CAPITOLO 11 - LA CHIUSURA DELL'ARMADILLO

La mattina in cui prese la decisione, come al solito, si alzò dal letto all'alba, un attimo prima che la sirena del Campo Undici cominciasse a suonare. Indossò il grigiore del Punto di Non Ritorno e attraversò l'aria pesante e afosa del cortile mimetizzandosi con gli altri come aveva sempre fatto.

Una serie di grosse chiazze violacee era l'unico lascito della folle giornata in cui Ago aveva sperato di poter avere una missione diversa rispetto a quella di rivangare il suo passato. Per il resto, aveva sepolto il tutto sotto la spessa coltre dell'indifferenza, come era abituato a fare. Quella volta non era stato di certo semplice: per lunghi giorni era stato tormentato dal rifiuto dei giovani che aveva pensato di poter salvare; per lunghi giorni si era rimproverato per aver sperato di essere come loro.

Ma, alla fine, ci era riuscito: Gunda, così come suo padre, non erano mai esistiti e forse neanche quei bambini. Più di tutto, non erano mai esistite le capacità magiche. L'unico potere che bisognava tenere in conto, al Campo Undici, era quello dei soldati di decidere la vita o la morte. Quello e basta.

Ciò che proprio non era riuscito ad ignorare, erano le Grandi Paludi e il Regno al di la delle Piccole Acque Scure. Inorridendo all'idea, Ago aveva sentito il bisogno di avere più informazioni. Non potendo parlare con nessuno, formulò il pensiero nella sua mente prima come una fantasia, poi divenne un'ossessione: doveva consultare un libro. Non ricordava neanche l'ultima volta che aveva tenuto un libro tra le mani e ora voleva leggerne uno. Quello, di certo non sarebbe stato l'unico problema.

Sapeva che nel Campo Undici c'era una biblioteca. L'ingresso si trovava proprio a fianco del laboratorio: vedeva spesso i sottoposti della Signora correre da una parte all'altra per portarle i volumi che ordinava. Non sapeva nient'altro della biblioteca perché mai, prima di allora, gli era venuta in mente l'idea di averne bisogno. Al Punto di Non Ritorno le necessità erano semplici: trovare qualcosa da mangiare, evitare il più possibile i soldati e, per lui, sperare che la Signora non si arrabbiasse talmente tanto da ucciderlo solo perché era diventato inutile.

Ma arrivato a quel punto, con le Grandi Paludi e il Regno al di la delle Piccole Acque Scure che affollavano la sua mente di domande, si convinse che riuscire ad entrare di nascosto nella biblioteca era l'unica soluzione.

Aveva studiato per giorni il piano d'azione. Controllava, per quanto poteva senza dare nell'occhio, gli ingressi alla libreria; appuntava mentalmente i turni di ronda e immaginava possibili scenari con strategie di fuga più o meno fantasiose. Si era ripromesso di rimandare finché non si fosse sentito pronto, ma quando aveva realizzato che l'idea di uscire dopo il coprifuoco lo terrorizzava al punto che non si sarebbe mai sentito pronto, allora aveva deciso.

"Sarà per stanotte".
Ago visse quel giorno in modo strano: se da un lato era eccitato, da un altro lato un intenso senso di angoscia si radicò nel suo stomaco e, da lì, si propagò in tutto il corpo.
Dopo essere entrato nel laboratorio, affrontò il controllo mattutino con la solita indifferenza, sedette sullo sgabellino per la rasatura dei capelli con il consueto sguardo di ghiaccio e rispose alle domande della Signora Vestita di Neve con l'apatia cui l'aveva abituata.

"C'è qualcosa che non va" commentò la Signora Vestita di Neve durante gli esami mattutini.
Steso sul lettino nella stanza bianca, Ago si sforzò di non pensare alla sua missione. Come ogni giorno, la prima cosa che la Signora voleva avere quando faceva il suo ingresso nel laboratorio, circondata da una nuvola di profumo troppo dolce, era il lungo foglietto che usciva da una macchina collegata a dei cavi che terminavano in piccoli bottoncini attaccati alla fronte del ragazzo. Ago nascose il volto alla Signora e questa cacciò un urlo che riecheggiò gelido nella stanza.
"Quante volte devo ripeterlo? Non mi interessa quanto ci provi, ti vengo a prendere anche all'inferno - la Signora soffiò fuori quelle parole cariche di veleno e le lasciò dondolare nell'aria sopra ad Ago per un po' prima di continuare a parlare - Decido io quando è ora, piccolo verme".

Senza neanche sforzarsi più di tanto, Ago mantenne lo sguardo fisso sul muro e fece finta di non aver sentito.
"Dategli tutto quello che può ripulirlo, controllate ferite e lesioni, disinfettate. Lo voglio in perfetta forma per domani: gli farò fare un giro in quell'inferno che tanto desidera".
Non poteva credere in tanta fortuna. Nonostante le minacce della Signora per l'indomani, una giornata intera nella sua stanza per prepararsi all'azione era quanto di più insperato gli potesse succedere.
Ago aspettò con pazienza e, mano a mano che il sole cocente si abbassava sul Campo Undici, una pressione sempre più intensa dalle parti dello sterno gli indicava l'avvicinarsi del momento in cui sarebbe dovuto uscire dalla sua stanza e immergersi nell'oscurità.

Quando si lasciò scivolare la porta alle spalle, accompagnandola per non far rumore, la mente di Ago era terribilmente vuota. Aveva pensato a tutto, si era detto tante cose e innumerevoli volte le aveva ripetute ma in quel momento sembrava che nulla avesse più senso. Come diavolo gli era venuto in mente di uscire di notte per entrare di nascosto nella biblioteca del Punto di Non Ritorno?

Il muro tutto attorno al campo era, a distanze regolari, illuminato da potenti fari: uno proiettato all'interno e uno a rischiarare il buio del deserto esterno. Non era la prima volta che Ago usciva di notte: capitava che i tirapiedi della Signora lo svegliassero alle ore più impensabili per sedute notturne di esami o esercizi. Ma adesso che aveva modo di osservarlo accuratamente, il muro sembrava anche più imponente e tetro del solito.
Distolse lo sguardo velocemente e si concentrò sul tragitto.

Il Campo Undici era organizzato su tre livelli: nel cerchio più esterno erano state ammassate le tende dei detenuti; in quello mezzano sorgevano le baracche dei soldati e dei favoriti; nella parte più interna invece, tutt'attorno al cortile, si aprivano a raggiera il Quartier generale, il laboratorio, la biblioteca, la mensa dei soldati e quella degli scienziati e le abitazioni di questi ultimi e dei più alti in grado.

Ago, per sua fortuna, si trovava proprio a metà e non
doveva percorrere molta strada. Soprattutto, non avrebbe dovuto attraversare il Terzo Cerchio: aveva sentito dire che quello era un luogo folle dove, calato il coprifuoco, alcuni detenuti uscivano dalle tende a caccia di cibo e nessuno prestava grande attenzione alla natura umana o animale di chi gli si parava dinanzi.

Passò la fila di casette che davano sullo stretto e spoglio vialetto, vuote per la maggior parte, si accucciò nei pressi delle finestre delle abitazioni dei soldati e, con poche svolte, si ritrovò nel cortile centrale. Fino a quel punto, il suo piano era scorso liscio e prevedibile. Da quel punto in poi, l'ostacolo più grande erano le ronde.
Stando sempre attento a percorrere il perimetro esterno del cortile addossato ai muri degli edifici, Ago mantenne un passo rapido ma cauto, fermandosi di tanto in tanto per controllare. Arrivato quasi a metà tragitto, si rizzò di scatto e si appiattì contro la parete della casa che aveva alle sue spalle. I tonfi ritmati dei passi dei soldati in ricognizione lo avevano fatto spaventare, ma erano troppo lontani per rappresentare un pericolo. Con lentezza e il cuore in gola, Ago si sporse dall'angolo del muro scrostato di una baracca.

Gli si gelò il sangue nelle vene. Vide prima il lungo mantello nero, con un grosso cappuccio che arrivava a coprire tutta la testa. Se, proprio in quell'istante, la figura non avesse mosso le mani in un gesto di stizza, Ago di sicuro non avrebbe mai detto che era viva, tanto era immobile. Stava perfettamente dritta, rivolta verso una porta nella via laterale che Ago non vedeva ma che doveva essere aperta, a giudicare dalla lingua di luce che ne fuoriusciva.
Come se quella figura non fosse già abbastanza inquietante di suo, ciò che fece scorrere un brivido gelato lungo tutta la schiena di Ago fu la voce della Signora Vestita di Neve.

"Chiedo solo più tempo - disse con un tono remissivo che Ago non le aveva mai sentito prima e di cui, in tutta onestà, non la riteneva neanche capace - sono certa che i miei sforzi...i nostri sforzi, stiano per dare i loro frutti".
"Vorrei che ci fosse un modo per farti capire che tutto ha un costo, anche il tempo che chiedi..." la voce della figura con il mantello era maschile, gelida e metallica. Come una orribile eco in una caverna di acciaio.
"Lo so...".
"Non lo sai. Altrimenti dopo tutti questi anni, avrei già tutte le risposte che voglio. Avrei l'arma. Ti ho dato fiducia e tu mi hai dato delusione...". Le parole erano dispiaciute ma il guizzo di euforia nella voce fece rabbrividire Ago. Quell'essere stava godendo. Con un movimento dolce come una carezza la figura alzò una mano a zittire la Signora.
"Sei mesi. E' quello che ti resta".

Ago non ebbe neanche il tempo di chiedersi chi fosse quell'uomo o cosa fosse l'arma. Non appena si rese conto che questi si era incamminato nella sua direzione, si ritirò indietro di scatto. Neanche udì il tonfo della porta che veniva sbattuta con violenza, tanto era preso a guardarsi attorno, alla furiosa ricerca di qualche nascondiglio.

Ago si incamminò a passo rapido. Tutto nel suo corpo fremeva, l'istinto gli diceva di correre, il cuore pompava prepotentemente, il fiato perso da qualche parte lungo il tragitto.
Mancava una manciata di metri all'angolo.
Ti prego, ti prego, ti prego. Nella sua mente, Ago supplicò nessuno in particolare. Sperava solo in qualcosa, qualsiasi cosa, che avrebbe potuto salvarlo.
Ecco, c'era quasi. Ti prego!

Volle solo controllare un'ultima volta e si voltò.
L'uomo con il mantello aveva appena girato l'angolo, muovendosi con lentezza nella sua direzione, come se non volesse far terminare quella passeggiata al chiaro di luna nel Secondo Cerchio di Campo Undici. Ago rimase impietrito, immobilizzato sull'ultimo passo che gli mancava per mettersi in salvo. Era stato scoperto, aveva mandato in fumo il suo piano e probabilmente anche la sua vita.

Aspettò di sentire la sirena di richiamo per le truppe, di sentire la voce metallica dell'uomo con il mantello che gli intimava di starsene lì, fermo, finché non fossero arrivare le squadre a fare pulizia. Cosa che, al Punto di Non Ritorno, aveva solo un significato.
Fece appello a ogni energia che aveva in corpo per non mettersi ad urlare. Con occhi sbarrati dal terrore, Ago guardò l'uomo che procedeva lungo il viale, il lungo cappuccio nero a coprirgli anche il volto. Ad ogni passo di quella figura oscura, Ago malediceva se stesso per l'imprudenza. Ad ogni passo, Ago pensava ora a suo padre, ora a sua madre e un po' anche alla Sacerdotessa. Chissà se, in qualche modo, poteva osservare la sua brutta fine. E chissà se ne stava ridendo o si stava arrabbiando.

D'istinto, arretrò fino a toccare il muro. La sensazione del cemento sotto le mani sarebbe stata l'ultima cosa che avrebbe provato.
Nel buio del Campo Undici, all'uomo mancavano pochissimi passi per arrivare ad Ago. D'improvviso, si fermò. L'unico rumore nella strada era il fruscio del lungo e strascinato mantello nero, fatto di qualcosa di impalpabile, resistente e fluido come l'acqua.

Ago si fece piccolo piccolo. Stava impazzendo per la paura: che razza di tortura era mai quella? Perché l'uomo non si limitava semplicemente a finirlo, come avrebbe fatto gran parte dei soldati del Campo? Perché non sguainava il bastone, chiamava i cani affamati o, più semplicemente, sfoderava l'arma?
L'uomo scandagliò ogni punto della via davanti a lui. Forse si soffermò qualche secondo in più sul punto dove Ago si era rannicchiato...o forse no. La figura incappucciata riprese a camminare, tirando dritto verso l'oscurità.

Mentre provava a calmare il fiato grosso, Ago non poteva credere a quanto era appena successo. Avrebbe avuto senso solo se fosse stato invisibile e di certo lui non lo era.
Era un pensiero talmente tanto stupido che, pensò Ago, non valeva la pena neanche guardarsi le mani per controllare se erano ancora dove dovevano essere o se erano sparite. Eppure lo fece.

Non vide nient'altro che strada sterrata e ancora, abbassando ancora di più lo sguardo, l'angolo con il muro dell'abitazione e la parete sulla quale era appoggiato. Niente gambe, niente piedi, niente busto.
Era dannatamente invisibile.

Quando Ago aveva pensato di entrare di straforo nella biblioteca del Campo, trovare il libro con le informazioni che lo interessavano, prenderlo e portarlo alla svelta in camera sua, avendo cura di non lasciare traccia del suo passaggio, erano due le cose di cui non aveva idea.
Di poter diventare invisibile e, soprattutto, di come era fatta una biblioteca.

La prima lo aveva lasciato senza fiato per qualche minuto. Poi, ricordandosi di dove si trovava e del perché era lì, aveva concluso che, tutto sommato, poteva accontentarsi dell'invisibilità senza troppi ragionamenti. La seconda, invece, lo aveva travolto non appena, trovata aperta la porta principale della biblioteca, si era immerso nella semi oscurità della stanza più grande che avesse mai visto.

Si ritrovò a camminare lungo il corridoio principale a occhi sbarrati, spostando convulsamente il capo da destra a sinistra e ritorno. Non solo sembrava non avere fine, ma erano così tanti gli scaffali che vedeva susseguirsi l'un l'altro in file ordinate, che si rese conto che l'impresa in cui sperava era pressoché irrealizzabile. Come aveva potuto pensare di entrare nella biblioteca e trovare il libro che parlava delle Grandi Paludi e del Regno al di la delle Piccole Acque Scure che lo aspettava lì, illuminato dalla luce della conoscenza e magari pure aperto alla pagina giusta?

"Detenuto fuori dal letto. Coprifuoco violato".
Si rese conto che poteva vedere le sue braccia nello stesso momento in cui udì le parole. Con la coda dell'occhio, vide un movimento in basso a destra: chiunque fosse, era tornato a nascondersi tra due scaffali poco più avanti. In pochi passi, Ago lo raggiunse, convinto che, dopo quello che aveva passato, di certo non si sarebbe fatto mettere nel sacco proprio lì, in biblioteca, e a causa di quella che aveva tutta l'aria di essere una sua scelta molto sbagliata.

Si ritrovò davanti all'ultima immagine che si sarebbe mai aspettato. Una donna era seduta a terra, rannicchiata tra numerose pile di libri. Uno di essi era aperto sulle sue gambe e lei ci si era tuffata dentro. Letteralmente.

"I-io sono..." cominciò Ago con un po' di imbarazzo.
"So chi sei, Ago di Carbo, prigioniero numero sette-cinque-sette-otto-sette".
Ago si portò nervosamente una mano al marchio stampato a fuoco sull'avambraccio destro. Per un secondo solo, la donna tirò su il volto dal libro, scosse il capo per togliersi i capelli dalla faccia e, mentre questi ancora ballonzolavano allegri, posò gli occhi dritti in quelli di Ago. Era uno sguardo folle.
"Come fai a..."
"Sapere chi sei? - la donna accennò una risata e, con la mano, batté due colpi sul libro che aveva in grembo - Studio!". Poi si ributtò nella lettura febbrile, seguendo velocemente con il dito i fitti numeri scritti sulla pagina.
"Finisci sempre le frasi degli altri?" borbottò Ago con un pizzico di fastidio.
"Solo quando non farlo comporterebbe un inutile spreco di parole".

Come darle torto, pensò Ago che voleva solo trovare una buona scusa per andarsene.
"Tu, però, non ti sei presentata...".
"Taliahel, prigioniero trentatré. Sei nel posto giusto, se vuoi studiare".
Ago rimase interdetto, per l'ennesima volta quella sera. Doveva essere proprio una matta, quella, se pensava che avrebbe creduto alla storia del "prigioniero trentatré".
"Dovresti avere cento anni almeno per essere il prigioniero trentatré!" protestò il ragazzo, sbuffando contro quell'inutile perdita di tempo.
"Quindi non solo non studi, ma non sai nemmeno far di conto: ce ne ho molti di più!".

Era definitivamente una pazza. Avrebbe dovuto capirlo da subito: altrimenti, chi mai avrebbe letto un libro di sole, lunghissime, file di numeri? Chi mai lo avrebbe guardato in quel modo folle? Con quegli occhi sottili e leggermente tirati sugli angoli esterni che si spalancavano, aprendosi ben oltre il loro massimo. Ma soprattutto...quale, tra tutti i prigionieri, non sarebbe già corso a denunciarlo, guadagnandosi i favori di qualche soldato in cerca di promozioni?
In tutto ciò, sperava di fargli credere di avere più di cento anni.
Non si poteva negare, tuttavia, che lui era appena scomparso per poi tornare di nuovo visibile: come poteva dare a qualcun altro del folle, date le circostanze?
"Cosa fai qua a quest'ora, Taliahel?".
"Solo mia madre mi chiama in quel modo. Puoi chiamarmi Talia. E poi te l'ho già detto: sono qua per studiare. Tu, piuttosto! - esclamò la donna, con un tono di voce molto più alto di quanto Ago avrebbe sperato - a cosa devo l'onore della presenza del celebre Ago di Carbo nella mia biblioteca?". Talia chiuse di colpo il libro che stava consultando e lasciò che il suono riecheggiasse tra gli scaffali, prima di tornare a fissare Ago.
"Celebre? Io non...bè...cercavo...un libro".
"Davvero? - Talia si alzò di scatto in preda ad un impeto di entusiasmo - Allora posso aiutarti!".

"Io non credo".
"Non ti fidi vero?" disse Talia con un tono a metà tra la rassegnazione e la sfida.
"Questo mi sembra chiaro!" rispose Ago con una scrollata di spalle annoiata. Non voleva essere scortese, ma la verità era menzogna e la menzogna era verità in quel luogo sperduto.
"Mh, va bene. E' la prima volta che qualcuno viene nella mia biblioteca, pensavo di poter condividere...non importa!" provò a giustificarsi Talia. Si lasciò cadere di nuovo a terra, come tirata giù da una forza fatta di tristezza e solitudine. Ago si rese conto che, a parte quella con la Sacerdotessa, era la prima conversazione che aveva con qualcuno dal momento in cui era entrato al Campo Undici.

"Perché dici che questa biblioteca è tua?".
"Di notte, perlomeno, questo è il mio mondo".
"Ma loro lo sanno che vieni qua?".
"Certo che lo sanno. Chi credi che mi abbia dato le chiavi?"
"Non sarai mica...non sarai...".
"Una di loro? No di certo! Non mi permetterebbero di venire qua, se anche questo non facesse parte dei loro piani".
Ago era combattuto. Sapeva di non doversi curare di quella donna, sapeva che avrebbe dovuto essergli indifferente, ma al contempo ne era affascinato.
"E' proprio grande questa biblioteca..." constatò, tanto per dire qualcosa.

"Si - confermò Talia, senza mai alzare lo sguardo dal libro che aveva riaperto tra le gambe incrociate - sette padiglioni, di cui sei sotto terra, per più di dieci milioni di volumi. C'è tutto il sapere del mondo, qua dentro. Di tutto il mondo, voglio dire, anche prima che Ardesia fosse l'Unico Regno, insomma".
Quando Ago si rese conto di stare a bocca aperta da qualche secondo, anche Talia era tornata ad osservarlo con curiosità.
"Non ci posso credere..." disse infine, calcando il tono sorpreso ben oltre il lecito nella singolare speranza di compiacere Talia.
"Credici! E ripensa a quella storia di accettare il mio aiuto. Da solo non riusciresti a trovare neanche l'uscita, figuriamoci quello che stai cercando. E poi... - Talia tirò un profondo sospiro, come se stesse per dire qualcosa di estremamente doloroso - ...poi per domani io mi sarò scordata tutto".
Un lungo brivido scosse Ago. Era come se un gelo che non apparteneva ad Ardesia gli fosse entrato nelle ossa.

"In che senso?" chiese cauto, già immaginando i contorni della risposta di Talia.
"Bè - cominciò Talia con semplicità - mi hanno fatto qualcosa al cervello, non so cosa, e da allora mi sveglio ogni mattina senza memoria. Ricordo qualcosa del mio passato più lontano, ma niente di quello che mi è successo il giorno precedente".
Un grosso masso piombò dritto nello stomaco di Ago. Provò ad aprire la bocca ma non uscì niente. Non si era mai chiesto cosa succedesse agli altri detenuti. O meglio: per la maggior parte non c'era neanche bisogno di chiederselo; ciò che ignorava era cosa succedesse a quelli come lui. A quelli considerati speciali, da punzecchiare macabramente alla ricerca di chissà che cosa. Ai favoriti tra i disgraziati.

"Non c'è bisogno che ti dispiaci per me. Ho il mio taccuino e ogni notte mi lasciano venire qua a studiare e questo mi ba...".
"Perché lo fai se poi il giorno dopo non ti ricordi più niente?".
"Perché sono viva, Ago di Carbo, e lo sono anche se sono maledetta. Ora, invece di perdere tempo con queste ovvietà, vuoi dirmi come posso esserti utile?".
Ago si sentì piccolo. Quanto tempo aveva perso, a furia di correr dietro alla sua rabbia e alla sua disperazione?

"Mah, non so neanche io cosa sto cercando di preciso... - disse Ago, combattuto tra il chiedere aiuto e il mantenere il riserbo - ...qualcosa che parli di posti...lontani. Di posti sconosciuti, credo. Che, quantomeno, non si trovino ad Ardesia".
"Mh..." Talia chiuse gli occhi, concentrandosi. Girò il capo verso sinistra, come se avesse avvertito un rumore e volesse udirlo meglio. Poi scattò in piedi, lasciando che tutti i libri che aveva in grembo cadessero sul pavimento di legno. Non disse nulla: sparì oltre lo scaffale, muovendosi come portata dal vento.
Ago non sapeva se doveva seguirla o restare dov'era. Nel dubbio, con il pensiero fisso sulle parole di Talia, notò il libro che la donna stava leggendo. Era a terra, aperto e con le pagine ancora incerte su dove andare. Si chinò, incuriosito da tutti quei numeri che Talia scorreva a gran velocità.
Mentre le pagine giravano lentamente, Ago lesse file interminabili di cifre microscopiche che si rincorrevano sulla carta, ciascuna associata ad un nome scritto a lettere altrettanto piccole e alla fotografia di un volto. Dopo aver scorso tre pagine, aveva visto talmente tante facce che gli girava la testa. Era il registro dei detenuti. Talia passava parte della notte a studiare i numeri che l'Impero aveva associato ad ogni singola persona entrata al Campo Undici.

Quando anche l'ultimo foglio si fu posato, il libro restò aperto alla prima pagina. Ago si chiese a cosa servisse studiare gli ingressi al Punto di Non Ritorno: nessuno di quei volti era o sarebbe sopravvissuto; nessuno di loro era o sarebbe riuscito a fuggire, a partire dal prigioniero numero uno, col volto largo e squadrato e una lunga cascata di capelli chiari. Un certo... Imos Roto.

"Vieni ababa, la mamma ti racconta la favola di Imos Roto. All'inizio, il mondo era dominato dalle leggi della Natura, semplici e al contempo adamantine. Dodici erano i Primi, gli esseri supremi che regolavano gli equilibri nell'Ecumenia, il mondo conosciuto. In tutto ciò v'erano gli uomini, che abitavano i quattro Regni e vivevano tra loro in armonia e pace. I Primi amavano gli uomini più di tutte le altre creature e non potendone più di osservarli solo da lontano, vollero sentirsi ancor più vicini a loro. Dopo lunghe discussioni, ognuno dei dodici Primi incaricò un uomo o una donna di fare da tramite tra il loro Regno incantato e tutti gli altri Regni. Fu così, ababa, che nacquero gli Angali e Imos Roto era uno di loro. Gli Angali, e Imos Roto più di tutti, erano esseri erranti, che vagabondavano per le terre umane..."

Quando Ago sollevò gli occhi dal registro dei detenuti aveva un'espressione tanto spaurita che Talia indietreggiò di qualche passo.
"Sembravi in un altro mondo..." gli disse con una vocetta sottile, appena percettibile. Ago si lasciò andare a terra, gettando la testa tra le braccia in un moto di sconforto.
"Non ricordo come va a finire!" ululò tra le gambe, sbattendo i pugni al suolo.
Talia fece roteare gli occhi e grugnì: "E' già qualcosa! Io di solito non ricordo nemmeno come inizia!".

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