CAPITOLO 2 - IL GIGLIO BIANCO

La distanza che separava via delle Mercanzie da casa di Mae poteva essere coperta a piedi, ma solo se si sapeva come fare.
Fulgida era l'ultima città abitata di Ardesia. Più a ovest, immenso quasi come il cielo, si estendeva a perdita d'occhio il Deserto Rosso. Era proibito anche solo avvicinarvisi e nessuno conosceva il perché; ciò che, invece, era ben chiaro a tutti era cosa sarebbe successo a chi avesse infranto il divieto.

Fianco a fianco su di un lato della strada, Mae e Isabella avevano camminato sotto il sole ardente di mezzogiorno. Avevano seguito il percorso principale, per la maggior parte. Avevano invece girato in tondo quando Mae cambiava idea e decideva che non poteva, che proprio non poteva continuare.

Preferisco Mae.
Come diamine faceva a conoscere il suo nome?

L'inesorabile afa di Ardesia stava sfiancando Isabella. Il volto cereo, su cui gli unici colori erano il grigio dello sporco e il viola delle labbra spaccate, era imperlato di sudore. Mae aveva perso il conto dei minuti trascorsi da quando avevano lasciato Fulgida, ma Isabella ansimava come un animale da traino già da prima che si addentrassero in Valle Sibilla. Il fatto che Mae avesse allungato il tragitto senza ritegno, solo perché non riusciva a prendere una decisione, di certo non l'aveva aiutata. Aveva liquidato ogni cambio di rotta borbottando che, dopo quello che era successo la mattina al Mercato, voleva disorientare chiunque si fosse preso la briga di seguirle, ma si erano allontanate molto da Fulgida e dietro di loro avevano solo strade sterrate e sterpaglie secche mosse dal vento.
Quando Mae vide in lontananza la linea irregolare dei Monti Neri che disegnava un immobile e imponente zig-zag nel cielo, si ricordò che affrontare Isabella era comunque meglio che pensare ad Alessandro.

"Allora - cominciò, tentando di assumere un tono più naturale possibile - Cos'è che sai fare?". Se avesse potuto, si sarebbe sbattuta una mano sulla fronte. Delicata, pensò. Non era quello che ti eri detta? Sii delicata. Se avessi voluto essere sfacciata, cosa le avresti detto?
"Cioè?"
"Conosci il mio nome. Suppongo che tu sia in grado di leggere il pensiero o che so io...". Non era raro che Mae accompagnasse qualche novizio al Rifugio e, negli ultimi tempi, succedeva sempre più spesso che questi fossero Diversi. Come al solito, Mae sperò: non troppo potente, ti prego, fa che non sia troppo potente.
"Scherzi, vero?".
"In generale, non scherzo mai. Puoi parlare della tua dote: sai che non sei più in pericolo, hai visto dove ti sto portando!".
"Dote? E dove mi stai portando?".
Fino ad allora si era ben guardata dall'incontrare gli occhi di Isabella, ma non potè più trattenersi.
"Qual è la tua dote, Isabella?" chiese scandendo bene le parole, improvvisamente gelide nell'aria afosa di Ardesia.
"Credo sia superfluo dirlo ma non ho nessuna dote! Niente lettura del pensiero e diavolerie varie". Quel tono pungente, in un fastidioso punto a metà tra lo scettico ed il beffardo, radicò, suo malgrado, il sospetto nella mente di Mae. Dopotutto la stessa ragazza aveva ammesso di essere brava a inventare, nessuno avrebbe potuto biasimare la sua diffidenza. No?
"Diavolerie, dici? Ne sei sicura?".
"Mi stai chiedendo se sono sicura di non avere una cosa che non esiste?".
"Si, esattamente" Mae si fermò di colpo, le mani sui fianchi e gli occhi ridotti a due fessure. Aveva preso un abbaglio? Stava forse portando a casa una maledetta spia?

Isabella sembrò in difficoltà. Torturava ritmicamente il medaglione che portava al collo, con le mani incrostate di sporco e di sangue. Il grigio degli occhi aveva iniziato a vibrare, come se stessero per riempirsi di lacrime. Qualcosa disse a Mae che i silenzi di Isabella l'avrebbero tormentata più delle sue risposte. Si morse il labbro, si conficcò le unghie nei palmi delle mani e, infine, senza dire una parola, riprese a camminare.
Mantenne un passo lento, perfettamente in linea con i segnali che le inviava l'istinto. Tempo. Quello che le occorreva era tempo. Voleva pensare, esaminare ogni aspetto di quella strana ed insieme terribile mattinata, ma la sua mente era incapace di collaborare. Aveva formulato un quadro ben preciso nella mente e ogni volta che la ragazza rispondeva, o non rispondeva, ad una delle sue domande, un pezzetto di quel quadro si disintegrava.
L'ennesima volta in cui dovettero fermarsi per far riposare Isabella, che spesso sembrava sul punto di svenire, Mae pensò che perlomeno poteva farla mangiare. Non ci sarebbe stato niente di male: succedeva che qualcuno si recasse a Casa Iris, mendicando pane, uova o, se la signora Grandonda non era in casa, persino qualche cucchiaio di miele.

Casa Iris vantava secoli di dominio su Valle Sibilla: si stagliava, in tutta la sua imponenza, al centro di essa, proprio sopra una dolce collinetta, ed apriva le porte all'impervia zona montuosa. Non era ben chiaro fin dove si estendessero i suoi confini, ma era pensiero comune che dai primi cumuli di legna, barattoli e cianfrusaglie in poi, quella fosse proprietà dei Grandonda e nessuno, per qualche motivo neanche l'Impero, si sognava di questionare.
Col passare degli anni, la famiglia di antico lignaggio aveva cumulato così tanti e vari oggetti che, per contenerli tutti, s'era imposta la necessità di guadagnare terreno, trasformando quella porzione di valle in una vera e propria babilonia. Grossi mucchi di roba spuntavano a perdita d'occhio e, da lontano, sembrava quasi che inghiottissero la villa.

Fu questa la prima impressione che Isabella ebbe quel sabato mattina, mentre si avvicinava a piedi, al fianco di Mae.
Le venne spontaneo un sorriso, quando si rese conto che non sapeva dove guardare. Una bassa staccionata divelta era addossata ad una pila di sedie ammucchiate; alcune non avevano più una gamba, altre erano senza la seduta e tutti i pezzi mancanti erano stati ammassati alla bene e meglio alla base di quella stramba piramide. Come quella, ve n'erano altre cento e più, ognuna composta da oggetti diversi. Tavoli sghembi, armadi bucherellati dalle tarme, letti in ferro arrugginito e articoli d'arredamento erano tra i più comuni; non mancavano rimasugli di quelle che erano state automobili, biciclette e, Isabella poteva giurare d'averla vista, anche una barca. A cosa mai serviva una barca in quel mondo?

Isabella aveva tante domande da fare ma si controllò. Fu un sacrificio immane per lei, che assolse con cura e fermezza fino al momento in cui li vide.

In quel regno di cose dimenticate, Isabella, per la prima volta in vita sua, vide gli animali. Capre tozze, pecore dal manto folto e grasse vacche salutarono il passaggio di Isabella e Mae con sguardi che parvero incuriositi. Un gruppo di asini ragliò a poca distanza da loro e Isabella sobbalzò.
"Uau" esclamò e, d'istinto, si portò le mani al volto, in un gesto meravigliato che non sfuggì a Mae. Guardò le possenti cosce delle bestie, osservò a lungo le loro code che ondeggiavano ognuna col suo ritmo e non riuscì a togliere gli occhi di dosso dai loro musi gentili.

"Cosa? - chiese Mae, riscuotendosi con curiosità dai suoi pensieri - Non hai mai visto prima una mucca?".
"In realtà, no".
Che razza di persona non aveva mai visto un animale dal vivo? Dov'era vissuta fino a quel momento? In un qualche luogo sperduto, di certo, visto che non aveva neanche riconosciuto il simbolo del Rifugio impresso sotto la lingua di Mae. Come avrebbe potuto, in tutta quella reticenza, scoprire le informazioni che le interessavano? Immersa com'era nei suoi pensieri, Mae tagliò il giardino in direzione di Casa Iris.

Quando fu chiaro che sarebbero dovute passare vicino ad un gruppo di asini spelacchiati al pascolo, Isabella si arrestò con un sussulto.
"Non sono...pericolosi?" azzardò, pentendosi della domanda mentre vibrava ancora sulle labbra.
"Cosa ti hanno insegnato a scuola? - Mae alzò gli occhi al cielo e poi scattò - Ci sei andata, a scuola, vero?".
"Gli animali sono sporchi e pericolosi" annunciò con una cantilena tale che Mae scoppiò a ridere. Il suo viso si era sciolto dall'austerità, ma Isabella non fu contenta perché reputava quell'argomento estremamente serio. Dopotutto, a scuola ci era andata davvero e i suoi insegnanti erano stati molto chiari. Come anche la sua Nanni, che non le avrebbe mai mentito, o perlomeno così credeva fino a qualche giorno prima.

Il ricordo di Nanni le scatenò una fitta al cuore.
"Tu non fai del male a loro e loro non fanno del male a te. Per quanto riguarda la questione della sporcizia... - gli occhi di Mae le saettarono addosso - ...a quanto pare non hai niente da invidiargli".
"Ma come osi! In tutta la mia vita - gonfiò il petto di rabbia - non ho mai passato neanche un giorno senza lavarmi o cambiarmi d'abito e se ora sono stata costretta a farlo, di certo non è dipeso dalla mia volontà".
"Ah si? - chiese mentre piegava il capo e le ginocchia in un accenno di inchino - Di quale nobile casata fa parte questa principessina, per aver goduto di tali privilegi?".

Isabella era inchiodata. Talmente presa dalla rabbia che non era stata capace di controllarsi. Come al solito, si rimproverò in un potente moto di sconforto. La cosa peggiore era che non poteva biasimare altri se non se stessa: Nanni, la sua balia, le ripeteva di imparare a controllarsi ogni giorno, da che avesse memoria.

"Ho capito - riprese Mae con tono asciutto - E' stato un piacere, Isabella o chiunque tu sia. Puoi riprendere la strada che abbiamo fatto e tornare in città: ti guarderò fino a che non sparisci".
"No! Ti prego! Ti dirò tutto quello che vuoi, farò tutto quello che vuoi...ti chiedo solo di non mandarmi via".
"Comincia a parlare e poi vedremo".
"Non provengo da nessuna nobile casata - Isabella parlava a testa bassa, giocherellando nervosamente con il medaglione - mia...mia madre mi ha insegnato ad essere pulita e ben vestita ogni giorno. Lei è...era la domestica in una casa di nobili".

"Bene, vedo che cominciamo a ragionare - affermò Mae con soddisfazione - anche se il fatto che tu sia cresciuta in una casa di nobili mi fa pensare che tu possa essere una di loro...".
"Loro?" chiese Isabella con tono confuso.
"Si, loro - annuì Mae, riprendendo a camminare verso Casa Iris - le spie che l'Impero recluta per dare la caccia ai traditori".
"Non sono una spia" balbettò Isabella.

"Magari la tua famiglia di nobili ha deciso che eri diventata troppo grande per restare in casa a non fare niente. Magari hanno chiesto un po' in giro e hanno sentito che il domestico di un loro lontano cugino ha un fratello che lavora a Palazzo. E il fratello che lavora a Palazzo ha sentito direttamente dalla bocca del nostro adorato Imperatore che al nostro Impero servono più spie per scovare questi topi di fogna che chiamano traditori". Mae sembrava eccitata dal suo discorsetto: camminava quasi saltellando sulle punte e i suoi occhi si guardavano attorno con aria sognante.

"Non sono una spia! - ribadì sdegnata Isabella - Nessuno mi ha reclutata...".
"Magari, allora, è stata proprio la tua mamma, schiava dei nobili, a venderti come spia...".
"No! - urlò Isabella - non l'avrebbe mai fatto, lei è...era...".
"E' o era?".
Isabella prese un profondo respiro e sperò di riuscire a frenarsi.
Devi controllarti Isabella, con tutte le tue forze.
"L'hanno uccisa - sussurrò infine - prima che io fuggissi da quella casa, l'hanno uccisa. Ha avuto solo il tempo di darmi questo". Isabella indicò il medaglione mentre tirava su col naso.
Mae si fermò di nuovo. Il suo sguardo era fermo, la sua espressione indecifrabile. Starà prendendo una decisione, pensò Isabella.

Con la speranza di essere stata abbastanza brava, Isabella si concesse un secondo di distrazione. Se solo Mae le avesse creduto, se solo quella, tra tutte le cose successe nei giorni passati, fosse andata per il verso giusto, avrebbe potuto iniziare a godersi quel viaggio verso l'ignoto che la terrorizzava e la elettrizzava al tempo stesso. Avrebbe ricominciato e lo avrebbe fatto a suo modo.

Un solo momento di distrazione. Era stata molto attenta, fino ad allora, a non avvicinarsi troppo al gruppo di asini bitorzoluti. Qualsiasi cosa pensasse o dicesse Mae, un calcio ben assestato da una di quelle bestie l'avrebbe tramortita. In quell'unico momento di distrazione, però, era stato uno di essi ad avvicinarsi a lei.
Se non avesse avuto il cuore in gola, avrebbe detto che era un essere carino, tutto sommato. In un attimo, come attratti da chissà quale richiamo, i grossi occhi neri dell'asino si posarono su Isabella.
Avvertì chiaramente la pace di una vita lenta, passata col corroborante calore del sole ad abbracciare le membra. Sentì il gusto dell'erba in bocca e provò il fremito di preoccupazione per un piccolo essere traballante che muoveva i primi passi.
Isabella sussultò, senza parole.

"Stai tranquilla, non ti vorrebbe per cena: ha altri gusti" sentì la voce di Mae in lontananza, come una eco di un altro mondo.
Restò in silenzio, tentando di dare un senso alle cose. L'asino, invece, era ancora là che la guardava, come in attesa di qualcosa.
Mae scrollò le spalle e riprese la marcia. Non si girò nemmeno una volta, ma quando un urlo disperato squarciò l'aria, fu certa che Isabella l'aveva seguita.

"RIDAMMELO!".
"No".
"Il mio medaglione! Rendimelo subito!" sbraitò Isabella pestando i piedi a terra, con gli occhi grigi che sembravano tizzoni ardenti.
"Vuoi calmarti o vuoi dirmi come mai sei così brava a dare ordini?".
Isabella serrò le labbra, continuando tuttavia a scoccare furiosi sguardi prima a Mae e poi al medaglione che penzolava allegramente tra le sue mani.
"Come sei riuscita a prenderlo?".
"Visto che ci tieni così tanto, il medaglione diventa la mia garanzia: tradisci la mia fiducia e non lo rivedrai mai più. Vorrei però sapere un'ultima cosa...". Per molti anni a venire, Isabella ricordò d'aver accettato quel patto con una rabbia in corpo che avrebbe potuto radere al suolo tutta Valle Sibilla.

"Cosa hai letto nella mia mente, oltre al nome?".
"Te l'ho già detto! Non sono una spia e non so leggere nella mente delle persone! Non esistono queste cose, Mae, è incredibile che tu ci...".
"Creda? Tu piuttosto! Hai uno strano rapporto con la verità...".
"Io conosco la verità! Ho studiato, non ho fatto altro che studiare per conoscerla!".
"O per ignorarla del tutto! Dimmi, come facevi a sapere come mi chiamo?".
"Me lo ha detto lui!". Se avesse potuto, Isabella si sarebbe tagliata la lingua.
"Chi?".

Il cuore di Mae prese a battere potentemente: una piccola parte di lei già sapeva la risposta. La ragazza, dal canto suo, sospirò: avrebbe dovuto tirarsi fuori da quel nuovo impiccio in cui si era impantanata a furia di perdere il controllo.
"Un uomo, non so il suo nome. Mi ha detto solo di aiutarti perché poi tu avresti aiutato me". Provò un'insolita sensazione di vuoto e, solo per un attimo, immaginò di non dover più portare, da sola, il macigno della sua verità.
Mai. Con nessuno Isabella, hai capito? Non ne devi parlare mai e con nessuno. Sono stata chiara?
"Non l'hai visto in faccia? Com'era? Alto? Aveva un mantello?".
Isabella disse di non averlo visto, che era stato una specie di sogno e che, quando le aveva parlato, era stanca e assonnata...ma ormai non importava più. Quella ragazzina avrebbe anche potuto essere la figlia maledetta dell'Imperatore: se Alessandro voleva che Mae la aiutasse, era proprio quello che Mae avrebbe fatto. Punto.

Gli odori di quel sabato mattina brulicarono fervidi nella mente di Isabella per tutta la giornata. Legna umida, sterco ed erba secca aleggiavano sullo strano giardino anteriore di Casa Iris. Isabella percorse il tratto mancante sempre un passo dietro Mae, a testa bassa, ancora profondamente arrabbiata. Con il profumo del pane appena sfornato si riempì il naso nei pressi della scalinata in pietra, a lato della costruzione. Solo allora il prepotente ruggito della fame si fece sentire e quando il signor Grandonda, uscendo da casa, porse loro due pagnotte fumanti, pensò che avrebbe potuto scambiare ogni medaglione che esisteva al mondo per un altro po' di quella bontà.

"Una novizia, Mae? Ne arrivano a frotte ultimamente, eh?" chiese l'anziano, scrollandosi alcune briciole di pane dai folti baffi bianchi, le cui punte culminavano quasi all'altezza delle orecchie.
Un "già" uscì a malapena dalla bocca piena di Mae.

"Vedremo se riuscirà a sopravvivere". Mentre sghignazzava, il signor Grandonda fece un cenno con la mano rugosa e le invitò a seguirlo. Per la prima volta, Isabella fu attratta dal volto dell'uomo, catturata dalla strizzata d'occhio che ricevette e, soprattutto, dal sorriso rassicurante. Pensò che il signor Grandonda fosse abituato ad elargire sorrisi di quel tipo a persone spaesate tanto quanto lo era lei. Tutto, nell'uomo, era pensato per infondere serenità: gli occhi chiari emanavano gioia da un punto appena sotto la fronte larga, le cui rughe si riversavano in cespugliose sopracciglia.

Il portamento e il modo di parlare tradivano un'educazione quasi regale, che poco si abbinava con l'aderente maglia bianca piena di macchie di unto. Trovò qualcosa di estremamente familiare nel signor Grandonda, qualcosa che Isabella non riuscì a collocare nella memoria, ma che le diede una lieve sensazione di disagio.

Percorsero una scalinata di pietra, che torreggiava sopra un lungo corridoio su cui si affacciavano innumerevoli porte. Il signor Grandonda sparì dentro una di esse e, mentre Mae si affrettava a seguirlo, una vampata di squisiti odori fece brontolare lo stomaco di Isabella.
Dopo essere entrata in cucina e non appena la buona educazione lo concesse, Isabella si sedette a tavola e divorò voracemente qualsiasi cosa il signor Grandonda vi poggiasse. Non provò neanche a gustare i sapori, tanto era presa dal miscuglio di sensazioni fatte di gratitudine e fumose spirali provenienti dallo stufato di cipolle e formaggio. Non si curò nemmeno delle rapide parole tra Mae e il signor Grandonda.

"...è vero quello che si dice? Proprio come sette anni fa?". Mae borbottò qualcosa in risposta. "Anche i bambini? - sbottò Grandonda - Ma dove...?". Mae placò lo sdegno dell'uomo con gesti solleciti e si immersero di nuovo nei loro sussurri che si protrassero, in tutta la loro gravità e concitazione, finché Grandonda si rivolse ad Isabella.

"Sei pronta per questa nuova avventura? Mae mi hai detto che hai fatto conoscenza con le mie asine stamattina!".
Isabella rabbrividì al ricordo di quello strano incontro e, con la bocca colma del pane che accompagnava lo stufato, non potè far altro che annuire.
"Non avevi mai visto un animale dal vivo?". Isabella scosse il capo.
"Per tutte le caciotte d'asina! Allora è vero! - l'incredulità portò il signor Grandonda a darsi una vigorosa manata su una coscia e, di scatto, ruotò il capo verso Mae - Almeno sa parlare?".

"Certo che so parlare, Signore. Mi scusi...".
"Ah molto bene, molto bene - la interruppe l'uomo, che non si era accorto dello scambio di sguardi di fuoco tra le due - Ora che ti osservo bene, Isabella, mi sembra di conoscerti già. E' possibile che ci siamo già incontrati? Sai, la vecchiaia...la memoria...". Mentre un brivido gelido correva lungo la schiena di Isabella, il signor Grandonda continuò a borbottare sommessamente qualcosa sulla vecchiaia. Anche a lei era sembrato un volto familiare.

"...dopotutto non possiamo mica restare giovani per sempre come il nostro Imperatore, no?".
"Non ci conosciamo - sbottò Isabella contro lo sguardo indagatore di Mae - ma è possibile che ci siamo già incontrati da qualche parte. In fondo il Regno è piccolo!".

"Questo è certo! - valutò il signor Grandonda, continuando a sprizzare allegria - è tutto il resto che è grande!".
"Cosa intende per tutto il resto?" chiese Isabella, sollevata Grandonda le avesse offerto così rapidamente uno spunto per cambiare discorso.
"Il mondo intero! Il mondo...con tutti gli altri Regni!". Il Signor Grandonda allargò le braccia per farle capire bene l'immensità cui si riferiva.
"Ma questo è l'Unico Regno! Non avrò mai visto un animale dal vivo ma ho ricevuto una buona istruzione".

"Ottima, a quanto pare!" intervenne Mae con sarcasmo.
Il signor Grandonda si prese un po' di tempo prima di risponderle.
"Qua nessuno vuole prenderti in giro. Ti parlo di fatti, Isabella, non di fandonie imperiali".
"E' inutile! Isabella ha orecchie solo per le cose che già conosce". L'espressione con cui Mae sottolineò quelle parole, le fecero sembrare la cosa peggiore che esistesse al mondo. Grandonda, dal canto suo, prese posto vicino ad Isabella con fare accomodante.

"In questo Regno le menzogne diventano verità e le verità sono trasformate nelle più bieche menzogne e bisogna stare molto attenti a fidarsi di quello che ci viene detto.
"Unico Regno, ti hanno insegnato? Ebbene, io sono una testimonianza vivente di quanto ciò non sia vero". Il signor Grandonda indicò una vecchia fotografia ingiallita, attaccata alla parete.

"Il mio bis-bis nonno, ghaiese di nascita, sposò un'egiriana".
Nonostante Isabella stesse ancora lottando con lo scetticismo, si alzò e si avvicinò alla foto. Una coppia di giovani sposi lanciava sorrisi smaglianti dalla prua di una imbarcazione adornata di fiori. Lei era bellissima, in un vestito semplice che le cadeva addosso leggero come fosse fatto di acqua, ma ciò che più attirò l'attenzione di Isabella fu il volto di lui. Aveva la carnagione scura e gli occhi neri fissi sulla sua sposa, con una tale espressione d'amore che Isabella distolse lo sguardo, per non violare quel momento intimo impresso nella memoria della carta. Ciò di cui era certa era che in tutta Ardesia non esisteva neanche una pozzanghera, figurarsi una distesa d'acqua su cui festeggiare un matrimonio a bordo di una barca.

"Che posto è quello?" domandò col fiato mozzato dal desiderio.
"E' tradizione egiriana che i matrimoni si celebrino a casa delle spose, Isabella. Quella è l'Egira, il Regno delle Acque Poderose". Chiedendosi ancora se quello non fosse tutto un grande scherzo, Isabella lanciò un'ultima occhiata furtiva alla coppia felice e si sedette nuovamente al suo posto.

"Come mai, allora, i libri parlano solo dell'Unico Regno?". Quella era proprio una bella mossa, esultò Isabella dentro di se: c'era forse qualcosa di più veritiero delle parole impresse sulla carta?
"Non essere così saccente, ragazzina!" la ammonì Mae.
"Voglio chiederti io una cosa - intervenne Grandonda, provando a placare gli animi con un tono calmo e diplomatico - Cosa hai pensato dopo aver visto la fotografia?".
"Che se davvero esiste, mi piacerebbe visitare quel posto...".

"Esatto! Ora capisci? Ancora non sei convinta della sua esistenza, ma già ti ha incuriosito. E' propio la curiosità il primo nemico dell'Impero.
"Non è di certo l'unico motivo, ma Ardesia vuole convincere i giovani pieni di speranze come te di non avere alternative. Chi mai vorrebbe vivere qua, altrimenti?".
"Non esageriamo - intervenne Mae facendo la voce grossa - un sacco di persone vogliono vivere qua. Questa è la nostra terra, dopotutto. Vogliamo solo vivere a modo nostro".
"Si riduce tutto a una questione di scelte, Mae - chiosò il signor Grandonda - L'uomo libero è l'uomo che può scegliere".

Isabella non sapeva cosa rispondere. Aveva senso, quanto diceva il signor Grandonda ma la ragazza faticava a scrollarsi di dosso le sue convinzioni. Non che non volesse crederci, ma una parte della sua mente restava radicata laddove le avevano detto che doveva stare: nell'Unico Regno.
"E' una bella storia. Ma ho studiato le mappe, ho visto i confini del Regno disegnati su di esse!".
"Fandonie! Bugie e menzogne, ecco cosa sono!" sbottò Mae.

"La ragazza non capirà se le sbraiti contro - la riprese il signor Grandonda, rivolgendosi poi a Isabella con il suo sorriso caldo - le Tradizioni valgono più di qualsiasi mappa su cui tu abbia studiato. Nei tempi in cui la memoria valeva più dell'oro, i Cantastorie ci regalavano la conoscenza delle Tradizioni.
"Ora sono quasi tutte perdute, perché la prima cosa che ha fatto l'Impero è stata eliminare chi avesse memoria del passato.
"Nel luogo dove stai andando, studierai quel poco che ci è rimasto delle Tradizioni, ma voglio darti un consiglio. Cerca i Lungavita e apriti alla loro conoscenza. Non ti chiedo di fidarti delle parole di un vecchio smemorato, ne di quanto potrai apprendere d'ora in avanti. Trova un Lungavita e non potrai fare a meno di capire, su questo puoi giurarci".

Nonostante fosse ancora abbarbicata strettamente alle conoscenze che aveva, le parole del signor Grandonda scaldarono il cuore di Isabella per l'infinito cunicolo sotterrano che lei e Mae dovettero percorrere.

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