CAPITOLO 1 - LA GAZZA LADRA

Saltellava, libera e selvaggia, lungo il viale affollato come se non avesse un peso proprio, come se fosse in balia delle correnti. Era incredibile a dirsi ma nessuno la notava: il riserbo della notte sembrava inghiottirla persino in pieno giorno. Eppure era una persona reale, in carne e ossa e, di certo, il fatto che aveva più ossa che carne non bastava da solo a spiegare questa curiosa capacità.

Rannicchiata come un rapace, Mae si impose di calmare i furiosi battiti del cuore. Al contempo, incapace di fare altrimenti, si sporse per osservare da lontano la sua preda. Era raro vederla sorridere, ma il solo pensiero di quella folla ondeggiante e inerme la eccitò a tal punto da farle incurvare il labbro inferiore.

A essere onesti, l'abilità di rendersi invisibile agli occhi delle persone non la disturbava affatto. Non sapeva dire con certezza se fosse grazie al duro allenamento, o a doti innate o, come le ripeteva spesso Giselle, a una fortuna sfacciata, ma svolgeva il suo lavoro meglio di chiunque altro e questo era un fatto.

Un'ombra balenò rapida sul terreno riarso. Un fruscio.
Tanto le bastò.
In un altro mondo, magari, poteva trattarsi di uno scorpione, una lucertola o una innocua folata di vento. In quello strano mondo, invece, un fruscio non era mai un semplice fruscio.
Con un gesto fulmineo, Mae scattò verso la caviglia, ruotò su se stessa e, senza esitazione, scaraventò un coltello corto e tozzo contro la gola dell'uomo che le era comparso alle spalle.

"Dannazione Freddy!" sputò Mae tra i denti. Invisibile per tutti tranne per quel fesso di Freddy. Esercitò un'ultima, lieve pressione sul pomo d'Adamo appena visibile e poi, con un gesto stizzito, abbassò il coltello. Freddy era ancora senza fiato: poteva vedere le vene del collo gonfiarsi prepotentemente e le pupille dilatate fino a nascondere completamente l'iride.
"Se te la sei fatta sotto, torna a casa: la puzza ci farà scoprire" commentò, più pungente di quanto volesse.
"Non me la sono fatta sotto. E tu dovresti darti una calmata".
"Che ci fai qua? - grugnì Mae - Ancora non ti sei stancato di sentire le urla di tua madre ogni volta che sgattaioli via?".
"Voglio solo dare una mano. Anche se non lo ammetti, lo sai che sono bravo" Freddy si grattò la nuca.
"Potresti diventare bravo - concesse Mae con una scrollata di spalle - sempre se prima non ti taglio la gola"
Freddy incassò il colpo di buon grado, certo che era il meglio che potesse ottenere, e si strofinò le mani.
"Cosa abbiamo oggi?".
"Il solito" rispose Mae, infondendo tutto il disgusto che poteva in quelle parole.

Come accadeva ogni primo sabato del mese, la strada delle Mercanzie faticava a contenere la massa di persone che la inondava barbaramente per il giorno del Mercato. Dal momento in cui, durante la notte, arrivava il carrozzone imperiale, a quando anche l'ultima briciola di pane era stata meticolosamente spazzolata, quel lungo viale ciottolato si animava della più singolare tra le fiere. Le scintille dei fuochi accesi riempivano l'aria, soffiate con potenza da mantici grossi almeno quanto chi li utilizzava. I banchi logori e scheggiati erano carichi della più grande, variegata ed impolverata selezione di merci che il Regno avesse da offrire. Interminabili sfilze di bancarelle e tendoni aprivano i battenti per il giorno del Mercato, lungo entrambi i lati della strada delle Mercanzie. Traboccanti bicchieri di liquido brunastro spuntavano in ogni dove, accompagnando i richiami al "cinghiale più succulento dell'Impero". I piatti venivano adornati con carni ancora sanguinanti e colorati con spezie profumate, le ceste erano colme di fumante pane caldo che "senza il formaggio fresco della capra dei Monti Bruni, non vale la pena d'esser mangiato". Nessuno sapeva dove si trovassero i Monti Bruni o da dove venissero tutte quelle specialità e poco più numerosi erano coloro che le avevano assaggiate. "Al Mercato non c'è cibo per chi ha fame" era uno tra i detti più comuni, a quel tempo.

Era una vera e propria festa, per gli abitanti di Fulgida: l'occasione più attesa per sfoggiare la magnificenza del Regno di Ardesia. Anche Mae, che disprezzava profondamente quel macabro teatrino, non riusciva in cuor suo a biasimarli. Non completamente, perlomeno: un solo giorno al mese per assaporare uno stralcio di spensieratezza era già di per se una condanna e non restava molto spazio per la sua disapprovazione.

"La lusinga dei ricchi e beffa dei poveracci - scimmiottò Freddy portandosi una mano allo sterno con un gesto teatrale - non è questo che dici sempre?".
"Già". Mae le ripeteva spesso, quelle parole. Non le avrebbe dimenticate neanche volendo, ma le richiamava alla mente apposta. Perché la rabbia era il più infallibile tra i suoi alleati e non c'era niente al mondo che la facesse arrabbiare come la voce untuosa di Lux.

Arrivava nelle prime ore del mattino, quando ancora gli unici ad affaccendarsi erano i mercanti. Si muoveva rapida sulle gambe scarne, a capo chino, forte di quegli ultimi brandelli d'oscurità. Amava quegli attimi: durante l'attesa, i suoi sensi erano tutti allertati; danzava lungo i lati della strada spostandosi quando percepiva l'odore di uomo avvicinarsi, lanciandosi nelle vie laterali se udiva le voci dei mercanti farsi più alte durante i battibecchi per le postazioni migliori. Erano i momenti perfetti per mettere da parte un buon bottino, uno di quelli di cui chiunque altro conosceva sarebbe andato fiero.

Ma Mae era difficile da accontentare soprattutto se, come quel giorno, non riusciva a mettere le mani su ciò che più bramava: la ricompensa delle sue pericolose fatiche. Anelli, collane, orecchini, monili, spille, medagliette: riconosceva il luccichio di un falso da una parte all'altra della strada e non sbagliava mai un colpo.
Sbuffò sonoramente nell'aria carica di sabbia.

Un vociare crescente, sempre più alto e smanioso, attirò la sua attenzione. Dando di gomito a Freddy, si spinse in avanti, sporgendosi un po' dal nascondiglio.
Non era la prima volta che qualcuno si inginocchiava per supplicare un po' di cibo, anzi. Di quei tempi, si faceva molto di peggio per arrivare a fine giornata con qualcosa nello stomaco ed era credenza comune che chi mendicava e basta, non aveva realmente fame.
Con uno sguardo carico di tristezza, Mae e Freddy seguirono i due poveracci mentre si allontanavano dal banco a mani vuote.
"Non si somigliano un po' tutti?" domandò Freddy con lo sguardo vuoto, ancora fisso su strada delle Mercanzie.
Sapeva bene che cosa volesse dire: in quel Regno, gli affamati si muovevano nell'aria farinosa rapidi e a testa bassa, evitando il più possibile di incappare nella gabbia di disprezzo che calava come una scure attorno a loro. Mae annuì e sbuffò di nuovo, sommessamente questa volta, per scacciare il groppo alla gola che era appena salito a ricordarle che, da qualche parte, insieme alla pellaccia dura e alle ossa sporgenti, c'era anche un cuore.

Roteò gli occhi all'indietro e sbuffò ancora, quando un piccolo gruppo di signorette sfarzose, chiacchierando allegramente, si riversò in uno degli scoscesi vicoli laterali, in cerca di un guizzo di aria fresca.
"Appena pescato e fritto qua davanti a voi". Mae sentiva quel motto invadere l'aria tutti i mesi e ogni volta, nell'udirlo, scrollava il capo. L'imponente uomo con le braccia marchiate di intricati disegni che offriva quei cartocci puzzolenti a nessuno in particolare, doveva essere proprio un bell'imbroglione.
"Se quello è davvero pesce, io sono la figlia maledetta dell'Imperatore..." commentò come al solito, con la voce grossa e un pizzico di orgoglio per la battuta che aveva elaborato.
"Siamo già arrivati a quella parte?". Mae si limitò a corrucciare la fronte, rivolgendo uno sguardo interrogativo a Freddy.
"La parte in cui dichiari a gran voce che se non ci ucciderà la guerra, di certo moriremo tutti di sete!".

Quella terra stava lentamente ma inesorabilmente morendo.
Nella letteratura romanzata dai cronachisti imperiali, Ardesia era nota come l'Unico Regno, il luogo più bello dell'Ecumenia intera. Anni addietro lo era stata davvero, il paese più bello del mondo. Ora, proprio come il suo popolo, era ridotta a nient'altro che i suoi resti stanchi e scheletrici. Dei ricchi corsi d'acqua che in passato l'avevano attraversata, ne erano rimasti solo due, nelle vicinanze di Città Imperiale. Il fuoco, il simbolo tanto caro e acclamato dall'Imperatore quale baluardo dell'intero Regno, aveva arso tutto. Non c'era più niente.

Pur essendo una donna nata e cresciuta nel Regno del Fuoco, Mae aveva un rapporto particolare con l'acqua. Nel nascondiglio tra le aride rocce rosse, si strofinò convulsamente la parte bassa della schiena, come faceva sempre quando voleva impedirsi di pensare al passato.

"Proprio non riesco a capacitarmi di come possano accettare tutto questo" commentò, scuotendo il capo per scacciare i ricordi.
"Perché una vita di merda è pur sempre meglio di una morte di merda - si infervorò Freddy - O di una morte da traditore o peggio, da Diverso".
Mae si voltò di scatto, con le sopracciglia rapidamente salite fino all'attaccatura dei capelli.
"Sai benissimo che noi non usiamo quel nome!". Non ci credeva neanche lei, ma era quello che doveva dire.
"Che differenza fa? Comunque li chiami, o non li chiami, quelli esistono e fanno la fine peggiore di tutti!".
Fissò a lungo la faccia da schiaffi di Freddy. Era un ragazzino, uno di quelli che hanno ancora il busto troppo corto e le gambe troppo lunghe. La sua voce alternava i toni bassi dell'età adulta con gli acuti starnazzi dell'infanzia e sul suo volto dalla pelle fresca e rosea erano comparsi i primi peli. Quattro peli sul mento e una decina sul labbro superiore.
"Non nominare mai più i...Diversi di fronte a nessuno. Chiaro?".
"Sissignora" annuì Freddy rizzando la schiena in modo militaresco.

Mae tornò a guardare oltre le rocce. I raggi del sole cocente, riverberando sulla sabbia rossa, conferivano sfumature calde all'aria e a ogni cosa circostante, come se tutto fosse pronto per prendere fuoco.
"Per tornare a questioni alla nostra portata - annunciò con tono solenne - eccolo là: il popolo". Aspettò che Freddy si sporgesse per guardare e poi aprì le braccia in un gesto pomposo.
"Ammassati come bestie al Mercato e, all'improvviso, sembra che gli altri ventinove giorni non siano mai esistiti" concluse con voce troppo alta, scuotendo di nuovo la testa per confermare che il tempo dedicato ai brutti pensieri era finito.

Quelle chiacchiere frivole con Freddy funzionavano da calmante per il suo animo inquieto. Niente, se non forse il suo fine istinto, poteva farle presagire che quella mattina di inizio autunno qualcosa l'avrebbe distratta dalla sua mansione.
Esaminò ancora una volta le possibili vittime.
Lo speziale, il profumiere, il gioiellere, i pellai. Quella mattina neanche uno, tra i loro più assidui frequentatori, sembrava essere sceso al Mercato. Come dar loro torto, si rammaricò Mae: i recenti avvenimenti avevano fatto desistere anche i più incalliti sostenitori della nobiltà.
"Sembra che oggi ti dovrai accontentare" constatò Freddy, dando voce ai suoi pensieri.
Per quanto ci avesse provato, non era riuscita a tenere nascosto il suo vizietto e nessuno, a eccezione forse del giovane Freddy, vedeva di buon occhio le sue attività.
"E' più difficile del solito: quando l'Imperatore scatena la sua ira su chi più si sente al sicuro, poi è sempre più difficile del solito. Ma non impossibile" Mae si tirò in piedi.
"Andiamo?" chiese Freddy, con la voce carica di emozione.
"Io vado. Tu oggi torni a casa. Ho visto così tanti guardiani in giro stamattina che un pivello come te si farebbe scoprire a rubare una nocciola".
"I guardiani cercano uno di loro - fece spallucce Freddy - di certo non noteranno uno straccione come me". Si alzò anche lui.
Mae aprì la bocca per cercare di convincerlo, ma alla fine non lo fece.
"Perlomeno tieniti alla larga dai guardiani - borbottò di contro - ce ne saranno almeno un centinaio!".

Questa, invece, era una cosa insolita.
Avevano udito voci, la settimana precedente. Voci che parlavano di un gran trambusto, di qualche membro della nobiltà sospettato di tradimento, di inquisizioni, frenetiche ricerche e morti. Morti proprio dentro al Palazzo. Che, oltretutto, si diceva avesse preso fuoco.

Tanto meglio, aveva pensato Mae: qualche volta fa bene anche a loro ricordarsi che sono umani. Ma poi si era subito pentita: ricordarsi di essere umano morendo era inutile quanto giurare tenendo le dita incrociate.

Uscirono dal nascondiglio e percorsero di buon passo la stradina sterrata che arrivava fino alle porte della città. Dopo essersi infilati sotto l'immenso arco di pietra, si immersero nella folla. La sensazione di essere toccata da tutte quelle persone infastidiva Mae, ma aveva imparato a conviverci. Era invisibile e tanto le bastava.

Presto, perse di vista Freddy. Sperò che il giovane riuscisse a cavarsela anche quel giorno. Speranza a parte, non poteva permettersi di preoccuparsi di altro che di se stessa. Ognuno sopravviveva come poteva.
Mae si lasciò trasportare dalla fiumana di gente per un po', girovagando senza una meta ben precisa tra le bancarelle. Sorpassò una piccola montagna di ceste colme di Erba Barba, si insinuò sotto ad un tendone pieno di amuleti che pendevano e tintinnavano nell'aria cocente di mezzo giorno e dovette forzarsi a non guardare ciò che sfrigolava, con un rumore nauseante, su di una gigantesca piastra.

Nei pressi del profumiere, riconobbe da lontano il volto giovane e segnato della serva e virò di tutta fretta. La fiducia era un lusso che, in quel Regno, era concesso solo agli stolti e Mae era una preda riconoscibile. Era la stessa della gioventù: la mascella e gli zigomi, così come ogni altro osso del suo corpo, sembravano sul punto d'uscire a forza dalla carne.

Stava ricapitolando mentalmente le altre possibili postazioni cui far visita, quando il suo occhio attento venne calamitato da qualcosa sul lato opposto della via. La luce riflessa sul metallo la chiamò con la sua voce suadente e subito sentì sulla lingua il piacere di stringere il liscio prezioso tra le mani ossute.
Si insinuò tra un'esile donna dal copricapo bianco, intenta a trattare per una cesta di mele rosse, e un piccolo ometto che teneva, in bilico tra le braccia, una piramide di pergamene arrotolate. Colmò lo spazio lasciato libero un attimo prima da una famiglia, nascondendo il volto ai tre bambini che avevano smesso di piangere per osservarla. Per poco non si fece distrarre da una bancarella interamente ricoperta di icone dai bordi dorati, effigi di metallo ed immaginette sacre. "Acquistandone tre, otterrete la protezione da ogni malanno di questo inverno, ma acquistandone cinque...". Non seppe mai quali avversità avrebbe scongiurato con le cinque figure sacre.

Si bloccò di colpo, con le orecchie che avevano preso a fischiare sommessamente.
"Non può essere" sussurrò, certa che se qualcuno avesse dovuto sentirla, sarebbe stato per i boati del suo cuore e non certo per i suoi bisbigli.
Davanti a lei, oltre la calca di persone sgomitanti, appariva e scompariva un morto. O un fantasma. O una qualche diavoleria studiata dall'Imperatore per riportare alla vita i defunti e ingrossare le fila del suo benamato esercito.

In quel momento, tutte le spiegazioni erano più plausibili rispetto alla possibilità che Alessandro fosse vivo.
"No - articolò con la bocca, il fiato perso chissà dove - non è vero".
Era incapace di dire o pensare altro.

Non è vero semplicemente perché non è possibile.
Il giovane, incurante dei passanti che lo urtavano e gli sbattevano contro, era immobile. Addossato ad un tratto di muro libero tra due tavernelle, fissava un punto nella strada con una intensità tale da far rizzare i peli sulle braccia di Mae.
Un violento scontro con la grossa spalla di un uomo la riscosse dallo stallo. Doveva avvicinarsi. Lo decise il suo corpo, che già aveva cominciato a muoversi in quella direzione, ancor prima che fosse in grado di formalizzare l'idea.

Quando si insinuò tra i componenti di un folto gruppo in fila davanti alla postazione di un mago impettito, che declamava le lodi del suo prossimo spettacolo, Mae a malapena ne udì le parole.
"...oltre le Porte della Vittoria, aldilà del Deserto Rosso che segna il confine ultimo del Regno del Fuoco, il mondo è dominato dalla magia. Carissimi spettatori, in ognuno dei Regni conosciuti...".
Sapeva cosa stava per succedere, con la stessa certezza con cui sapeva che dopo il giorno viene la notte. Non riuscì nemmeno a voltarsi verso il mago: venne scaraventata a terra con violenza, tanto che le sue stesse ossa scricchiolarono paurosamente, protestando per la caduta.

Qualcuno la calpestò, provò a tirarsi in piedi arpionando il terreno sabbioso ma la pressione della folla che si stava accalcando le impedì ogni movimento. Un grosso scarpone le pestò il torace, facendole venir meno il fiato e offuscandole la vista. Quando riaprì gli occhi, nell'aria rossa di polvere che si era alzata tutto attorno a lei, vide solo gambe e piedi frementi, tutti rivolti in un'unica direzione.
Si trascinò verso un'apertura e si rimise in piedi con la stessa velocità con cui era caduta. Si accostò rapida al muro, senza neanche il tempo di fare la conta dei danni.

"Lasciatemi andare". L'urlo disperato giunse alle orecchie di Mae e lei chiuse gli occhi e li strinse forte quando sentì dei colpi sordi, ognuno dei quali seguito da un rantolo di dolore. Mentre un gemito sommesso straziava l'aria, si azzardò a guardare. Lo fece per se stessa, per ricordarsi perché resisteva, e lo fece per quell'uomo morente, affinché trovasse negli occhi della folla almeno un po' di compassione.

Gocce di sangue sul ciottolato. Erano le uniche testimonianze del fatto che il mago era stato vivo. E aveva girato il mondo, pensò Mae. Aveva visto posti migliori, aveva parlato e magari anche riso delle sue fortune e delle sue disgrazie. Certamente, con la sua magia aveva illuminato di sogni la realtà di qualche bambino. Questo fu il tributo che Mae, nella sua mente, si sentì di riconoscere al mago e poi, al contrario della folla ansante di curiosità, si voltò e fece per andarsene, certa che la proclamazione dei capi d'accusa sarebbe stata un susseguirsi di "contro l'Impero questo, contro l'Impero quello".
"...pubbliche menzogne contro l'Impero..." la voce tuonò fin dentro le viscere di Mae. Affrettò il passo e tentò di richiamare la concentrazione necessaria per isolare la mente e non sentire quanto sarebbe seguito.
"...frustato a morte". Lo stomaco di Mae si contrasse.

Ebbe giusto il tempo di lanciarsi in un vicoletto laterale, prima di riversare sul suolo, già costellato di escrementi, i succhi gastrici che aveva in corpo dopo un giorno intero di digiuno.
Prese un attimo per rianimarsi. Si pulì la bocca con il palmo e lo strusciò ritmicamente sul muro liscio fino a sentire dolore. Guardò con disprezzo le macchioline rosse sulla parete, domandandosi quando avrebbe smesso di regalare a quell'Impero il proprio sangue e le proprie lacrime. Si chiese anche quando sarebbe arrivato il giorno in cui quell'Impero avrebbe preteso anche la sua vita.

Tornò in via delle Mercanzie a passo lento e testa bassa, il corpo esile ancora in subbuglio e il cuore colmo di morte. Non si sorprese quando non trovò più il giovane che somigliava ad Alessandro là dove l'aveva visto prima di cadere.
Mae avrebbe voluto urlare fino a perdere la voce. Si fece trascinare da un'ondata di persone in movimento e, senza neanche rendersi conto di dove stava andando, si ritrovò ad oltrepassare il recinto dei maiali che ingombrava il centro di via delle Mercanzie.

Solo quando vide il luccichio dell'oro, capì che aveva guadagnato l'altro lato della strada. Lasciò che il bagliore riverberasse placidamente nei suoi occhi. In quell'istante di pura goduria, sigillò tutto quanto era successo in un anfratto della mente e tornò ad essere Mae la ladra, pronta a derubare la solita signorotta in pelliccia e borsetta da mano.

Dovette sforzarsi di non spalancare la bocca quando si rese conto che avrebbe dovuto sfilare l'oro dalle mani grigie e scorticate di una ragazza. Una ragazza?
Mae era interdetta, sospesa nel secondo e fatale attimo d'esitazione della giornata. Una ragazza, una di quelle che sembravano esser state espulse violentemente dall'infanzia, era arrotolata a terra, al margine della strada. Aveva tirato le gambe al petto ed era avvolta in una veste lercia e consunta, strappata in più punti ed in più punti bruciacchiata.
Non era facile capire se fosse ancora viva, dopotutto non sarebbe stata la prima ad accasciarsi lungo la strada e a morire sotto lo sguardo cieco dei passanti. Le nocche della mano in cui stringeva il ciondolo erano talmente tirate da sembrare quasi trasparenti.
Come d'abitudine, gli occhi di Mae faticavano a staccarsi dal gioiello ma, al contempo, non riusciva neanche ad allungare la mano e sfilarlo, oltrepassando quella testa ricoperta di ricci il cui colore era reso indecifrabile dallo strato di unto che li ricopriva.
C'era qualcosa di profondamente strano in quell'essere, secondo Mae.

Rimase qualche attimo in bilico, indecisa se andarsene o se completare la missione. Si guardò attorno: ancora una volta, nessuno l'aveva notata. Esitare non era prudente, ma non poteva fare altrimenti: non riusciva ad ignorare il richiamo della collana. Si accucciò, come a volersi annodare una scarpa. L'odore della ragazza le riempì le narici: sapeva di putrido, come se non si lavasse da giorni. Una stretta al cuore fu l'ultima sensazione che provò prima di allungare la mano e, con un gesto repentino, sfilare la collana oltre la massa di ricci.

Non aveva mai visto niente di simile: era un prisma liscio all'apparenza, ma aggrottò la fronte quando intravide una ricca e contorta incisione su un lato. Si impose la calma ma non fu capace di trattenere un vittorioso "Ah-ha!" quando capì che, qualunque cosa vi fosse scritta, non era nella lingua comune.
Non poté soffermarsi oltre su quell'intricato oggetto.

Un lungo ululato diede avvio ad un coro di voci urlanti e, senza rendersene conto, si ritrovò con le mani bloccate dietro alla schiena ed il ciondolo che dondolava a pochi centimetri dalla faccia.
"Ladra! – strillò una donna dalla faccia arcigna puntandole contro un grasso indice – Parola mia: con questi occhi l'ho vista rubare la collana!". Mae chinò il capo, sprofondando nel baratro di quanto più aveva temuto. Non provò neanche a divincolarsi. La presa sulle sue braccia era solida e ferma ed un alito al sapore di Erba Barba le ansimava vicino all'orecchio. Tutto intorno a lei, l'eccitazione della gente per quella nuova cattura si era fatta palpabile.
"Portiamola da Lux! Che sia arrestata subito!" incitò qualcuno dalla piccola folla che aveva formato un cerchio. "Si! Ci penserà Lux a lei. E' una ladra, la riconosco: ha rubato il mio orologio d'oro qualche tempo fa" la additò un'altra voce di cui Mae non seppe riconoscere la provenienza.
Non Lux, supplicò Mae nella sua testa, tutti tranne lui.
Si ritrovò a fissare la ragazza. Ricambiò uno sguardo candido e potente al contempo, che scatenò un viscerale senso di vergogna.

"E' mia sorella". Era una vocetta esile, eppure riportò il silenzio in quella porzione di strada.
"Come?".
"E' mia sorella. Ho preso il medaglione della mamma senza permesso, lei voleva solo riportarlo a casa".
"Tu menti. E' una ladra e tu sei sua complice". La donna portava avanti la sua personale battaglia di quella vile guerra tra disperati come se ne fosse dipesa la sua stessa vita.
"Portiamole entrambe da Lux! - incitò la folla - Saremo tutti ricompensati!". "Come fa una stracciona come te ad avere una cosa tanto preziosa?" fece eco un'altra donna.
"In realtà è proprio mia sorella". Gli occhi grigi della ragazza si posarono sull'uomo dietro Mae e la presa si indebolì.
"Questa mattina sono uscita presto con il medaglione della mamma, poi sentivo caldo e mi sono seduta per fare un pisolino. Lei mi ha trovato e credo che stesse per rimproverarmi. Se non foste intervenuti voi, avrei preso una bella strigliata. Vi prego, signori, è l'unica cosa che abbiamo. L'unica". Ogni volta che ripeteva quella storia sembrava sempre più vera, tanto che ci avrebbe creduto anche Mae, se non fosse stata così tanto impaurita.
"Ci penserà Lux a tirarti fuori la verità, piccola bugiarda".

Quel nome faceva bruciare Mae di terrore, ma si concesse un pizzico di speranza: l'uomo che la teneva stretta ebbe un nuovo fremito.
"Non possiamo chiamarlo - cominciò, allentando ulteriormente la presa - Se oggi lo scomodiamo per niente, ci andremo di mezzo tutti".
"Signori, per favore, vi prego. Lasciate mia sorella e fateci tornare a casa dalla nostra mamma. Ormai sarà molto preoccupata a causa mia".
Mae era rimasta in silenzio, ma comunque non avrebbe avuto parole. Non era cosa comune, di quei tempi, essere salvati da uno sconosciuto. Men che meno da un giovane al contempo così scaltro e beneducato.
"Se è tua sorella, allora dimmi il suo nome" urlò la donna, in un estremo atto di esasperazione: la folla aveva iniziato a diradarsi ed iniziava ad essere chiaro a tutti, lei compresa, l'esito della vicenda.

"Si chiama Leda e io Arianna. Ora possiamo andare?". Non aveva finito neanche di parlare che Mae si stava già massaggiando i polsi, lo sguardo fisso sui piedi, in attesa di rimanere sola.
La donna che le accusava fu l'ultima ad andarsene e, in lontananza, potevano ancora sentire le sue imprecazioni. Mae osservò la ragazza con il medaglione stretto in mano, aggrappata ad esso come fosse un baluardo, e trovò quegli occhi limpidi che la aspettavano. Sembrava soddisfatta.
In quell'attimo di imbarazzato silenzio, l'unica cosa che risultò chiara fu che tutti i presenti, a parte loro, avevano dimenticato l'accaduto. La maggior parte era già tornata a dedicarsi al Mercato. Una signora dal prosperoso seno aveva appena concluso un affare e si aggirava pomposa tra le altre bancarelle, indossando un fiammante cappello piumato. Altri si erano attardati con i convenevoli, riuniti in gruppetti di due o tre.

"...dieci, undici al massimo, le dico. E i più grandi, diciassette! Proprio come sette anni fa". Le parole giunsero alle orecchie delle due con la violenza di uno schiaffo. I folti baffi di un uomo tozzo, stretto in un abito da giorno verde bottiglia, ancora vibravano di eccitazione quando le ragazze si voltarono nella sua direzione.
"Mi sembra strano che io non abbia sentito niente in merito".
"Non potrei esserne più sicuro dato che è una confidenza di Lux".
"Così credono che sia nata una nuova generazione di Diversi? - il picco di terrore che assunse la voce dell'uomo infastidì Mae tanto quanto l'uso di quella parola proibita - Ma com'è possibile, dottor Fresia? Non erano stati tutti individuati ed eliminati?".
"SHHH! - si agitò Fresia - Non vorrà mica che ci sorprendano a parlare di queste cose! E' tutta opera dei traditori, stando a quanto mi ha detto Lux. D'ora in avanti dovremmo fare grande attenzione alle persone con cui ci intratteniamo" il dottor Fresia abbassò la voce fino a renderla un sussurro, scoccando sguardi carichi di sospetto a destra e a manca.
"Che l'Imperatore ci protegga tutti! - esclamò l'altro, portandosi le mani alla bocca - Devo correre a dirlo alla mia Beatrice: si ferma a parlare con tutti, non si rende mica conto del pericolo di essere contaminata da uno di quelli...".
"Parola mia: sarebbe una vera tragedia!".
"Ma allora, dottore, perché non ci avvertono? Avremo pure il diritto di essere messi in guardia, noialtri giusti, no?".
"Lo faranno, non tema. Non appena l'Imperatore avrà messo un punto su quella spinosa questione successa a Palazzo...".
"Quali spinosa questione?".
"Quella terribile vicenda di Palazzo...". Il dottor Fresia gonfiò il petto di orgoglio: non capitava mica tutti i giorni di avere notizie di quel calibro.
"...che il nostro Imperatore ha placato col sangue come è giusto che sia! - concluse il compare del dottor Fresia - Ebbene?".
"Sembra che abbiano scovato un traditore dentro il Palazzo e che questo sia fuggito. Sembra che nessuno sia riuscito a trovarlo e che ora si trovi tra di noi. Capisce? Un traditore, uno di loro...".
"Prima i Diversi e ora anche questo traditore in mezzo a noialtri giusti? - protestò l'uomo alzando la voce - Dove mai andremo a finire?".

Non seppero mai dove sarebbero andate a finire: la ragazza iniziò a tremare e Mae decise che il discorso non era più adatto alla sua età.
Mentre il dottor Fresia blaterava di come i traditori fossero già tra di loro e di quanto l'Imperatore stesse dando prova di forza inviando tutte le sue truppe sul territorio del Regno, Mae afferrò un braccio della giovane. Come le Tradizioni imponevano, in circostanze simili, sollevò la lingua e mostrò il simbolo della salvezza, quello che tutti gli abitanti di Fulgida speravano di vedere prima o poi. Quindi, senza neanche aspettare un cenno d'assenso, la tirò con delicatezza ed imboccarono la più vicina tra le strette vie laterali.

Si allontanarono da via delle Mercanzie senza troppa fretta, per non dare nell'occhio. Attraversarono vie strette ed anguste e, in alcuni tratti, dovettero anche sistemarsi una dietro l'altra per passare agevolmente.
"Sono in debito con te" disse infine per rompere il silenzio, quando ormai attorno a loro c'erano solo case basse e fatiscenti e gatti spelacchiati, anche loro alla ricerca di qualche avanzo da rubare.
La ragazza non rispose: si limitò ad osservarla dal basso per un breve istante.
"Ti chiami davvero Arianna?" chiese con una scrollata di spalle.
"Mi chiamo Isabella. Sono solo brava ad inventare".
Isabella teneva gli occhi fissi sulla strada, la voce incerta ed incupita usciva a fatica dalla gola.
"Hai inventato bei nomi, Isabella. Mi piace Leda" affermò Mae con tutta la dolcezza di cui era capace. Non era tanta, ma sperò che fosse sufficiente.
Sembra proprio una bambina che gioca a dare i nomi alle bambole, pensò Isabella guardando la donna dal volto duro sorridere con gli occhi.
"Preferisco Mae".

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