Thomas: deserto di Nenja
"And with those eyes, you could have set the sky on fire, but you chose to burn me instead"
-Anonimo
Corsero fino al deserto, i lupi si fermarono solo quando la sabbia sotto le loro zampe si sostituí al suolo umido della foresta. Jona tese la mano verso di lui e Thomas riacquistò immediatamente forma umana. Si avvicinò a Jacqueline e la strinse in un lungo abbraccio. Oto si preparò a tornare al suo villaggio, salutò gli artefici sbrigativamente per poi addentrarsi nella foresta. Jona ritrasformó Henry ed Elija che, un po' frastornati, si guardarono intorno.
"Grazie dell'aiuto, giovane Syan. Ringrazia tutto il tuo popolo" disse Henry salutando Oto con la mano.
"E' stato un bel viaggio Jona?" chiese l'artefice della terra. Lei alzò gli occhi al cielo e dei tenerissimi germogli comparvero ai suoi piedi.
"Oh, chiudi quel becco. Eri più simpatico quando ululavi e basta " rispose l'artefice dell'aria, non riuscendo a nascondere il sollievo per essere arrivati a Nenja sani e salvi . Un immenso mare di sabbia si estendeva davanti a loro, il sole stava per sorgere e i primi raggi di luce illuminavano il profilo delle dune.
"Mi dispiace di averti perso nella foresta, quando non ti ho trovata e ho visto che ti avevo persa mi sono sentito...Stai bene?" sussurrò l'artefice dell' acqua all'orecchio di Jacqueline dopo aver guardato l'ustione che le solcava la tempia.
"Va tutto bene" Thomas la guardò e le sorrise rassicurato nonostante lei desse ancora segni di essere molto provata.
"Ne sono felice" concluse.
"Dobbiamo ripartire, Nenja è ancora lontana, anche se siamo distanti dagli Zimeniani non significa che siamo al sicuro" esclamò Henry. Tutti gli risposero con uno sguardo stanco ma annuirono seri.
Il sole spuntò a oriente, illuminò tutto con le sue dita dorate facendo acquistare colore ad ogni cosa. Il gruppo si rimise in marcia, i piedi affondavano nella sabbia sottile procurando una piacevole sensazione. Ai piedi di Elija avevano smesso di crescere piante.
L'astro infuocato scaldò il deserto per tutto il mattino, il terreno divenne ustionante e l'aria si fece sempre più torrida. Thomas ricordò e rimpianse il gelo delle Terre Oltre il Fiume, l'unica che sembrava non soffrire troppo per il caldo era Jacqueline. Procedeva in testa al gruppo, l'ekèndal stretto in pugno e il Cerchio che ardeva sul capo. Il ragazzo pensò a quanto si stessero avvicinando ad Ahir Zimenia e s'incupì. Presto sarebbe venuto il momento di affrontare Neear a tu per tu. Quel fatto gli era sempre parso distante e inverosimile, solo in quel momento si accorse di quanto l'incontro fosse imminente e reale. Non avrebbe permesso ai suoi amici di rischiare, sapeva che essi credevano fermamente nella causa per cui lottavano e pensava che fossero dei guerrieri straordinari, ma non avrebbe sopportato di perdere uno di loro. Specialmente Jacqueline.
Gli venne in mente il sogno di poche notti prima: si trovava in una strana stanza color cielo con la fata Amanda, colei che gli aveva permesso di entrare ad Auriah attraverso il suo quadro. La donna bionda gli aveva chiesto: "Cosa farai quando giungerà l'ora?"
"L'ora di cosa?" aveva chiesto perplesso.
"Sai di cosa parlo. Come farai a dirlo a Jacqueline?" Amanda aveva serrato i denti e Thomas si era sentito molto confuso.
"Da quando l'hai vista ti sei scordato di come si distoglie lo sguardo" lo aveva rimproverato aspramente.
"Perchè l'ami?" gli aveva domandato la fata. Il ragazzo aveva balbettato qualcosa, poi le aveva chiesto: "Perchè respiri, Amanda?"
"Per vivere" aveva replicato lei perplessa.
"Anch'io, anch'io l'amo per vivere" poi tutto era diventato bianco e Thomas si era svegliato. Aveva pensato a quanti sarebbe stato bello dare risposte così soddisfacenti anche nella vita reale.
Il calore del sole del deserto lo riportò al presente. Attorno a loro si estendeva un gigantesco mare di nulla dorato sormontato da un cielo tanto limpido da sembrare dipinto. Thomas si portò una mano alla fronte per ombreggiare gli occhi e osservò l'orizzonte. Stavano camminando da almeno tre ore e non riuscivano ancora a scorgere la reggia.
"Eccola!" esclamò Elija.
"Siamo arrivati" l'artefice della terra era al settimo cielo, stringeva nel pugno un mucchietto di sabbia indicando dritto davanti a loro, un timido arbusto si affacciò ai suoi piedi. Thomas strinse gli occhi e scorse in lontananza la reggia di Nenja : un sontuoso palazzo bianco in stile arabo circondato da una macchia di alberi lussureggiante, laghetti e oasi cristalline come incastonate su un gioiello. Si chiese come mai non fosse riuscito a notarla prima.
I cinque amici si lanciarono in una corsa sfrenata verso il palazzo, Elija seminava gigli del deserto nelle sue impronte, presto sarebbero stati al sicuro e avrebbero potuto riposare.
L'unica cosa desiderata da Thomas in quel momento era sedersi all'ombra: tutto quel calore lo aveva prosciugato. Si stava precipitando verso il palazzo quando sentì Jona, che era rimasta indietro, imprecare. Non era una cosa insolita ma lo preoccupò comunque. Si voltò e vide che erano inseguiti da un esercito di ombre nere. Cavalli e cavalieri parevano costituiti dall'essenza stessa del buio. Correvano nella sabbia sollevando nuvole di polvere senza provocare il minimo rumore. Tutto l'esercito di ombre indossava armature e portava armi del colore di una notte senza stelle.
Thomas imprecò a sua volta e si sentì sospingere da un refolo di vento fresco: l'artefice dell'aria stava cercando di porlo in salvo. Jona correva, inseguita dall'esercito. Thomas capì che sarebbe stata comunque raggiunta dai cavalieri neri che si stagliavano contro il cielo come torri oscure. Il ragazzo avvertì gli altri, Henry e Jacqueline erano troppo distanti per intervenire perciò corsero verso Nenja alla ricerca di aiuto.
Elija si voltò e, col terrore negli occhi prese a risalire la duna da cui stava scendendo poco prima incespicando nella sabbia, nervosi e pungenti rovi crescevano accanto a lui.
Thomas sentì la paura montargli nel petto e cercò di dire a Elija di tornare indietro. L'artefice della terra sembrava non udirlo, continuava a correre sulla sabbia. Per nulla al mondo avrebbe lasciato Jona sola davanti a un esercito di ombre oscure. Il ragazzo inciampò in un sasso e rotolò giú dalla duna, tentò di rialzarsi, ma la sabbia gli offuscava lo sguardo e i pensieri. Voleva tornare sulla montagna di sabbia per aiutare gli amici, ma quando vide che anche Henry e Jacqueline si trovavano in difficoltà corse ad aiutarli.
Elija era in piedi sul dorso della duna di fronte a un esercito nero, come alleati degli esili rovi pungenti. Jona era in preda al panico e fronteggiava sola almeno sei cavalieri in una volta. I nemici ruotavano attorno a lei in cerchio chiudendole ogni possibilità di fuga. L'artefice della terra cercò di richiamare su di sè l'attenzione dell'esercito scagliando ripetutamente le sue piccole asce nere e facendo inciampare nei rovi gli avversari. Jona, d'altro canto, si sentiva stremata: essere completamete circondata da nemici la fece sentire vulnerabile ed indifesa. Continuava a sollevare vortici di sabbia nella speranza di allontanare i cavalieri neri o di nascondersi alla loro vista, ma le sue energie andavano scemando, inoltre il tifone sabbioso era frequentemente attraversato da frecce lanciate alla cieca. Credette di essere spacciata. Vide una piccola ascia nera conficcarsi nel fianco di un cavallo, vicino a lei crebbe un timido arbusto color smeraldo. Sorrise e riprese a difendersi sentendo la speranza crescere nel suo cuore.
Elija cercò di raggiungere l'artefice dell'aria, la muraglia di cavalieri sembrava essere impenetrabile, si sentì terribilmente angosciato per la sorte di Jona. Raccolse tutto il suo coraggio e, con un urlo udibile sino a Edomen, si lanciò in battaglia. Abbattè moltissimi nemici, gli sembrò di essere tutt'uno con la sabbia, il vento, il cielo: un terremoto inarrestabile. Elija desiderava solamente la salvezza di Jona, guidato da questo proposito fece vorticare le sue armi e raggiunse il centro della battaglia.
Non appena Jona lo vide sentì le lacrime salirle agli occhi, vedere un volto amico la rasserenò enormemente. Continuando a indietreggiare raggiunse l'artefice della terra.
"Alla buon'ora, zuccherino, ce ne hai messo ad arrivare" disse Jona, vide il volto di Elija spalancarsi in un sorriso tanto bello da far piovere nel deserto.
Si misero schiena a schiena e combatterono come un solo guerriero. Sembrava che la situazione volgesse a loro favore sino a quando non videro avanzare un'ombra nera alta come due uomini. I due artefici si bloccarono sul posto come pietrificati. La creatura aveva le sembianze di un cavaliere armato di tutto punto, era straordinariamente alta e si avvicinava a Jona ed Elija con passo cadenzato e lento. Tutti gli altri cavalieri neri si arrestarono e sulla duna del deserto di Nenja cadde il silenzio.
"Chi sei tu? Che cosa vuoi da noi?" domandò Jona brandendo l'arma . Nonostante la situazione fosse alquanto drammatica tutto quello a cui Elija riuscì a pensare fu l' uso del pronome 'noi'. Una piccola rosa crebbe accanto al suo tallone, dove nessuno poteva vederla.
La creatura non rispose, si limitò a sollevare la sua spada. Elija fece per difendere l'artefice dell'aria ma, dal nulla, spuntò una nuova ombra che gli assestò un calcio nello stomaco e lo scagliò a diversi metri di distanza. Nell'inerzia più totale l'artefice della terra fu costretto ad assistere al tremendo spettacolo. Jona si trovó costretta a combattere da sola contro un nemico che pareva inarrestabile.
L'artefice della terra venne circondato da altri cavalieri, si alzó in piedi e lí fronteggió, piroettando e scagliando le sue asce. In poco tempo, però, i nemici lo disarmarono e lo tennero ben stretto per impedirgli di intervenire. Jona si fece sollevare da una folata di vento e colpì il cavaliere nero alle spalle, questi si voltò e l'atterrò con un unico fluido movimento del braccio. L'artefice dell'aria cadde nella sabbia, richiamò la sua arma velocemente, si rialzò in piedi barcollando mentre l'essere nero la colpiva senza pietà. Elija si dimenò e lottó disperatamente contro i cavalieri che lo trattenevano, senza successo. Riuscì a richiamare le sue armi, ma una volta sconfitto un nemico, subito un altro si parlava davanti a lui senza dargli la possibilità di avanzare. Gridò col cuore pieno di angoscia mentre accanto a lui spuntava il rovo più grande che occhio umano avesse mai visto. La pianta crebbe a dismisura in direzione dell'enorme cavaliere, questi la vide e la tranciò di netto senza nemmeno smettere di combattere.
Jona si voltò per guardare Elija. In una frazione di secondo il cavaliere nero l'atterrò e la disarmò pestando col piede la sua arma. La nascose sotto la sabbia e Jona non riuscì a richiamarla.
La creatura nera sollevò la spada, ma l'affondò nel terreno: l'artefice dell'aria era riuscita a rotolare su un fianco. Elija sentì la rabbia montare nel petto e richiamò a sé tutta la forza del suo elemento, dotato di un potere nascosto nelle profondità più recondite delle cose. I suoi nemici affondarono nella sabbia, strinse le sue asce nere. Un tremendo terremoto scosse il deserto di Nenja, l'esercito nero barcollò sulle gambe malferme mentre l'artefice della terra ordinava ad altre gigantesche piante di rovo spinoso di crescere. Un garbuglio di tentacoli dotati di punte acuminate si abbattè sui cavalieri e li trascinò nelle voragini aperte dal sisma. La sabbia li seppellí e non si udì più nemmeno un grido. Immerso in un silenzio di morte, Elija si diresse correndo verso Jona col mantello verde che svolazzava nell'aria calda del deserto, si frappose fra l'artefice e il cavaliere dicendo: "NON OSARE MAI PIU' TOCCARE IL MIO FIORDALISO!" detto questo scagliò entrambe le sue asce dirette all'elmo del nemico. Le armi si conficcarono profondamente nell'armatura, un pozzo si aprí sotto i piedi del nemico che vi precipitò senza un lamento.
Prima che questi venisse inghiottito dalla sabbia fu possibile agli artefici scorgere il manico di una lancia che penetrava nella schiena del cavaliere nero, domandandosi chi l'avesse scagliata scorsero una figura che si avvicinava.
Non ci fu tempo per porre domande sui recenti eventi.
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