CAPITOLO 12 - I COGUARI AFFAMATI

"E' per questo che li chiamate Diversi?" si scandalizzò Isabella con la voce acuta dell'agitazione. Trotterellava dietro Mae, mentre attraversavano il Rifugio dirette chissà dove su ordine del Consiglio dei Nove. Si erano riuniti, le aveva spiegato Giselle, e il dibattito su di lei era stato piuttosto acceso ma, alla fine, considerata la sua volontà e, ancor più, le indomabili pressioni di Petra, avevano acconsentito.

Quello era il giorno del Setaccio.

"Noi non li chiamiamo in quel modo...".
"Come li chiamate, allora?"
"Esseri umani" Mae pronunciò le due parole lentamente, scandendo con acidità ogni lettera.
"E' proprio un bene, allora, che io sia arrivata qua...". Mentre prendevano un sentiero laterale che si inerpicava nel folto della foresta, Isabella voleva solo continuare a parlare, per evitare di pensare a quanto la attendeva.
"Non ci giurerei: anche il Rifugio ha i suoi peccati".
"Quali peccati? Anche quei ragazzi che spariscono sono Diversi?".
"Sei troppo giovane per leggere i giornali - Mae le puntò contro un dito - Non usiamo il termine Diversi, per nessuna ragione".
"Perché?".
"Perché, mio malgrado, è l'unica cosa rimasta che possiamo fare per loro".

Il sentiero si era fatto più ripido e Isabella dovette aiutarsi con le mani, aggrappandosi ora al terreno ora agli arbusti, per non scivolare. Arrancava dietro Mae, soccombendo spesso e volentieri alla frustrazione causata dalla donna: era fatta di equilibrio e resistenza e, anche nei tratti più impervi, procedeva con l'agilità e la grazia di uno stambecco dei monti.

"Quali peccati?" riprese la giovane, nella speranza che la risposta avrebbe rallentato l'incedere di Mae.
"Ne ho visti alcuni, da quando sono arrivata. Se sopravviverai al Setaccio che hai tanto voluto, forse te li racconterò". Molto più della diplomatica Giselle, Mae non era mai riuscita a far mistero della sua contrarietà al Setaccio, neanche quando si era seduta di fronte a lei, nel salottino della casa nella roccia, per insegnarle come affrontarlo. "Non ti dirò come mentire: in quello sei già un portento - l'aveva strigliata, con il solito dito accusatore alzato davanti al volto - imparerai invece a manipolare la verità a tuo vantaggio". Erano seguite le ore più difficili della vita di Isabella: niente di ciò che aveva passato poteva essere paragonato ad avere Mae come insegnante.

"Da quanto tempo vivi qui al Rifugio?".
"Sei anni il prossimo mese".
"Anche tu hai fatto, il Setaccio? Voglio dire...ieri mi hai insegnato tutte quelle cose sul manipolare la verità...funzionano davvero?". Mae si fermò di botto e la osservò, come valutando le possibili implicazioni della domanda.
"No. Ero indisposta, al mio arrivo. E sì: funzionano davvero, altrimenti non avrei perso tempo".

Con quelle rapide parole, Mae riprese la marcia e pose fine alla conversazione. Isabella era ancora curiosa e si sarebbe volentieri concessa un'altra manciata di domande, ma non ebbe il coraggio di farlo. Continuò invece a camminare a testa bassa, spingendo sulle gambe all'occorrenza e con quanta più forza aveva in corpo, per affrontare il pendio sassoso e accidentato.

Non appena riuscirono a raggiungere una zona più pianeggiante, Isabella vide dove erano dirette. Davanti a una grossa parete di roccia levigata, che si arrampicava a perdita d'occhio sulla costa della montagna, c'era Romeo ad aspettarle. Alle sue spalle, mano a mano che si avvicinavano, prese forma una fonte a tre bocche, incastonata della pietra e immersa tra gli spruzzi e l'imponente scroscio dell'acqua, che poi si raccoglieva in una grossa vasca a terra.

"Sono leoni di montagna" spiegò Romeo, notando l'interesse di Isabella per le tre teste intagliate nella roccia, dalle cui fauci spalancate fuoriusciva l'acqua. Erano spaventose, con i canini di roccia affilati come se fossero veri. Sembravano assetati di sangue, pronti per l'assalto.
"Spes. Amor. Cum-pas...che c'è scritto?" Isabella strizzò gli occhi, provando a leggere meglio l'ultima delle tre scritte scolpite sopra ognuna delle teste di leone.
"Cum-passio...è un lingua antica, ormai dimenticata -  spiegò Romeo - Significa...".
"Soffrire insieme - lo anticipò Isabella - o qualcosa del genere". Non sapeva da dove avesse preso quell'informazione e, a giudicare dal sorriso tirato che le riservò, anche Romeo si stava ponendo la stessa domanda.

"Allora! Oggi è un gran giorno: sei pronta per andare?".
"Per andare dove?" mugugnò la ragazza, con lo sguardo fisso sui canini del leone di montagna.
"Ci inoltreremo nel cuore del Monte dell'Alpe". Con un lungo e noncurante passo, Romeo immerse i piedi nella vasca dei coguari e, senza che Isabella riuscisse a vedere altro, laddove fino a poco prima c'era un grugno feroce, si aprì un varco.
"E' impossibile!" si lasciò sfuggire Isabella, sporgendosi per osservare l'apertura ancora grondante d'acqua sui lati.
"Non esiste un possibile o un impossibile: esiste solo ciò che sei disposta a credere".
"Mae! Hai visto Mondo, di recente?" si informò Romeo con un'espressione divertita e poi, senza neanche dare a Mae il tempo di gettare gli occhi all'indietro, indicò il passaggio alle due donne, facendo segno di precederlo.

Accompagnati da due enormi pareti di roccia ai lati, che si allargavano e si restringevano formando tortuose onde levigate, i tre camminarono a lungo e in solenne silenzio. Isabella non riusciva a decidere se il tragitto, così flessuoso e morbido, avrebbe dovuto placare la sua angoscia o se, invece, l'atmosfera surreale delle rocce lisce dalle mille sfumature di rosa, lambite solo dalla flebile eco dei loro passi sul terriccio arido,   avrebbe aggiunto un'ulteriore peso alla sua agitazione.

Senza alcun segnale che potesse prepararla, tuttavia, si ritrovò catapultata in un enorme spazio vuoto e si immobilizzò, con la testa che girava vorticosamente. Nascosto dietro due lembi di roccia che all'apparenza sembravano toccarsi, un imponente teatro si stagliò davanti ai suoi occhi, con sedute a perdita d'occhio che risalivano fino ad altezze impensabili. Proprio sotto l'elegante emiciclo che si innalzava sulla parete montuosa quasi a toccare il cielo, una lunga serie di figurette nere erano in piedi, l'una accanto all'altra, in attesa.

Isabella stava giusto chiedendosi chi avesse potuto concepire una cosa del genere e, più di tutto, come avessero fatto a costruirla, quando si rese conto che Mae e Romeo erano già a metà dell'immensa piazza antistante il teatro. Affrettò il passo e li raggiunse e, con un'improvvisa morsa al petto, desiderò di tornare indietro. Contò otto persone e nove lupi e quando arrivò tanto vicino da poter distinguere i lunghi canini di questi ultimi, fu certa di aver fatto un grosso sbaglio a proporsi volontaria per il Setaccio. Lupi. Un'ondata di gelido panico la colse rapida e corse lungo tutto il corpo, ancor prima che potesse chiedersi il motivo della loro presenza.

"Consentitemi di dire che, un tempo, il Consiglio dei Nove faceva le cose con molto più stile!". Seduta da sola su uno dei gradoni del teatro, Petra lasciò che le sue parole risuonassero tra le pareti prima di battere le mani sonoramente per un paio di volte. "Vorrà dire che sostituirò io il pubblico delle grandi occasioni".
Nessuno si prese la briga di rispondere. Neanche i lupi sembrarono turbati dal rimbombo e pure Isabella, che normalmente avrebbe accolto le parole del vecchio tronco con astio, aveva la mente ovattata e pulsante.

"Il Consiglio dei Nove - cominciò Giselle con solennità, mentre Romeo prendeva posto al suo fianco - ha indetto il Setaccio numero uno dell'anno cinquecentoventitrè dalla fondazione del Rifugio, cui la qui presente Isabella si sottopone volontariamente.
"Urge sottolineare, per quanti fossero memori delle vecchie pratiche in uso, che è stato mio onere, oltre che volontà, richiedere mezzi più consoni ai nostri attuali valori e il Consiglio ha approvato". Un borbottio di protesta gorgogliò per qualche secondo, propagandosi rapido per tutto il teatro, prima che il lupo che si trovava al fianco di Giselle scoprisse i canini.
"Il Setaccio - riprese la donna con voce ferma - sarà comunque considerato valido e i suoi esiti, come sempre è successo dai tempi degli Interpreti a oggi, non saranno oggetto di discussioni". Isabella non sapeva chi fossero gli Interpreti o cosa volesse dire Giselle, ma era certa che, nonostante le desse le spalle, le sue parole fossero rivolte a Petra e avrebbe potuto giurare di aver visto il lupo di Giselle annuire con convinzione.

"Iniziamo?" incalzò qualcuno e un moto d'eccitazione scosse la schiera di persone, culminando nelle vigorose vibrazioni della coda del lupo dal manto più lungo.
Avrebbe dovuto presentarsi? Si aspettavano che dicesse o facesse qualcosa? Isabella si dondolò in modo impercettibile sulle gambe tremanti; aveva la gola secca, il fiato corto e una domanda martellante in testa. Ne sarebbe valsa la pena? Ciò che sarebbe venuto dopo, avrebbe in qualche modo ripagato l'angosciante sensazione di non essere all'altezza di quel luogo e di quelle persone?

"Come ti trovi qui al Rifugio?". Senza che Isabella avesse neanche il tempo di rendersi conto, la caccia alla verità, alla sua verità, era iniziata. Tuttavia, dopo l'interminabile lezione con Mae, si era aspettata che Elias, l'anziano dal volto gentile, le ponesse una domanda più impegnativa e quindi, perlomeno all'inizio, tentennò.
"Normale. Ehm, insomma...b-bene. - tirò un lungo respiro - E' che mi sembra sempre di dover essere all'altezza di qualcosa"
"Si, è dura ambientarsi all'inizio. Lo è stato anche per me. Dove hai vissuto prima?"
"Da che ho memoria, ho sempre vissuto nella periferia di Fulgida". Isabella non ebbe neanche tempo di complimentarsi con se stessa per la risposta: un leggero fastidio, come una piccola puntura, la colpì alla tempia sinistra. Scosse debolmente la testa e il dolore passò subito. Non ci fece molto caso, presa com'era a ricordarsi tutte le informazioni che le sarebbero servite a superare la prova.

Quando poteva dire la verità pura e semplice, le avevano spiegato, doveva farlo. Se c'era qualcosa che non voleva o non poteva confessare, avrebbe dovuto solo cercare la via più breve per rispondere in un modo che non era ne verità ne menzogna. "Semplice, no?" era stato, ore prima, il commento di Mae.
"Dove si trova la tua famiglia?". Tutta l'attenzione dei presenti era rivolta verso di lei ma non riusciva a distogliere lo sguardo dagli occhi di Elias. Erano immobili, fissi su di lei dalla prima domanda.
"I-io...sono sola".
"Non ne sembri molto sicura".
Il fastidio tornò, un pò più forte di prima, e Isabella si ritrovò a muoversi nervosamente sulle gambe: cosa stava succedendo? Elias non era soddisfatto: sulla sua faccia era improvvisamente comparsa una ragnatela di rughe che prima non c'erano.
"Qual era il tuo piatto preferito?".
"Il pasticcio di verdure!".
"Piace molto anche a me! Anche se non è facile trovare verdure nella periferia di Fulgida. Anzi direi che è quasi impossibile vista la mancanza d'acqua. Dove trovavate le verdure per preparare il pasticcio?"

Isabella spalancò gli occhi. Troppo avventata, come al solito. Troppo frettolosa, ingenua e sregolata. Mentre annaspava alla ricerca di una risposta degna, con noncuranza Mae si carezzò il petto, ritmicamente, sollevando a tratti il bordo della maglietta leggera. Uno scintillio attraversò la piazza e catturò l'attenzione di Isabella.
"Le rubavamo" strillò con troppa enfasi.
"A chi?".

Cominciò come una lieve pressione, questa volta dalle parti della tempia destra. Una piccola puntura - si disse - passerà come prima. Stranamente, prese a pulsare. Isabella richiamò tutta la concentrazione di cui era capace: doveva assolutamente rispondere. Una risposta che, oltretutto, non avrebbe fatto dire a Mae che tutti i loro sforzi erano stati vani.
"N-non s-saprei - espirò Isabella massaggiandosi la tempia - Non ricordo".

"Dichiari tu di essere estranea all'Impero e all'Imperatore? E di rifuggire l'Impero e l'Imperatore in ogni loro emanazione? E, inoltre, di non aver mai offerto i tuoi servigi all'Impero e all'Imperatore? E, più di ogni altra cosa, di non aver mai, in qualità di spia, servito l'Impero e l'Imperatore?". Aveva parlato in modo così veloce che Isabella passò più tempo a scacciare l'espressione da stupida sul suo volto che a ricercare qualcosa da dire.
"Andiamo Elias, è una ragazzina..." provò a intromettersi Romeo.
"E' la procedura - tagliò secco Elias, la gentilezza iniziale persa chissà dove – che risponda!".
"Io... - buttò fuori con tono vacuo e distratto dalla piccata alla testa che si faceva sempre più potente - io non sono una spia!". Lo aveva ripetuto un numero incalcolabile di volte eppure non era mai suonato così strambo come in quel momento. In fretta com'era arrivato, comunque, il dolore passò.

"Perché dici di essere sola?"
A quella domanda sapeva rispondere: con un guizzo di entusiasmo e le parole pronte ad uscire, Isabella si paralizzò. La fiammata la colpì dritta tra gli occhi, le annebbiò la vista e non potè far altro che annaspare alla ricerca di aria. Sembrava che la sua testa fosse sul punto di spaccarsi in due.
"P-perché chi mi ha cresciuto...è s-stato..." era impossibile parlare con quell'insopportabile bruciore. Isabella gemette e si portò le mani alla fronte: stava perdendo il controllo sul corpo.
"Cosa sta succedendo?" si allarmò Romeo.
Isabella provò a focalizzare il teatro, senza grandi risultati. Il dolore non accennava a diminuire e lei non sapeva più cosa fare. Avrebbe urlato volentieri, ma non poteva cedere, non in quel momento. Era questo ciò in cui consisteva quel famigerato Setaccio?

"La ragazza sta male, Elias..." Napa aveva perso un pò della consueta calma.
"No, no, no! Non di nuovo, non di nuovo..." Mae accorse vicino a Isabella ripetendo quella nenia supplicante. Voleva toccarla, allungò le mani ma poi le lasciò a mezz'aria, inorridita dalla smorfia di dolore sul volto della giovane.
"Elias smettila!" ordinò Giselle.
Il dolore cessò immediatamente, lasciandosi dietro solo poche e flebili ondate di fastidio. Con il cuore a mille, Isabella aprì gli occhi giusto in tempo per vedere cinque facce preoccupate attorno a lei.
"Che cosa era...quello?" chiese con un fil di voce.
"Elias - tuonò Romeo - spiegaci".
"E' inutile continuare. Dobbiamo riunirci, tutti i Nove".
"Siamo tutti qua, Elias. Tutti i Nove presenti e già riuniti" osservò Napa allargando le braccia a ricomprendere tutto lo spazio circostante.
Mentre Elias sembrò soppesare con lo sguardo l'oramai scomposta linea prima occupata dai Nove, Isabella inalò profondamente, cercando di trattenere dentro di sé l'amena sensazione di assenza di dolore.

Improvvisamente, fu buio.

Calma, Isabella, sarai in grado di affrontarlo.

Dall'oscurità, si levarono centinaia di figure. Per un attimo, Isabella pensò alle traballanti lanterne che levitavano, illuminando le sere del Rifugio. Si sorprese: perché avrebbe dovuto affrontare delle lanterne?
Una folata di vento gelido le squarciò una guancia.
Osservò con orrore la mano ritrarsi dal suo volto ricoperta di sangue e, improvvisamente, un urlo le gelò il sangue. Un rombo assordante accompagnava la cavalcata furente di soldati che si levavano dal buio e si gettavano verso di lei. Contro di lei. Isabella si guardò attorno: dove erano finiti tutti? Un sommesso fischio sordo si insinuò nelle orecchie. Provò a chiamare Mae, Giselle ma la voce non venne. Dove sarebbe mai potuta scappare, nell'oscurità?

Regolati con il tuo cuore, senti i battiti. Calmati.
Voi siete pazzi - urlò nella testa - dove diamine mi avete portato?
Senti i battiti, Isabella.

Entro pochi istanti, sarebbe stata travolta dall'orda. I battiti, i battiti, i battiti. Dove erano finiti i suoi battiti? Erano feroci, velocissimi, come i cavalieri che puntavano verso di lei. Si muovevano al loro ritmo, dominati dal terrore e lei non riusciva a contarli, ne a controllarli. Ne a controllarsi.
Inspirò, si dimenticò di espirare e il buio la inghiottì. Vigile, in un corpo che non era più il suo, vide le mani allargarsi improvvisamente, frapponendosi tra lei e i nemici che l'attaccavano. Il fischio nelle orecchie si fece più acuto mentre, invece, tutti quegli uomini e quelle donne, di cui ora riusciva a vedere i volti deformati dalla rabbia, si immobilizzarono.

Le mani di Isabella si serrarono in due pugni strettissimi e il livore, l'odio e il furore di cui erano pieni tutti quanti la circondavano furono improvvisamente suoi.
Una nausea prepotente la invase.
Di sicuro, la voce nella sua testa le stava dicendo qualcosa, urlava, ma lei la percepiva come un leggero battito in qualche anfratto remoto. Tutto il resto, era rabbia. Incontrollata e ribollente.

Era lei, che si sentiva colma di sporcizia e nauseata da essa e non era più lei, perché non aveva alcun controllo sul proprio corpo e non poteva liberarsi da quel malessere.
Di colpo, rapidi come erano apparsi, i soldati che Isabella aveva immobilizzato nel nulla, scomparvero.

Al loro posto, mentre il nero totale si schiariva leggermente, una nebbiolina si levò rapida, vorticò e si dissolse, lasciando spazio sulla sua destra ad un letto ampio e comodo. Quando una miriade di morbidi cuscini dalle stoffe erte e riccamente ricamate la richiamò a lanciarsi su di essi, Isabella sentì le gambe instabili e tremolanti.
Aveva bisogno di riposarsi, doveva assolutamente gettarsi sul letto e dormire. Si era avvicinata senza rendersene conto: si ritrovò ad accarezzare la superficie liscia del copriletto e poi si sedette, molleggiando sul materasso che rispose allegramente ai suoi movimenti. Nel momento in cui Isabella poggiò la testa sul cuscino, l'aria tutto attorno scoppiò.

Rapide come saette, volute di fumo nero si alzarono al ritmo degli incessanti scoppi che rimbombarono violentemente; un odore misto di sangue e fuoco le riempì le narici, mentre piccole schegge tagliavano lo spazio a velocità tale che dovette coprirsi la testa. Isabella fu travolta dal terrore. Le bombe esplodevano senza sosta e quando un colpo secco fece saltare in aria uno degli angoli inferiori del letto, si ritrovò ansimante ed aggrappata alle coperte, completamente madida di sudore.
Le urla. In tutto quel baccano, le urla di uomini tanto impauriti quanto lo era lei la spaventarono più di tutto. Alcune erano suppliche, altre erano incitazioni ma nessuna di esse era priva di quella nota di terrore che precede la morte.

Isabella vedeva solo fumo nero e udiva solo scoppi e grida di terrore. Per un solo istante, pensò di starsene la: non era la sua guerra, lei non ne sapeva niente e dopo tutto aveva così tanto bisogno di riposo, così tanto bisogno di dormire.
"Aiutatemi, vi prego".
Non vi fu bisogno di sentire altro. Isabella scattò in piedi. Non riusciva a vedere ne davanti a se, ne il terreno su cui poggiavano i suoi piedi, ma sentiva che l'aria e il suolo erano bollenti come se il mondo attorno a lei stesse andando a fuoco. Come già era successo, seppe cosa fare ancor prima di rendersene conto. Concentrò le sue energie sulla mano destra e quando sentì un piacevole formicolio alle dita, fece un gesto rapido e deciso in direzione della cortina di fumo che aveva davanti, aprendola in due e rivelando un varco nella guerra.

Quando Isabella mosse il primo passo su di esso, il boato della guerra cessò, l'aria tornò fresca e, come se tutto fosse stato risucchiato da un vortice, una nebbiolina bianca riprese a ballonzolare davanti ai suoi occhi.

"Ma che diamine!" protestò Isabella, faticando a ricordarsi il motivo per cui stava vivendo tutte quelle esperienze surreali. Con il cuore che ancora batteva al ritmo dello scoppio delle bombe, Isabella si guardò attorno nervosamente, nell'attesa che lo scenario rivelasse qualcosa.

Rivelò, invece, qualcuno.
Era un uomo, Isabella ne era certa. Una sagoma imponente e massiccia che aveva già visto, oltretutto.
Un calore strano si impossessò del corpo di Isabella, qualcosa che non aveva mai provato prima. Qualcosa che le fece sentire il bisogno irrefrenabile di avvicinarsi a quell'essere, di toccarlo.
Come se avesse espresso un desiderio, d'improvviso, si ritrovò a pochi centimetri dalle spalle dell'uomo.
Lentamente, misurando con cautela ogni movimento, Isabella sollevò la stessa mano che fino a poco prima era imbrattata di sangue e la poggiò su una scapola. Com'era piccola, confrontata con la mole massiccia dell'uomo! Ebbe il tempo di sentire i muscoli della schiena irrigidirsi sotto il suo tocco, poi l'uomo si voltò di colpo.

"Sei tu!". Non era una domanda, Isabella in qualche modo era certa che fosse lui. Sapeva perfettamente di chi fossero quegli occhi neri e profondi come la notte, quel volto duro e perfetto come la pietra di montagna e quelle labbra piene e voluttuose come le onde del mare.
Della Voce.
"Sei tu, dimmi di si!".
"Sei stata brava". Avrebbe riconosciuto quella voce tra tutte le voci del mondo.

Di nuovo con la sensazione di non essere padrona dei propri movimenti, Isabella poggiò la fronte sul petto dell'uomo. Una vita di preoccupazione le crollò addosso: aveva pensato di essere pazza, di immaginare le cose e, di più, di essersi immaginata l'unica cosa che non le permetteva di essere la persona più sola. Quando poi Nanni le aveva fatto promettere di non parlarne mai con nessuno, era stata quasi certa che fosse tutto frutto della sua follia.
Invece eccolo lì, in carne ed ossa.

Cosa si dice ad una persona quando la si vede per la prima volta ma la si conosce da sempre?
"Come ti chiami?". Era il suo più caro e vecchio amico, il suo protettore, il suo conforto, la sua ancora di salvezza. Era tutte quelle cose e non aveva neanche un nome.
Le carezze sulla schiena dell'uomo si fecero più intense. Come se stesse avvertendo l'urgenza di un tempo che non era infinito, Isabella affondò le dita nella carne della scapola.

Non poteva immaginare di lasciarlo andare. Non senza aver passato un'altra vita a parlare con lui di tutto quello che era successo fino ad allora.
"Dimmi come ti chiami, devi avere un nome. Un nome affinché io possa chiamarti".
Un respiro lento e profondo, sollevò il petto su cui Isabella posava la testa. "Devi staccarti da me, devi allontanarmi".
"Cosa?".
"Sei stata brava finora. Devi continuare a fare ciò che ti dico. Allontanami prima che sia troppo tardi".
Isabella scosse il capo. Non aveva la benché minima intenzione di rinunciare al conforto, al calore di quell'abbraccio. Non le importava di buttare all'aria tutti gli sforzi per mettersi in salvo, per guadagnarsi un posto nel Rifugio e per vivere una vita normale.

"Allontanami".
Dal corpo di Isabella si liberò un'energia vibrante, visibile, che si avvolse tutt'intorno a loro, saldando indissolubilmente quell'abbraccio.
"Hai fatto la tua scelta".
La solidità del corpo avvinghiato a quello di Isabella cominciò a venire meno. Le carezze sulla sua schiena divennero più delicate, le dita premute contro la sua carne scomparvero, il cuore che sentiva pulsare sotto le sue orecchie, smise di battere.
Isabella sollevò gli occhi terrorizzati sul volto senza nome e vi lesse una profonda tristezza. Poi scomparve.
"NO!" urlò, vacillando nel vuoto della solitudine che si era improvvisamente creato attorno a lei. Isabella urlò di nuovo e tutto attorno a lei tornò buio e freddo, com'era giusto che fosse.

Non fu difficile, per lei, ritrovare la rabbia che aveva sottratto all'orda di soldati della prima visione. La riprese, la strinse con forza tra i pugni, ma questa volta non si scordò di espirare.
Quell'uomo era suo e nessuno poteva portarglielo via. Isabella, invece, era in se ed era arrabbiata.

Espirò e liberò nell'aria circostante tutta la rabbia che aveva in corpo.
Con un boato assordante un enorme squarcio si disegnò nel terreno, sotto ai suoi piedi. Più la rabbia fluiva fuori dal suo corpo, più questo si allargava e correva e dipanava il buio che la circondava, riportandola infine nell'anfiteatro del Rifugio, dinanzi agli occhi sgomenti dei presenti.

"Che ne dici? Ora pensi sia il caso di riunirci?" gracchiò Elias, osservando la voragine che aveva tagliato in due la terra e gli spalti, facendo crollare al suo interno un numero incalcolabile di gradini. Anche Petra, che si era spostata giusto in tempo per non essere risucchiata, stava sbirciando dentro il buco nero che aveva a fianco con un'espressione piuttosto soddisfatta.
"TU!!! Tu lo sapevi!" ululò Mae, cogliendo tutti di sorpresa.
"E' colpa tua - Mae si diresse con foga verso Petra - tu sapevi tutto e hai organizzato questa messinscena per cosa? Per cosa, Petra?".
"Perché è così che le cose dovevano andare".

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