troppo ed ero molto pallida, anche a causa della giacca che mi faceva sudare.
L'ascensore era arrivato, ma le porte non sembravano volersi aprire. Per un attimo temetti che si fosse rotto anch'esso, e che non ci fosse alcun modo per raggiungere il piano superiore. Poi provai a tirarle infilando le dita nei buchi e vidi che si potevano aprire. Le richiusi una volta dentro.
C'era solo una leva sul lato della cabina e potevo tirarla in un'unica direzione. La spinsi verso l'alto, era dura e dovetti usare un po' di forza.
Il mezzo prese a muoversi, superò il piano dell'archivio come se niente fosse e, passando nel soffitto, raggiunse il decimo.
Esitando aprii le porte dell'ascensore e allungai alcuni passi all'interno di quell'immensa stanza. Tutto in quel luogo sembrava avere qualche dimensione di troppo.
Era un grande ufficio, con un'alta sedia nera dietro a una grossa scrivania elevata su un piedistallo. Anche solo a pensare al numeroso staff di quel luogo e al grande cilindro appeso all'appendiabiti si poteva capire come il proprietario del casinò fosse una figura molto influente. Il grande palazzo, le vantaggiose amicizie e le persone agiate che venivano a sfogare lì i loro vizi del denaro. Tutto questo dava a lui molto potere.
Gli ultimi raggi che annunciavano la fine del giorno passavano tra le due pesanti tende della gigantesca finestra colorando la stanza di ombre e limitandomi la vista.
La stanza aveva un lungo tappeto rosso che la attraversava salendo sulla rampa della scrivania. Alle pareti intravedevo librerie e quadri dall'aspetto serio.
Nel semi buio della nera stanza qualcuno parlò.
«Vieni avanti.»
Cercai con gli occhi chi aveva parlato e con sommo terrore mi accorsi che la voce proveniva dalla grande sedia. Per tutto il tempo della mia ispezione non avevo fatto caso alla figura che mi guardava con freddezza dal punto centrale della stanza.
«Cammina fino ad entrare nel quadrato.», continuò.
Senza discutere avanzai fino a quelle linee sul tappeto che avevano tutta l'aria di essere una botola, ma non ci misi piede per sicurezza. Mi trovavo quasi sotto alla scrivania, e solo ora notai la scritta "Die House" incisa sullo scuro legno.
«Cosa sei venuta a fare qui, Teresa Pietrazzurra?»
Rabbrividii nell'udire quel nome, e non solo per il fatto che fosse conosciuto a quell'uomo.
«Sono qui per liberare Sarino.», risposi a bassa voce, pentendomi subito di una risposta tanto avventata dopo gli avvertimenti che aveva dato Giusy.
L'uomo si accese un sigaro e continuò a osservarmi in silenzio per qualche attimo, poi premette un pulsante e le luci si accesero.
Strizzai gli occhi a causa dei faretti puntati ai miei lati, e per un po' non fui in grado di vedere niente.
«Ho faccende più importanti da sbrigare.»
Riaprii gli occhi. L'uomo aveva spostato i verdi occhi su un paio di fogli che teneva tra le mani. Era vestito di nero, al contrario dei suoi sottoposti. Tra i capelli bianchi sbucavano alcuni ciuffi viola accuratamente pettinati all'indietro con il resto dei fili.
«Non può cacciarmi via!», esclamai di getto.
«Non posso?», sottolineò lui.
Gli occhi dal luminoso colore si alzarono su di me, e poi oltre verso l'ascensore.
Sentii il tintinnare delle porte dorate mentre venivano aperte. Girandomi vidi entrare un uomo in divisa che trasportava nella stanza un carrellino pieno di cibo. L'uomo gli fece cenno di lasciarlo davanti a me e andarsene. Osservai la spilletta, ormai iniziava a interessarmi, era un quattro di quadri.
«Ho fatto portare qualcosa nel caso avessi fame. Non è mia intenzione lasciarti andare per ora, voglio prima farti una proposta.», proseguì. «Vieni a lavorare per me.»
«No.», risposi immediatamente ignorando l'invito a mangiare nonostante la fame.
«Se lo farai ti darò la protezione che ti serve per non venire trovata dai nobili.», continuò come se nulla fosse.
«No, grazie.», mi corressi.
«Avrai di nuovo parte del potere e della dignità che ti è stata tolta.»
Ignorai l'odore invitante del cibo e scossi la testa.
«Teresa Pietrazzurra...»
«Res. Mi chiamo Res.», lo interruppi. «Questo è il mio nome ora.»
«Res... Sai chi sono io?», domandò con freddezza.
«Lei è Gitan, detto Il Magnifico.», risposi esitante.
«Gitan Akeldamà. Sono il più grande impresario di Bestland, proprietario di innumerevoli palazzi. Ho amicizie con le persone più potenti del regno e dirigo la fabbrica di arcobaleni. Il re stesso teme ciò che un giorno potrei fare.», si interruppe alcuni secondi per recuperare la calma e proseguì. «E tu, una semplice ragazza senza più alcun potere, rifiuti una mia proposta?»
«Non sono una ragazza.»
«Sei ancora piccola per poter essere considerata donna.», commentò lui quasi esasperato.
«No, intendo... Non sono femmina.»
Gitan rimase senza niente da dire per quasi un intero minuto, rivolgendo l'attenzione sul sigaro acceso che si era dimenticato di fumare.
«Tu non sei femmina?», chiese in fine.
«No, cioè, non penso. Non lo so.», risposi iniziando a gesticolare e pentendomi subito di aver tirato fuori l'argomento. «Non sento di essere una ragazza, ma allo stesso tempo non mi sento neanche maschio. Penso di non essere niente, di essere "una cosa" e basta, ma mi infastidisce quando le persone non lo sanno e mi parlano come se fossi una ragazza.»
Rimasi anch'io in silenzio per un po', per poi aggiungere: «È complicato.»
«Quindi come dovrei rivolgermi a te?», disse Gitan senza scomporsi troppo.
«Beh... Non lo so. Le "cose" di solito non hanno un genere, ci si rivolge a loro con il femminile perché così ci è stato insegnato, quindi penso vada bene quello.», conclusi a fatica.
«Cercherò di non fare uso dei pronomi durante le nostre conversazioni.», concluse in questo modo quel discorso. «Ora, tornando a noi... Qual è il motivo che ti spinge a non volere il potere che ti sto offrendo?»
«Sono qui perché voglio salvare Sarino. Non importa a quanto ammonta il debito che ha con te, io lo riporterò a casa.»
«Intendi pagare al posto suo?», domandò Gitan.
«Se questo è ciò che devo fare per liberarlo, allora lo farò.», dissi con decisione.
«In questo caso ti conviene respirare adesso tutta l'aria che puoi, perché entro domani non sarai più in grado di farlo.»
☆Commentate e ditemi se vi è piaciuto. In caso contrario fatemi pure notare dove ho fatto errori o come potrei migliorare questo capitolo.☆
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