CAPITOLO 13 - IL LUPO INDOLENTE

All'interno della camionetta che derapava a velocità folle sulla Strada del Sole, quella che spaccava l'Impero in due parti, sedevano cinque uomini: il Duca, Fauki, il soldato di sua scelta, e i tre inviati da Mechlis per alitare veleno sul collo del Duca.

Di certo, quando gli aveva comunicato che avrebbe mandato in missione anche i suoi tirapiedi, il Duca si aspettava che, a essere scomodati per l'occasione, sarebbero stati tre grossi armadi con piccole espressioni insulse, ma quei tre superavano di gran lunga ogni sua aspettativa.

Lasciò che lo sguardo vagasse nello spazio. Erano diretti a Fulgida ma prima si sarebbero fermati in ogni città che si affacciava sulla Strada del Sole per consegnare approvvigionamenti, armi e ordini. Assidra, Elivi, Neria e Lignis: sarebbe stato un viaggio lungo e spossante e, eccezion fatta per Fauki, la compagnia non era certo delle migliori.
Edoc, Deril e Uno: erano quesi i nomi con cui si erano presentati i soldati di Mechlis e, di loro, Uno era il più alto in grado. Già al momento delle presentazioni, lo avevano fatto infuriare. Il Duca non era di certo l'ultimo arrivato e sapeva benissimo che quei tre nomi erano stati inventati per l'occasione. A suo tempo, anche lui aveva conosciuto la vacuità del presentarsi con un nome diverso dal proprio ed era esattamente quello, ciò che aveva letto sui volti di Edoc, Deril e Uno, stringendo le loro mani.

Come se non bastasse il sospetto di portare nella sua terra tre uomini che non erano chi dicevano di essere, c'era qualcosa in loro che il Duca non riusciva a definire. Eppure li aveva osservati bene: due erano grossi e ben allenati, mentre il terzo, Uno, era meno robusto, con occhi taglienti ed un'espressione spietata. Non erano molte le volte in cui, da quando erano partiti, aveva avuto modo di scambiare qualche parola con quei tre ed era piuttosto certo che Edoc e Deril non ne fossero proprio capaci. In compenso, ogni volta che Uno aveva aperto bocca, il suo tono era risultato sgradevole e viscido e il Duca era certo d'aver letto la stessa impressione sul volto di Fauki.

La camionetta si arrampicava sulla strada, con un rombo sempre più intenso mano a mano che risaliva la china di Assidra. La città era gentilmente adagiata su una collinetta e, in un tempo di cui pochi avevano memoria, completamente immersa nel verde. Ora, invece, quello che dominava era il colore rosso della sabbia di Fulgida.
Il Duca era una delle poche persone nel Regno a conoscere la storia di Assidra: era la vecchia capitale e i suoi abitanti erano stati i primi, secoli addietro, ad assistere alla sanguinosa scalata al potere dell'Imperatore. Lì, nel cuore di Ardesia, erano vissuti i più grandi governanti che il Regno avesse conosciuto: da magnifici palazzi con gli interni riccamente affrescati, avevano custodito il popolo e le terre di Ardesia che, a quell'epoca, era rinomata per essere il paese più bello dell'intera Ecumenia.

Poi l'Imperatore l'aveva completamente rasa al suolo.

Aveva lasciato in piedi solo alcuni edifici che ora svettavano di imponenza tra le basse abitazioni in muratura, ricostruite dall'Impero per il popolo addomesticato. Il più alto tra tutti era, senza dubbio, quello che poi l'Impero avrebbe rinominato il Palazzo sulle Ceneri, l'antico luogo dove politica e religione si univano a doppia elica.
Con la testa nella Grotta del Brigante, il posto di Assidra che più preferiva, e il corpo appena sceso dalla camionetta, il Duca diede una vigorosa stretta di mano al Capitano Protettore del Palazzo sulle Ceneri. Gli disse che non si sarebbero fermati per più del tempo necessario a scaricare le merci dal furgone e fece un rapido cenno agli uomini di Mechlis di darsi da fare. Con piacere, notò sui loro volti lo sconcerto e il fastidio per l'ordine appena ricevuto, ma non si tirarono indietro.

Si trovava sulla lunga piazza che precedeva la facciata principale del Palazzo sulle Ceneri. Con una stretta al torace, il Duca osservò che era rossa anche quella, come tutto ad Ardesia: per un secondo gli mancò l'aria e si costrinse ad inspirare profondamente. Era stata ridipinta dopo l'avvento dell'Imperatore ma, perlomeno nella sua mente, il Palazzo sulle Ceneri era ancora bianco. Sulla piazza, si affacciava la lunga serie di baracche grigiastre in cui vivevano gli uomini dell'Unica Armata, fissi lì per controllare che nessuno, neanche una mosca, entrasse nel Palazzo.

"Capitano! - lo chiamò il Duca, facendoglisi vicino - avete ancora problemi con quei...com'è che li avete chiamati?". Il Duca sapeva benissimo come li avevano chiamati, ma volle sembrare noncurante.
"I Secolari - il Capitano gettò uno sguardo sul grosso rosone della facciata principale, poi sospirò - devo ammettere che i canti che sentiamo di notte si fanno ogni giorno più audaci e inquietanti. Non capiamo come sia possibile...".
Già, perché quell'edificio magnifico era stato lasciato lì per ricordare agli assidriani il loro annientamento fisico e spirituale, ma a nessuno, neanche all'esercito, era consentito entrarvi. Il Duca avrebbe pagato con tutto il suo oro per poter varcare gli immensi battenti in legno, soprattutto perché circolavano quelle voci tra i soldati. Dicevano che l'antico gruppo religioso di Assidra si fosse ricostituito e dicevano che, in qualche modo, l'avesse fatto proprio dentro al Palazzo sulle Ceneri dal quale, di notte, i soldati sentivano provenire canti mistici e agghiaccianti.
"Avete chiesto il permesso di entrare?".
"Certo! Mi manca solo di chiederlo all'Imperatore in persona, ma da Città Imperiale arrivano solo scherni e divieti. L'ultimo con cui ho parlato mi ha risposto che di notte i soldati devono dormire, che non siamo mica Demoni della Guardia Ombra".

Mentre il Capitano Protettore del Palazzo sulle Ceneri si allontanava scuotendo il capo, il Duca osservò prima Fauki e poi gli uomini di Mechlis che finivano di scaricare le casse d'acqua dal furgone.
Demoni della Guardia Ombra, aveva detto. Il Duca si passò una mano tra i capelli, come sempre faceva quando qualcosa lo preoccupava.

Continuò a lambiccarsi il cervello anche mentre si lasciavano la misteriosa Assidra alle spalle, scendendo rapidamente lungo il fianco della collina in direzione Elivi. Il secondo paese che avrebbero raggiunto era molto più piccolo di Assidra, e anche molto meno interessante a dirla tutta. Era un delicato borgo di casette in pietra, di cui era impossibile dire per quale motivo l'Imperatore vi avesse messo l'Unica Armata a presidio fisso. L'unica particolarità evidente, secondo il Duca, era la grossa fontana che occupava gran parte della piazza centrale: imponenti e bellissime statue di esseri che avevano ben poco di umano, poggiavano i piedi a bagno, osservando la cittadinanza e spruzzando acqua in memoria di un prestigio ormai dimenticato.

La loro sosta ad Elivi fu molto più breve di quanto il Duca avesse pensato: c'era un solo soldato ad attenderli il quale, in modo piuttosto vago e imbarazzato, si era scusato per l'assenza del Capitano Protettore della città, dicendo che era stato richiamato a sovrintendere alcune operazioni nella prima periferia.
Se, in altre circostanze, il Duca avrebbe preteso di avere maggiori informazioni, quel giorno lasciò perdere. Era distratto dagli uomini di Mechlis che ad Elivi, come ad Assidra, non avevano mai smesso di comportarsi in modo sospetto. Non solo reagivano male agli ordini, quando il Duca comandava loro di fare qualcosa, ma li eseguivano anche in maniera svogliata e disordinata, parlottando tra di loro, indicandosi a vicenda punti di interesse nelle abitazioni circostanti e continuando a sussurrarsi valutazioni, nonostante i richiami del Duca. Come se volessero dar a vedere tutta la loro insofferenza verso la sua autorità.

Aveva visto così tanti soldati in vita sua che su una cosa sola avrebbe potuto mettere la mano sul Fuoco Fatuo: non solo quei tre avevano nomi falsi, ma non erano neanche soldati.

Ebbe la stessa sensazione anche a Neria, che nei tempi antichi era nota come il Borgo dei Fiori e invece ora era riarsa quasi quanto il Deserto Rosso, ma la conferma gli arrivò quando approdarono a Lignis.

Era, dopo Assidra, la più grande delle quattro cittadine in cui si sarebbero fermati quel giorno. Divisa da due strade perfettamente perpendicolari, Lignis vantava quattro porte d'accesso alla città. Erano quattro grossi archi in pietra rosa, con battenti in legno scuro dei quali veniva aperta solo una piccola porticina, per tenere sempre sotto controllo chi entrava. Lignis, diversamente dalle altre, racchiudeva le sue ricchezze all'interno: era costellata di botteghe dove esperti artigiani si spaccavano la schiena, producendo senza sosta oggetti di ogni tipo, dalle candele alle stoffe, che l'Impero poi distribuiva nella restante Ardesia.
Il Duca e Fauki diedero ben presto lo stacco agli uomini di Mechlis.

"Assaggiate un raviolo! Li ho fatti io, con le mie mani!" una vecchietta sdentata richiamò la loro attenzione, dall'interno di una cucina a piano terra. Si appoggiava al tavolo sopra cui aveva ordinato, l'uno a fianco all'altro, dei piccoli ravioli ripieni che stava finendo di preparare.
"No, grazie!" risposero all'unisono. La signora sorrise e tornò alle sue faccende.
"Non hanno paura dell'esercito?" borbottò Fauki. In effetti, lo aveva notato anche il Duca: passando nel centro di Lignis, tutte le persone che avevano incontrato erano incuriosite da loro, non intimorite come avrebbero dovuto essere. Anche gli anziani, che passavano il loro tempo seduti in gruppetti di quattro o cinque, sorridevano ai soldati e alzavano educatamente le mani in gesto di saluto. Eppure, avrebbero dovuto avere la memoria ancora ben affacciata sulla ferocia dell'Unica Armata.

L'avrebbe chiesto al Capitano Protettore della Città di Lignis se solo, una volta arrivati alla piazza centrale, non fosse stato distratto dal furibondo litigio di due ragazzini, proprio sotto la scalinata del Palazzo dei Mestieri. Li raggiunse a grandi passi e, prendendoli per un braccio, li divise, avendo cura di tenerli lontani finché non si fossero calmati.

Il Duca non aveva molti rapporti col popolo ma si aspettava, chissà per quale motivo, di vedere il terrore nei loro occhi una volta che si fossero trovati di fronte ad un soldato dell'Unica Armata. I due ragazzi, invece, proprio come gli anziani di Lignis, lo salutarono gentilmente e poi tornarono a guardarsi in cagnesco.

"Che cosa è successo qua?" chiese infine, portando la faccia all'altezza di quelle dei due litiganti.
"Lui! - esclamò il più grande, a modi giustificazione - Lui fa cose strane e non vuole dirmi come fa a farle!".
"Non lo so! Gliel'ho già detto...". I due ragazzi ripresero ad urlare, ma col Duca tra di loro non riuscirono ad afferrarsi. Sarebbe stata una scena piuttosto divertente se il Duca non avesse capito immediatamente qual era il motivo del contendere. Il piccolo era Diverso. Non fece neanche in tempo a formulare il pensiero che un alito gelato sulla schiena lo costrinse a voltarsi di scatto.
"Mi incuriosiva il motivo della lite" soffiò Uno, noncurante dello sguardo severo del suo diretto superiore.
"Soldato!" lo richiamò il Duca e, ancora una volta, lesse sul volto dell'uomo il fastidio di essere chiamato in quel modo. "Il tuo compito è aiutare i tuoi compagni a scaricare le merci, non essere incuriosito: non è una scampagnata, questa!". In tutta risposta, Uno piantò gli occhi sul più piccolo dei due: era come se stesse cercando di catturare la sua immagine e il Duca ebbe l'impulso di cacciarlo, di frapporsi tra loro, di fare qualsiasi cosa per mettere in salvo il ragazzino. Poi quell'attimo passò, Uno scrollò le spalle, mormorò un "sissignore" e tornò dai suoi compagni.

"Dove sono i vostri genitori?". I ragazzi indicarono una viuzza che, dalla piazza centrale, scendeva verso destra. "Portategli questi e dite loro che dovete trasferirvi in un'altra città. E' un ordine!".
Il Duca li osservò sparire nei meandri di Lignis con molto più oro in mano di quanto ne avrebbero visto in tutta una vita. Avrebbe dovuto parlare direttamente con i genitori, ma sapeva di avere gli occhi di Uno addosso.
Infatti, scoprì voltandosi, così era. Un opprimente peso sul petto accompagnò il Duca per la breve permanenza a Lignis e, anche dopo, per tutto il viaggio che da lì li condusse pian piano a Fulgida.

Riconobbe la sua terra prima per il brivido caldo che gli percorse la nuca e poi perché la strada si era fatta particolarmente impervia.
"Tutto bene, Signore?".
Più si avvicinavano al deserto, più nella camionetta faceva un caldo infernale e il puzzo del sudore dei cinque uomini non ci mise molto a impregnare l'aria.
"Come?". Il Duca si riscosse dal torpore, sollevando la mano per massaggiarsi la fronte appiccicosa. Alla prima, mancò il colpo. In quel tratto, la Strada del Sole era sterrata e disseminata di buche e il soldato alla guida non doveva curarsene molto perché, sul retro, i passeggeri sobbalzavano di continuo.
"Ho chiesto se è tutto apposto, Signore. Stava sognando e mi era sembrato che non stesse molto bene...". Fauki era in apprensione.
"Non sogno più da secoli..." commentò, lasciando che le sue parole scomparissero sotto il rombo potente della camionetta.

Come leggendo nei suoi pensieri, Uno gli rivolse un viscido ghigno.
"Sembra che lei non risenta dei disagi della Strada del Sole, Duca". osservò con tono mellifluo, prendendosi la licenza di insinuare cose che chiunque altro non avesse avuto le spalle coperte da Mechlis, avrebbe avuto paura anche solo a pensare.
"I soldati si addestrano al disagio; voi, piuttosto, non sembrate gradire molto il viaggio!".
"Suppongo che gradiremo di più la permanenza a Fulgida...".

Il Duca stava per scattare dal sedile. Si aggrappò al bracciolo, pronto per darsi la spinta, quando un colpo dalla cabina di guida rimbombò nel retro della camionetta e il suo cuore pompò con nuovo vigore.
"Maschere". Diede l'ordine con neutralità, ma stava aspettando quel momento da quando erano partiti da Città Imperiale. Si coprì il volto un secondo prima che una nube rossa invadesse l'abitacolo. La sabbia rovente era il primo atto di benvenuto della città ai visitatori.
Era poco più di pomeriggio inoltrato e Fulgida si apprestava ad accogliere il tramonto.

Il suo momento preferito della giornata da sempre. Quando il sole toccava la linea irregolare dei Monti Neri per poi continuare la sua discesa dietro di essi, esattamente nella parte opposta di Fulgida, laddove la città si fondeva col Deserto e il Deserto penetrava la città, l'oscurità aveva già avuto la meglio. E con la sua complice più inafferrabile a coprirgli le spalle, il Duca non aveva bisogno d'altro.

La camionetta varcò il cancello e, dopo aver percorso un buon tratto tortuoso e accidentato, arrivò finalmente al cospetto del Palazzo Imperiale di Fulgida, spegnendosi con un frullio vaporoso per niente confortante. Il Duca fu l'ultimo a scendere, si assicurò che l'abitacolo fosse vuoto e, un attimo prima di saltare giù dal furgone, si concesse quello che aspettava da giorni.

Sollevò gli occhi sul Palazzo Imperiale e, finalmente e nonostante tutto, espirò. Il Centro del Mondo. Secondo un'antica diceria, Fulgida sorgeva precisamente al centro dell'Unico Regno e il Palazzo era stato costruito proprio al centro di Fulgida, esattamente a metà tra i Monti Neri e le prime dune del Deserto.
Diceria o no, quel Palazzo era il Centro del Mondo e valeva ogni lettera di quella definizione.
Un Palazzo di dimensioni mastodontiche, che dominava la città da una collinetta e che, nel tempo, si era arricchito di nuove aggiunte, fino a diventare esso stesso la collina. Un Palazzo raffinato ed elegante, di quelli che tutto si penserebbe tranne che siano abitati per la maggior parte da battaglioni di soldati grezzi e ignoranti. Ciò che più affascinava il Duca, tuttavia, era il suo colore: non rosso, come tutti gli altri edifici imperiali. La sottile e onnipresente sabbia di Fulgida rendeva già tutto rosso: le strade, gli edifici e, a volte anche le persone. Il Palazzo Imperiale di Fulgida era azzurro come il cielo, era una boccata d'aria fresca in quel panorama riarso e asfissiante.

Era, tra le altre cose, uno dei motivi per cui il Duca preferiva così tanto Fulgida a Città Imperiale: in quale altro luogo, in tutto il Regno intero, l'esercito era di stanza non in una baraccopoli, ma in una parte del Palazzo che, un tempo, era stato residenza estiva della famiglia imperiale?
Non appena toccò il cortile ghiaioso, il suono del corno riempì l'aria e rimbombò per tutta la valle, accompagnando la salita della bandiera con il suo stemma, che veniva issata a fianco di quella imperiale.

Il Capitano era tornato, l'aquila nera a due teste vegliava di nuovo su Fulgida e sul Palazzo Imperiale. Era una cerimonia che, ogni volta, lo riempiva di orgoglio, ma quel giorno aveva un sapore amaro: aveva portato con se i tirapiedi di Mechlis, che non erano soldati e non erano uomini, e il Duca non era certo che le due teste dell'aquila sarebbero bastate a tenere tutto sotto controllo.

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