CAPITOLO 15 - IL COLPO DELL'ARIETE
Il Duca attraversò il cortile con passo deciso, girando attorno alla rimessa delle armi e tirando verso ovest. Salutò i soldati di guardia all'ingresso della Casermetta ed entrò nell'ala ovest dell'edificio dalla porta di servizio. Con poche e sicure svolte, si ritrovò davanti allo Scalone della Vittoria. A Palazzo Imperiale, così come in tutto l'Impero, era usanza attribuire alle cose nomi pomposi ed evocativi e non era difficile intuire a quale trionfo si volesse riportare l'attenzione in quella porzione di Palazzo.
Il Duca salì i grossi scalini in marmo bianco a due a due e, come al solito, non potè fare a meno di soffermarsi sugli affreschi. Le figure a grandezza d'uomo che accompagnavano la risalita rappresentavano la supremazia dell'uomo dell'Impero su esseri infinitamente più piccoli, la cui caratteristica comune era quella d'esser ritratti con fattezze di animali. I Diversi.
Un soldato, anche più alto del Duca, torreggiava all'inizio dello Scalone, dando avvio alla sequenza di immagini tanto terribili quanto realistiche. Con le mani rivolte verso il cielo ed una espressione assetata di sangue, afferrava un uomo cui erano state dipinte le ali nere del corvo ed era in procinto di spezzarle. Poco più avanti, una squadriglia immobilizzava un essere con la testa di lupo ed il corpo umano: alcuni gli aprivano le fauci, altri si facevano beffe di lui ed il militare che, nella scena, era il più grande di tutti gli conficcava una lancia in bocca. Era un infinito susseguirsi di crudeltà, torture e morte che, secondo il Duca, trovava il suo culmine tre rampe più in alto, quando la fiamma imperiale, tenuta da un giovane ardesiano, veniva usata per dar fuoco alla testa mostruosamente umanizzata di un cigno selvatico.
Il Duca trovava estremamente curioso il fatto che, per raggiungere la sua stanza, doveva ogni volta ripercorrere lo sterminio della sua gente. Se, da giovane soldato, era stato sopraffatto più e più volte da quelle immagini cruente, ora gli erano di monito.
"Se ti scoprissero - gli dicevano - faresti una fine molto peggiore".
Il Duca aveva molto da fare: le voci sui rapimenti di bambini e giovani di Fulgida si stavano facendo sempre più insistenti e lui non poteva occuparsene perché, come aveva previsto, gli uomini di Mechlis gli stavano dando del filo da torcere.
I tre si aggiravano per il Palazzo come lupi affamati nella foresta. In pochi giorni di permanenza, avevano spulciato ogni angolo, parlato con ogni soldato, interrogato ogni servo rimasto a Palazzo. La cosa incredibile era che non avevano fatto neanche un passo falso e il Duca, che li seguiva pedissequamente a caccia di un pretesto, era da un lato ammirato, dall'altro preoccupato.
Non era ancora riuscito a capire cosa stessero cercando, ad esempio. Ne, tantomeno, che fine facesse quello che, a turno, ogni notte si allontanava da Palazzo.
Come se non bastassero quei tre crucci ambulanti, il Duca aveva anche altro a cui pensare: sembrava che, in quel periodo, nessuno volesse restare a Palazzo.
Il Principe era sparito. Lo aveva cercato, aveva chiesto di lui, lo aveva aspettato per il pranzo ed era persino andato a controllare nelle sue stanze. Niente.
"L'ultimo figlio rimasto all'Imperatore di Ardesia manca da mezza giornata e nessuno di voi si preoccupa di dove sia finito?" aveva urlato ai soldati di guardia alle zone private del Principe.
In realtà, stava recitando la sua parte e tutti lo sapevano. Gli uomini erano scattati in piedi, pronti all'azione, e poi si erano ritrovati a rivolgersi sguardi spaesati senza sapere bene cosa fare. Nessuno osava dire a voce alta che il Principe si trovava nel bordello del paese, probabilmente ubriaco e perso tra le braccia di qualche prostituta.
In ogni caso, meglio così. Un Principe ubriaco e soddisfatto a La Signora delle Viole era meglio di un Principe ubriaco e di cattivo umore a Palazzo. Avrebbe avuto modo di rimetterlo sui ranghi l'indomani: quella sera, dopotutto, aveva ancora altro da fare.
Aveva lasciato le stanze private del Principe e attraversato il Palazzo lentamente, controllando che tutto fosse esattamente dove doveva essere. Arrivato al cospetto del Grande Arazzo di Fuoco, che occupava tutto il lato destro del corridoio del terzo piano, il Duca lanciò il segnale. Due tocchi sulla prima fiamma, un tocco sulla seconda, tre tocchi sulla terza. A chiunque avesse guardato dall'esterno, sarebbe parso un accurato esame della tela. Aspettò qualche minuto e poi proseguì, sempre lentamente, tenendosi ben vicino all'arazzo.
Quando vide due piccoli piedini nudi spuntare sotto di esso, sorrise.
"Ciao Lyn. Ti avevo detto che sarei tornato presto".
"Con del cioccolato. Mi avevi detto del cioccolato" puntualizzò la bambina, prendendo a camminare assieme a lui dall'altra parte della tela. Il Duca ghignò: aveva insegnato lui a Lyn che non si da niente per niente.
"Ce l'ho proprio qua, in tasca - il Duca fece frusciare la carta del dolce a conferma della promessa mantenuta - tu invece cosa hai per me?".
"Due hanno appena finito di mangiare e tra poco dormiranno stecchiti - annunciò con soddisfazione - il terzo è in giro per il Palazzo. Non ha voluto ne mangiare ne bere quindi credo che non dormirà".
"Va bene Lyn, sei stata brava". Arrivato alla fine dell'arazzo, il Duca si abbassò a controllare l'orlo esterno e passò a Lyn l'incarto con il cioccolato. La mano sporca della bambina si sporse brevemente ed afferrò con voracità il dolce; senza fare il minimo rumore, Lyn si rituffò negli intricati cunicoli di Palazzo.
Il Duca percorse il corridoio all'indietro, riflettendo su quello che la sua piccola amica gli aveva riferito. Con un rapida svolta, si incuneò in un sottoscala e, nel buio, andò a tastoni finché non trovò la fessura nella parete. Premette con forza ed aprì il pannello di legno che dava su uno dei passaggi di servizio. Il Palazzo era pieno di quei piccoli cunicoli che correvano lungo tutte le mura, costeggiando i corridoi, formando scale parallele e abbracciando ogni stanza. Una sorta di palazzo nel Palazzo.
"Laddove c'è un muro, puoi star certo che dietro vi sia un passaggio per la servitù e uno schiavo ad ascoltare" era stato l'unico lascito di quello che, prima di lui, aveva avuto il ruolo di Capitano Protettore del Palazzo Imperiale.
Percorse un'infinità di stretti passaggi di pietra, freddi e bui, e sbucò proprio all'inizio del corridoio su cui si affacciava la sua stanza, al quinto piano dell'ala ovest. Aprì lentamente la porta nascosta dietro un mobile pieno di argenteria impolverata e si affacciò per controllare che la via fosse libera.
Uno si trovava davanti alla porta della stanza del Duca. Incredulo, sbatté gli occhi ripetutamente per essere certo d'aver visto bene: il Duca non era nuovo alle cose strane ma, in quel momento, dovette ammettere che Uno lo era più di molte altre.
Il palmo di Uno era aperto e rivolto verso la serratura. Già questo, di per se, sarebbe stato sufficiente a far rabbrividire il Duca ma la vera cosa raccapricciante era che, dalla pelle dell'uomo proprio al centro della mano, spuntava una specie di lungo artiglio nero. Come avvertendo una presenza non gradita, lo spunzone si ritrasse immediatamente e Uno si sbrigò a nascondere la mano nella lunga manica. Non fu rapido come credette e il Duca riuscì a vedere una bocca spalancata verso l'alto, marchiata sul polso. Con fare sicuro, Uno ruotò su se stesso e prese a passeggiare tranquillamente nel corridoio, rivolgendo le spalle al Duca.
"Le passeggiate serali non sono viste di buon occhio a Fulgida" esordì, dopo essersi portato in bella vista ed aver percorso qualche metro. Uno non diede segno d'esser stato colto di sorpresa e anzi si girò lentamente, in modo molto misurato.
"Sarà bene allora che cominciate ad abituarvi" rispose con finta cordialità.
Il Duca arrivò fino alla porta della sua stanza e lì si fermò. Sotto lo sguardò attento di Uno, gettò una rapida occhiata al pomello.
"Se è così che passate il tempo - disse indicando rapidamente la maniglia, malconcia ma ancora solida - sarò costretto a chiedere al nostro Imperatore di impiegare le risorse in modo più opportuno".
Uno diede una rapida scrollata di spalle.
"Sono appena arrivato, Duca. Mi dia almeno il tempo di ambientarmi".
"Il Palazzo è a sua disposizione. Ma, purtroppo per lei, non credo che riuscirà a capire che in questo luogo ottiene di più chi usa la gentilezza" e, con un gesto teatrale, il Duca poggiò la mano sul pomello, diede un lieve colpetto e la porta gli si spalancò davanti.
Quando fu solo nella sua stanza, il Duca sospirò: avrebbe dovuto affrontare la questione quanto prima. Al suo rientro, quella notte stessa o la mattina successiva al massimo. In quel momento, tuttavia, aveva altro per la testa. Si mosse rapido: si spogliò della divisa e la ripose ordinatamente, si sciacquò accuratamente le mani e il volto, rinfrescandosi sopra il catino di rame e poi infilò le mani nel profondo della sacca, tirandone fuori gli abiti da civile.
Una volta che si fu completamente vestito e che ebbe indossato il lungo mantello nero in lana cotta, il Duca aprì la finestra e inspirò violentemente l'aria di Fulgida.
Si lasciò inebriare dall'odore della sua terra ancora una volta, dall'aria sabbiosa e da quella nota pulita, alla lavanda, che da lontano giunse fino a lui, trasportata dal vento.
Accantonò i suoi problemi con Uno e si sporse quel tanto che bastò per toccare la parete del Palazzo, restando poi in attesa. Lo sentì arrivare ancor prima di vederlo: il grosso tralcio di legno gli si insinuò sotto la mano e continuò la sua corsa fino al tetto dell'edificio, rafforzandosi sempre di più mano a mano che cresceva.
Il Duca lo afferrò saldamente e si lanciò nel vuoto nero della notte. Dopo essersi issato sul tetto del Palazzo, camminò fino al punto più estremo dell'ala ovest da dove, affacciandosi nel vuoto, si ritrovò esattamente sopra la Rupe dell'Imperatore. Al di là del baratro, i primi alberi della Foresta di Spine spuntavano timidi e radi ma ben visibili. Erano spogli e riarsi, come qualsiasi altra cosa a Fulgida, ma la loro ostilità celava la vera meta del Duca. Non perse tempo: scavalcò il parapetto che lo separava dalla Rupe, si aggrappò con le mani alla balaustra di ferro e, tirando tutti i muscoli, cercò un appiglio in cui infilare i piedi. Cominciò a discendere lungo la parete del Palazzo, attaccandosi a rampicanti che crescevano naturalmente o, all'occorrenza, facendone spuntare di nuovi.
Scese con agilità fino a che non sentì le rocce della Rupe sotto le mani e, da lì, si inoltrò di qualche metro nell'oscurità. L'aveva fatto così tante volte che sapeva perfettamente quando fermarsi: individuò subito la sporgenza nella roccia e, con qualche rapido movimento, la raggiunse.
Era in piedi, su di una minuscola punta di pietra, e dava la faccia al vuoto.
Col fiato corto, inebriato di tutte le energie che aveva in corpo, non gli ci volle molto a concentrarsi. Accumulò la forza in un unico punto, la sentì pulsare dentro di se e si accucciò lentamente, stando ben attento a non scivolare. Toccò il bordo della pietra sporgente e, in quell'attimo, si liberò della tensione raccolta, lasciando fluire all'esterno un'ondata potente e cristallina.
Mosse prima uno, poi due passi nel vuoto e, infine, si lanciò in una decisa e rapida camminata in bilico sopra al vuoto.
Sapeva perfettamente ciò che lo attendeva, eppure non era pronto. Una miriade di suoni sottili e gracidanti si accavallarono gli uni sugli altri, risalendo dalle profondità della Rupe, picchiettandogli le orecchie ed insinuandosi nella sua mente. Percepì quelle vampate di morte penetrare il ponte di aria solida sui cui poggiava i piedi, saggiandone la resistenza e mettendolo alla prova; le sentì, infine, che gli lambivano le carni, invitando le sue gambe ad un solo passo falso.
Qualunque cosa vi fosse in fondo al baratro, non gradiva che qualcuno lo attraversasse senza pagare un tributo. La Rupe dell'Imperatore aveva fame.
In quale altro posto avrebbe potuto banchettare la morte, se non nella testa di un assassino? Un fischio acuto gli trapassò la testa da parte a parte. Il Duca era immobile, sospeso in aria a metà della Rupe dell'Imperatore, mentre la Rupe stessa gli raccontava storie di morte, urlandone tutto il dolore, insinuando la fine.
Chiuse gli occhi per un istante.
State zitti!
Il ponte d'aria solida sotto di lui vacillò, mentre un potente urlo gli scoppiava nel cranio. Era la morte di Annette, l'ultima di cui si era macchiato.
"Mostra alla zia come fai zampillare l'acqua dalle mani. Alla zia piace quando lo fai" gli aveva detto una volta, quando lui si sentiva indifeso e lei gli asciugava le lacrime.
Ma ora non era indifeso e aveva imparato che l'unico modo per vincere le sue battaglie era combatterle da solo. Spalancò gli occhi e inspirò a pieni polmoni. Scosse il capo violentemente e scacciò dalla mente ogni cosa che già non vi fosse prima di cominciare ad attraversare il baratro. Prima di riprendere la traversata, impresse nuovo vigore nel ponte, assicurandosi che fosse saldo. Non eliminò quei suoni derelitti ma riuscì ad impedirgli di penetrare di nuovo nella sua testa.
Ripiombò il silenzio solo quando toccò l'alto lato della Rupe e non potè esserne più felice.
Si ritrovò molto presto nel posto in cui avrebbe passato la vita se non fosse stato un soldato dell'Impero, un Diverso e un uomo rotto nell'anima. Se fosse stato un'altra persona, avrebbe vissuto nella Foresta di Spine.
Il Duca si tirò il cappuccio del mantello di lana cotta sul capo, divenendo un tutt'uno con l'oscurità.
Non voleva altre rogne, quella sera: era una missioncina semplice semplice. Una ricognizione, se così si poteva dire. L'ultima cosa che avrebbe desiderato era creare un gran baccano con quegli sbruffoni traditori del Rifugio.
Tuttavia, al Duca non erano mai piaciute le cose semplici: conosceva tutti i sette ingressi al Rifugio eppure sceglieva sempre di utilizzare quello più impervio. "Per fare esercizio" era quanto gli diceva una parte della mente. "Per vedere se sei ancora in grado di scalare una montagna senza i tuoi trucchetti o se la vita da Capitano ti ha ammosciato le chiappe" gli rispondeva invece un'altra parte.
Scalò la parete con il consueto vigore: si lanciò da un punto ad un altro con una sicurezza che, vista dall'esterno, era pura incoscienza. Affrontò pendii ripidi con agilità, senza mai perdere un colpo. Il corpo del Duca era una perfetta macchina da guerra, temprato e addomesticato nel tempo per scattare, afferrare, saltare, volteggiare e fermarsi sempre con la massima precisione.
Aveva aggirato per metà la montagna, quando cominciò la discesa. Si rese conto di quanto stava accadendo solo quando una forza a lui sconosciuta lo respinse, spingendolo verso l'alto.
Cosa diamine stava succedendo quella sera? Conosceva le protezioni del Rifugio, ma non erano mai state così potenti. Più provava a calarsi, spingendosi verso il basso, più il Rifugio gli resisteva, tendendo una sorta di elastico che si rifiutava categoricamente di rompersi. Con il sudore che grondava sulla fronte, il Duca sapeva di avere un'unica occasione per sfondare quel muro. Smise di spingere e, con cautela, lasciò che prima uno, poi anche l'altro piede dondolassero nel vuoto, senza alcun appiglio. Si resse per qualche istante sulle mani, richiamando di nuovo a raccolta tutte le energie che aveva in corpo.
Le fiamme vive cominciarono a sgorgare dalle braccia, dal torace e dalle gambe del Duca e questi lasciò anche la presa delle mani.
Mentre il fuoco lo avvolgeva completamente come un bozzolo, restò per qualche secondo sospeso a mezz'aria, una palla avvampata stagliata a metà della parete rocciosa. Poi, di botto, l'elastico si spezzò, dando il via alla picchiata.
Le fiamme si spensero mentre il Duca precipitava. Sbatté la testa, una roccia sporgente gli aprì in due la schiena e quando, più in basso, incappò nelle prime fronde degli alberi, i rami lo punzecchiarono selvaggiamente. Poco prima dell'impatto, il Duca riprese il controllo e, facendo leva sulle gambe, si spinse con vigore in un folto gruppo di cespugli. Sarebbe stata una morte indecorosa, per un soldato dell'Unica Armata, quella di finire spezzato in due sulla vasca della Fonte della Verità.
Quando riuscì ad alzarsi, con il corpo bruciante per i dolori, non si voltò neanche a guardare i tre leoni di montagna della Fonte, ma di certo avvertì i loro ringhi come potenti brividi sulla schiena.
Il Duca era penetrato nel Rifugio. La maglietta che indossava era zuppa sulla schiena ed era certo che non si trattasse di sudore. Si avvolse strettamente in quello che rimaneva del mantello di lana cotta e, zoppicando vistosamente, si incamminò.
"...mai visto niente di simile. Chiusa, refrattaria e pericolosa: questo è il mio parere".
Nella notte del Rifugio, il Duca sentì la voce roboante ancora prima di accovacciarsi sotto la finestra di casa di Romeo. Era arrivato tardi, ma sarebbe ancora riuscito a recuperare qualche informazione.
"Ma non è malvagia, non farebbe male a una mosca. Non l'hai vista? Non hai visto i suoi occhi pieni di paura e solitudine?" Giselle era a dir poco furiosa. Sbirciando oltre il vetro, vide la crocchia scomporsi sempre di più ad ogni parola.
"Mi è stato chiesto di valutare le sue capacità, Gis, non i suoi occhi".
"Quanto mai pericolose potranno essere le capacità di una ragazzina, Romeo?". Un forte colpo dall'interno della casa fece sorridere il Duca: Giselle passava alle maniere forti.
"Temo di non poter rispondere alla tua domanda. E' diversa da qualsiasi cosa abbia visto sin ora...è potente, Gis".
"Da quando il Rifugio si fa cruccio nell'accogliere esseri diversi? Siamo diventati così attaccati a questa parvenza di sicurezza che abbiamo? A volte mi chiedo se non ci siamo abituati talmente tanto ai modi dell'Impero da farli divenire parte di noi stessi...".
"Non è una parvenza di sicurezza, Giselle. E' la sicurezza! Del Rifugio e dei suoi abitanti, verso cui noi membri anziani abbiamo una responsabilità. La ragazza è pericolosa...".
"E' per questo che va protetta! Dall'Impero e anche da...noi".
"Che vada protetta dall'Impero è vero: non possiamo di certo rimandare all'Imperatore un'arma di quella portata. Se mai dovesse trovarla...non voglio neanche immaginare cosa potrebbe farci...".
"Farci? Ti stai sentendo, Romeo? Parli come se non fosse una persona".
"Lo è. Mi chiedo solo se non sia troppo tardi per insegnarle a controllarsi...".
Il Duca seppe di avere compagnia ancora prima di sentire quei rapidi fruscii nel sottobosco.
"Ciao, Zorba" sussurrò nel buio.
Il lupo fedele a Romeo gli piantò i canini a pochi centimetri di distanza dal volto. Era in posizione di attacco e dalle sue fauci tremanti di rabbia stava per uscire il ringhio potente dell'allarme. Il Duca gli soffiò sul muso, insinuandosi nella sua mente per tranquillizzarlo e quando gli si sedette vicino, gli diede una potente grattata sulle orecchie, che gli costò una violenta piccata alla schiena.
"Il tuo padrone è quasi più diffidente di te" gli comunicò, continuando a massaggiarlo sul muso.
Sembrava che la discussione, all'interno della casa, avesse raggiunto l'apice: "Non sono sicuro che quello che mi chiedi sia giusto".
"Mi correggo, Zorba - sussurrò il Duca, senza mai smettere di accarezzare l'animale - Il tuo padrone è proprio ostinato. Ma noi lo sappiamo, vero, come convincerlo?
"Quando il canto unico squarcerà la Foresta..." il Duca intonò lo stralcio della Tradizione fissando il grosso lupo negli occhi neri. "...di tutti gli uomini l'attenzione sarà desta...". Gonfiò d'aria i polmoni più che potè, ignorando lo squarcio nella schiena che bruciava senza sosta.
"...aprite le finestre, spalancate le porte...".
Con uno scatto repentino, il Duca rivolse il volto al cielo e ululò. Zorba lo seguì a ruota, come ogni altro lupo nella Foresta di Spine.
"...l'Uno che è Due si leva alla morte!".
Passando radente al muro, il Duca lasciò Zorba sola a dirigere il coro delle potenti voci dei lupi della Foresta e sparì rapido nella notte.
Ora si che la ragazza sarebbe rimasta al Rifugio.
C'era, però, un'ultima cosa che doveva fare. Si issò rapidamente sull'albero più vicino, chiedendo al suo corpo dolorante un ulteriore sforzo e, da esso, si lanciò a folle velocità in una corsa tra le fronde, ora aggrappandosi ai rami, ora volteggiando nel vuoto tra un arbusto e un altro.
Quando finalmente atterrò sulla grande quercia di fronte alla casa nella roccia, si acquattò su un grosso ramo, facendosi scudo con le foglie fitte della chioma e finalmente, si concesse di sbirciare.
Stava dormendo sulla poltrona, con l'espressione tranquilla e beata che aveva sin da bambina. Doveva essere stanca, dopo tutto quello che aveva passato, ma era pulita, aveva mangiato e tanto gli bastava. Facendosi scudo con la miriade di foglie della quercia gigante, il Duca azzardò un sorriso e si lasciò rincuorare dal quel sonno integro e innocente.
Non si rese conto di quanto tempo passò, arrampicato sulla quercia, ad osservarla. Si riscosse con uno scatto e sparì nel nulla altrettanto velocemente solo quando Isabella si destò, posando i grossi occhi grigi dritti dentro i suoi.
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