CAPITOLO 9 - L'ARDORE DELL'AQUILA

Quando il Duca rientrò a casa, dopo quella che era parsa la giornata più lunga della sua vita, la bufera di vento che si abbatteva all'esterno sembrava far tremare anche i muri della stanza.

Se solo avesse voluto, gli sarebbe bastato un secondo per riportare la calma e il silenzio in quella porzione di Ardesia, ma la realtà era che il vento gli piaceva.

Con tutta quella sabbia che si levava prepotentemente nei vortici d'aria calda, anche il più acuto spettatore non sarebbe stato in grado di distinguere un uomo da un tronco d'albero.

Come d'abitudine, sganciò dal cappuccio il pezzo di stoffa che gli ricopriva il volto e, con un gesto fluido, si sfilò il mantello e lo ripose ben ripiegato. Erano poche le azioni che lo separavano dal riposo e le eseguì tutte meccanicamente, con la testa ancora impegnata ad analizzare gli eventi.

Nonostante gli innumerevoli gradi che tintinnavano sulla divisa, il Duca era e rimaneva un soldato e, fin dai tempi dell'addestramento, aveva imparato che i soldati prima prendono gli ordini, poi agiscono e infine, se proprio non possono farne a meno, pensano. In questo rigoroso ordine.

Allo stesso tempo, il Duca non era solo un soldato.

La stanza in cui viveva era essenziale. A dirla tutta, essenziale era una descrizione superficiale e sbrigativa: un letto, un armadio e un comodino. Non aveva voluto nient'altro perché sapeva che la sua permanenza in quel luogo non sarebbe stata lunga e non voleva mettersi troppo comodo.

Di tutti i posti di Ardesia, Città Imperiale era quello che gli piaceva di meno. Meglio della capitale era anche la lontana e selvaggia Carbo, su a nord-est. I suoi abitanti ancora credevano alle Tradizioni, in vecchie leggende e nelle scaramanzie e non si davano pena di mascherarlo neanche di fronte ai soldati. Non portavano rispetto, sostenendo che niente, neanche la lunga mano dell'Imperatore sulle terre del Regno, era peggio della vita brutale di Carbo. Tuttavia erano ospitali, sempre pronti a quattro chiacchiere con chi non indossava il sigillo imperiale. Quindi, per il Duca, non era stato difficile insinuarsi tra di loro, smettendo i panni del soldato e facendosi raccontare tutti i segreti della città.
Riportare l'ordine a Carbo era stata una delle missioni meglio riuscite, anche se aveva provato un pizzico di fastidio nell'eliminare quei quattro taglialegna insolenti che pubblicamente avevano rifiutato di sottomettersi. Erano stati proprio stupidi.

Sedette sul bordo del letto e una ragnatela di piccole pieghe si formò sulla coperta perfettamente tirata. Infastidito, il soldato scattò per appianare le increspature della lana; gli sfuggì un sorriso: se fosse stata presente, sua madre lo avrebbe rimproverato.
"Sei a casa - gli avrebbe abbaiato contro, brandendo un indice nodoso - devi rilassarti".

Ma sua madre non c'era e lui non era di certo a casa.

A conferma di quell'ultimo pensiero, scattò verso l'armadio e si gettò addosso il mantello che aveva da poco riposto, coprì con due lunghi passi la distanza che lo separava dalla porta e, con la mano pronta sulla maniglia, attese di udire i tre colpi prima di aprirla.
La staffetta che si ritrovò davanti sembrò spiazzata dalla velocità con cui il Duca l'aveva accolto. Gettò uno sguardo allarmato ai due messi che lo avevano accompagnato.

"Allora?" incitò il Duca, non riuscendo a nascondere il fastidio che provava. Aveva dimenticato l'ultima volta in cui era riuscito a dormire.
"Il G-Generale richiede la sua presenza" farfugliò la staffetta, dimenticandosi di fare il saluto militare. Quanti anni avrà avuto quel soldato? Dodici? Forse tredici, sperò il Duca, come se un anno in più avrebbe potuto giustificare quanto stava per fare.
Senza neanche muoversi dal posto, agguantò la mano sinistra del soldato e la ripiegò su se stessa con la velocità e la precisione di chi lo ha già fatto altre volte. Gli spezzò il polso con un sonoro scrocchio. L'ultima cosa che vide sul volto del ragazzino fu una smorfia di terrore, poi svenne.
"Quando si sveglierà, ricordategli che la prima cosa da fare al cospetto di un superiore, è il saluto militare".

Non avendo null'altro da dire alle facce sgomente dei giovani, il Duca si chiuse la porta alle spalle e si immerse di nuovo nella bufera di vento, dirigendosi a passi ritmati verso gli uffici del Comando.
Sebbene la temperatura di Città Imperiale fosse leggermente più bassa di quella di Fulgida e delle zone vicine al deserto, il caldo era comunque insopportabile. La cosa peggiore era, oltretutto, che il Duca aveva fatto il suo ultimo bagno il giorno prima e, perlomeno fino a che fosse rimasto a Città Imperiale, non avrebbe potuto farne altri.
Anche quello era uno dei motivi per cui il Duca odiava profondamente Città Imperiale.

Le prime due cose che gli venivano in mente pensando alla capitale erano il sudicio e le persone spocchiose. Era un'immensa, sterminata distesa di edifici e case, in cui la puzza e gli sguardi supponenti della gente facevano da sovrani. Come se ciò non bastasse, erano tutti accaniti sostenitori dell'Imperatore: in ogni famiglia v'era un nonno o uno zio che aveva conosciuto il sovrano in prima persona e che ne era stato benedetto dal potere smisurato.

Ogni volta che il Duca sentiva una di queste storie, scuoteva il capo: se davvero quelle persone avessero incontrato la Maschera D'Argento, in quel momento Città Imperiale sarebbe stata una landa deserta, abitata solo da gatti randagi e topi di fogna.

Molto più in fretta di quanto avrebbe voluto, si ritrovò a fare il saluto militare all'interno dell'ufficio della Bestia.
Il Generale Capo dell'Unica Armata Mechlis, anche noto come la Bestia, stava seduto sulla sua scrivania, con la testa rivolta verso il basso, sopra alcuni fascicoli che il Duca osservò con l'acquolina in bocca.
Prese posto sulla poltroncina davanti alla Bestia solo dopo che questi, senza alcuna fretta, gli concesse il riposo.

Il Duca doveva trattenersi dal rabbrividire ogni volta che pensava al soprannome che le giovani leve avevano affibbiato al più alto in grado. Aveva sferrato un potente manrovescio al soldato che aveva sorpreso a farsi beffe di Mechlis chiamandolo in quel modo, ma doveva ammettere che, da quel momento in poi, lui stesso faceva fatica a non utilizzarlo.
Di età indecifrabile, Mechlis la Bestia sollevò lo sguardo animalesco sul Duca. Con controllata lentezza giunse le mani sopra le carte che stava leggendo fino a poco prima e il Duca perse l'ultima occasione per sbirciare.

"Rapporto" disse, tagliente come le lame che era solito far scivolare lungamente sulle sue vittime, prima di finirle. Il Duca se lo aspettava, di dover far rapporto di fronte a Mechlis. Quello che non sia aspettava era che avrebbe dovuto farlo quella stessa sera.
"Operazione infruttuosa, Generale...".
"Soldato - Mechlis la Bestia non alzava mai la voce, ma non ce ne era bisogno - data la portata dell'operazione, dovresti cominciare dall'inizio piuttosto che dalla fine".

Non esistevano gradi con il Generale: trattava al pari di un soldato semplice chiunque tranne l'Imperatore. Il Duca aveva iniziato a star scomodo sulla poltroncina. Quanto avrebbe voluto dargli fuoco. Letteralmente.
"Generale Capo, le mie scuse. A seguito del nostro incontro dopo i fatti di Palazzo e come da sue direttive, ho predisposto il piano di ricerca della traditrice che si era data alla fuga, organizzando gli uomini che si trovavano in loco e facendo arrivare ulteriori rinforzi dai contingenti delle città vicine. Circa mille uomini sono arrivati da Lignis e Pira e sono stati impiegati per la ricerca della fuggitiva. Io stesso mi sono unito all'operazione, insieme ad altri quattro ufficiali che si sono resi disponibili...".
"Ecco, soldato - lo interruppe Mechlis, che non gli aveva mai staccato gli occhi di dosso - mi preme proprio questa parte. Come mai, nonostante ti avessi detto esplicitamente di restare a Palazzo, hai deciso di unirti alle ricerche? L'ala est del Palazzo è stata incenerita dalle fiamme, un membro della famiglia imperiale è stato bruciato vivo...vista la tua vicinanza all'Imperatore credevo che la tua priorità fosse e dovesse essere restare a Palazzo...".

Il Duca iniziò a capire dove voleva andare a parare Mechlis. Non era un semplice incontro per un rapporto, era una trappola.
"Per spirito di servizio verso il mio Impero e verso l'Unica Armata, Signore" il Duca sbatté i pugni chiusi l'uno contro l'altro, come era d'uso a quei tempi per dimostrare abnegazione verso la causa bellica.
"Approfondisci".
"Avevo messo in totale sicurezza il Palazzo e tutta la famiglia imperiale, ma i miei soldati stavano fallendo, Signore".
"Non stavano cioè trovando la traditrice fuggita da Palazzo, giusto?"
"Esatto, Signore".
"Una donna, se non erro, soldato?". Non era una domanda. Il Generale Capo Mechlis era a capo sia dell'Unica Armata, sia della Milizia Cobra, lo spietato battaglione segreto dell'Imperatore, sia della Guardia Ombra, l'oscura rete di spie grazie alla quale Mechlis la Bestia poteva vantarsi di conoscere tutto dell'Impero e tutti nell'Impero.
"Di nuovo esatto, Signore".

Mechlis indugiò qualche istante. Era immobile come una statua e continuava a non spostare gli occhi dal volto del Duca.
"Dunque, se i tuoi uomini stavano fallendo, in che modo il tuo aiuto sarebbe stato utile?".
"Volevo aiutare le ricerche, Signore. Ho disatteso gli ordini per evitare la carneficina seguita all'ultima operazione fallita, Signore".
Mechlis alzò le sopracciglia. Un segnale: o aveva colto nel segno o si era spinto troppo oltre. Nelle orecchie del Duca ancora risuonava chiaramente l'ordine che Mechlis gli aveva dato, mesi prima, al disastroso esito della spedizione che avrebbe dovuto scovare il covo dei traditori del Regno. Lungi dal trovare anche solo la puzza degli abitanti del Rifugio, mille soldati erano riemersi a fatica e a mani vuote dalle Foreste del Nord, nei pressi di Carbo.

"Soldato!". Mechlis aveva ringhiato e il Duca era scattato in piedi.
"Ordini, Generale".
"Eliminali. Tutti".

Il Duca aveva imparato a controllarsi fin da quando era un bambino. Sapeva benissimo che, per raggiungere i suoi obiettivi, avrebbe dovuto fare cose, accettare cose, che, non appena si fosse svestito dei panni del soldato, lo avrebbero perseguitato per sempre.
Uccidere mille uomini era una cosa che lo perseguitava anche da soldato.

Con Mechlis lì davanti a lui, che lo fissava con quei piccoli occhietti animaleschi e una espressione compiaciuta, il Duca per poco non mandò tutto all'aria.
"Quindi hai pensato di far da scudo ai tuoi uomini con la tua stessa vita? Molto eroico, soldato. Sono davvero impressionato" con la voce piatta e apatica e il volto privo di qualsiasi tipo di emozione, a parte una costante e incrollabile noia, Mechlis la Bestia si preparava a scoprire le sue carte.
"Se ho fatto qualcosa di sbagliato, ne pagherò le conseguenze".

Entrambi sapevano che il Duca era un protetto dell'Imperatore e che, per quanto il Generale Mechlis avesse provato a rendergli la vita un inferno, v'erano dei limiti che neanche lui poteva valicare.
"Su questo siamo d'accordo. - Mechlis si alzò improvvisamente: era gigantesco, tutto in lui lo era - Tornerai a Fulgida e organizzerai le forze al fine di reprimere ogni singola forma di dissenso e tradimento. Mi sono stancato delle bizzarrie di quella cittadina: il fatto che sia lontana dal Comando Centrale non vuol dire che non debba essere tenuta sotto stretto controllo, come tutte le altre".

Se Mechlis pensava che quella fosse una punizione per il Duca, si sbagliava di grosso. Il suo cuore, o quello che ne restava, aveva fatto una capriola per la felicità. Ma come al solito, all'esterno non poteva darlo a vedere. Abbassò il capo con fare rassegnato e sospirò un "sissignore".
Con un movimento fulmineo, Mechlis piegò il collo, come a volerselo stirare. C'era qualcosa di angosciante in quel gesto: era forse un segnale di attacco? Tuttavia, l'attenzione del Duca fu distratta da un particolare. Sul tratto di pelle che si scoprì, proprio al di sotto del colletto della camicia nera, Mechlis si era marchiato con uno strano simbolo, che il Duca non riuscì a distinguere bene, riconoscendo solo due ampie volute.

"Aspetta a mostrare tutta questa gioia, soldato - Mechlis tornò in posizione eretta con uno scatto - Andrai con una delegazione da me selezionata che avrà il compito di aiutarti e di controllarti. Le tue uscite nel centro di Fulgida o in chissà quale altro posto saranno ridotte allo zero, sono stato chiaro?"
"Sissignore". Come diavolo faceva Mechlis a sapere dei suoi traffici? Se la presenza degli scagnozzi di Mechlis non lo preoccupava affatto, tutte quelle frecciatine che la Bestia stava scoccando lo impensierivano molto. Cosa altro sapeva?

In ogni caso, sarebbe tornato a Fulgida. Questo significava un lungo bagno ristoratore, come prima cosa. Significava inoltre che avrebbe potuto essere vicino ai suoi affari e occuparsene in prima persona. In un impeto di celato entusiasmo, il Duca si arrischiò a pensare che non sarebbe potuta andargli meglio: Mechlis avrebbe potuto mettergli alle calcagna anche il Ratto, il sadico capo della Guardia Ombra. Avrebbe trovato il modo, come al solito.
Non udendo altre consegne da parte di Mechlis, il Duca si alzò e fece il saluto militare.

"Signore - disse - con il suo permesso, vado ad organizzare il trasferimento". Stava per girare sui tacchi e andarsene quando Mechlis si sporse sulla scrivania, avvicinandosi ancora di più per fissarlo ancor meglio negli occhi.
"Aspetta, soldato, un'ultima cosa..."
"Sissignore".
"Quella traditrice. L'ho trovata e interrogata. Mi sono stufato di lei, è diventata...noiosa".
"Si, signore...". Di colpo, la bocca del Duca si fece arida come il Deserto Rosso.
"Eliminala".

Da quando Mechlis aveva ordinato di uccidere la donna, il Duca aveva passato ogni secondo ad analizzare cosa fosse andato storto. Come aveva fatto a trovarla?
Tutti quegli uomini sotto il suo comando, sparpagliati fino ai più polverosi anfratti di Fulgida e del suo circondario non erano stati in grado di trovarla. Mechlis l'aveva fatto. Se avesse mandato qualcuno dei suoi in via ufficiale, il Duca avrebbe dovuto saperlo. Se, invece, avesse scelto di farlo di nascosto, la domanda era: perché?

"Se non riesci a spiegare in modo normale una cosa che normale non è, allora significa che l'unica spiegazione normale è che quella cosa non è normale".

Il Duca ripetè ad alta voce le parole, prima di alzarsi e dirigersi verso la porta della sua stanza.
L'esecuzione era fissata per il tramonto.
Moka, il grosso cane nero, era appostata nel suo nascondiglio fuori dalla stanza. Come sempre, l'avvertì dell'arrivo del picchetto, che lui intercettò prontamente, ancor prima che arrivasse alla porta. Tre soldati e due lupi irrequieti al guinzaglio: c'era da aspettarselo dalla Bestia.

Le chiamavano Celle di Morte. Erano le camere in cui i traditori venivano interrogati ed era raro che qualcuno ne uscisse vivo. Il Duca non ci andava spesso e questo era tutto di guadagnato. Il solo odore che regnava la dentro era già di per se un ottimo motivo per tenersene alla larga.
Aveva passato l'intera notte a riempirsi la testa di altro ma ora, davanti alla donna che avrebbe dovuto uccidere, non poteva più scappare. Nessuna congettura su Mechlis avrebbe potuto tenerlo lontano da lei.

"E' stata fortunata, non è vero?". Il Duca non si prese neanche la briga di rispondere al soldato. Neanche la briga di guardarlo. Sentiva solo la furiosa fame dei lupi e costrinse il suo stomaco a non accartocciarsi.
La donna era seduta a terra, in una pozza di sangue rappreso misto a chissà cos'altro. Era completamente nuda e a capo chino, il respiro sostituito da un rantolo irregolare. Era così che li riduceva il Generale: anime tappate all'interno di corpi senza sbocchi all'esterno, private di tutti i sensi.

"Avrebbero potuto spedirla a Fractum o al Campo Undici, ad esempio" commentò l'altro tirapiedi di Mechlis, come se quello che avevano davanti non era un orrore sufficiente e fosse quindi necessario citare i due posti più terribili sulla faccia della terra. Si chinò ad allentare la cinghia che stringeva il collo del lupo. L'animale non voleva saperne di stare fermo e per poco non azzannò la mano del soldato.
"A Fractum! - corresse prontamente l'altro - Si dice che il Campo Unidici sia per i Div...".

"Soldato!" lo riprese il Duca. Un silenzio innaturale calò nella cella, rotto solo dai rantoli della detenuta e dal respiro eccitato degli animali.
"Il tuo mantello". Il Duca tese una mano e restò in attesa.
"Come?".
"Anzitutto pretendo che tu mi chiami Signore. Sto aspettando il tuo mantello".
Il soldato, evidentemente scontento, si tolse con gran lentezza il mantello e, ancor più lentamente, lo allungò al Duca.
"Non ho sentito bene".
"Ho detto: sissignore, Signore".

Il Duca voltò le spalle ai soldati e si diresse a grandi passi verso la donna. Adagiò il mantello sopra le sue spalle e mentre si chinava per chiudere i primi bottoni proprio sotto il mento, indugiò un attimo. Poi si eresse di nuovo, con tutti i muscoli contratti, e tornò ad essere il Duca.
"Così, brutto idiota, non dovrete toccare questo corpo infetto quando lo porterete via".
"Signore, il Generale ha ordinato di usare i lupi...". Non aspettarono neanche la risposta del Duca: semplicemente lasciarono le corde. Gli animali famelici si avventarono sulla preda, con le fauci aperte e tremanti. Un potente ringhio carico di fervore riempì la cella.

Fermi.

Sotto gli sguardi sconcertati dei tre soldati, i lupi si rabbonirono immediatamente, arrestarono la marcia furente e, infine, si sedettero, compiti e docili come scolaretti.
"Quando il Generale si prenderà la briga di uccidere in prima persona i detenuti che tortura, allora deciderà anche come farlo. Finché ordina a me di finire i suoi lavori, decido io".
"Ma Signore, il Generale...".

Il Duca si voltò di scatto. La furia nel suo sguardo tacitò ogni obiezione. Sapeva che non aveva più molto tempo: la donna sarebbe crollata da un momento all'altro e lui doveva agire in fretta.
Una contrazione sul viso torturato lo avvertì che il tempo era giunto. Poggiò delicatamente le mani sul viso ormai calmo e con un rapido scatto, spezzò il collo ad Annette, l'unica sorella di sua madre.

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