50. NULLA DIES SINE LINEA
"Casa, Galanár, è dove riposa il tuo cuore".
Aidan ammirò le linee salde che scintillavano nella timida luce del primo mattino, pronte a sfidare la purezza dei ghiacciai che facevano loro da corona.
Casa.
Dove, senza dubbio alcuno, riposava il suo cuore.
Piantò in asso Ilo e i soldati che lo scortavano, diede di sprone al cavallo e si lanciò al galoppo verso il castello. Le guardie fecero appena in tempo a schiudere le porte per lasciar passare quel cavaliere che sfrecciò oltre l'ingresso senza nemmeno far loro un cenno.
L'animale, frenato di colpo, girò sul fianco sollevando una nuvola di polvere al centro della corte. Aidan fu subito a terra. I giorni che li avevano separati erano diventati in un istante materia inesistente.
Adwen dormiva ancora. Dopo l'ennesima notte insonne, era crollata tra i cuscini con i capelli sciolti e un'espressione triste sul viso. Tra le dita stringeva un rametto di jacaranda. Un petalo avvizzito si era poggiato sulla sua guancia, dove aleggiava l'ombra di una lacrima.
Sognava.
Sognava i giorni in cui Aidan era lì, quando ogni sala del loro palazzo in costruzione risuonava di voci, quando avevano acceso i fuochi per invocare gli Dei su Valkano, quando avevano danzato con gioia fino all'alba. Prima che la polvere tornasse a ricoprire le mura. Prima che l'albero sfiorisse.
La luce del giorno entrò dalla finestra e accarezzò la stanza. Le grida dei servitori riempirono la corte. Le scale risuonarono di passi e di voci. La regina aprì gli occhi e tese l'orecchio a quegli insoliti schiamazzi. Tutti contenevano le medesime parole: il re era tornato, il re era lì.
Si levò di scatto e uscì dalla camera. Attraversò i corridoi, incurante delle richieste dei domestici, dei capelli arruffati e dell'abito in disordine. Corse verso le scale e si precipitò nella corte, pregando che la realtà fosse davvero in grado di far impallidire i suoi sogni.
Un attimo dopo era tra le sue braccia. Qualsiasi distanza si era annullata.
Aidan non le diede nemmeno il tempo di parlare. Le prese il volto tra le mani e cominciò a baciarla. A ridere, a baciarla, a sussurrare il suo nome e dirle che l'amava, tutto insieme e in ordine sparso, mentre le sue braccia scendevano a cingerle la schiena per serrarla ancora di più contro il suo corpo.
Lei rise e fece per allontanarsi, ma lui la trattenne.
"Aidan... qui ci guardano tutti", gli sussurrò allegra all'orecchio.
"Lascia che guardino".
Non gli importava nulla di dove fossero, né di chi fossero, né di cosa avrebbero detto o pensato i presenti. Era proprio dove voleva essere, sulla sua terra, con lei. Era stato il ricordo del suo sorriso che lo aveva riportato a casa. Perché mentre le stelle gli cadevano addosso, il cielo si capovolgeva e la morte gli prendeva il cuore, Aidan sapeva di dover tornare.
"Perdonami", bisbigliò tra un bacio e l'altro. "Perdonami se non sono stato qui a difenderti".
Adwen gli passò una mano sul viso con dolcezza. Sembrava insieme felice e tormentato, e lei pensò che avrebbe solo voluto cancellare quell'ultima emozione.
"Me la sono cavata, hai visto?", cercò di rassicurarlo con un sorriso lieve.
Aidan si smarrì nella luce rassicurante di quella calma. Avrebbe potuto dimenticare tutto solo guardandola negli occhi. Perché Adwen era la sua certezza quando la vita si faceva buia. Era ogni sua emozione, ogni gioia, ogni passione. Era la stessa inspiegabile emozione che Edhel aveva tentato di spiegargli una volta, quando gli aveva detto che Silanna gli aveva fatto dimenticare l'infinito.
L'attirò di nuovo a sé e, quella volta, la baciò senza fretta. Quando si staccò da lei, passò un'occhiata distratta attorno a sé, come se solo in quel momento avesse preso in considerazione la confusione di uomini, cani e cavalli che li attorniava.
"Facciamo una passeggiata", le propose.
Adwen lo scrutò preoccupata.
"Non sei stanco? Non vorresti dormire?"
Lui scosse il capo con un sorriso malinconico.
"Ho dormito fin troppo a lungo".
Lei annuì senza insistere e gli prese la mano. Il mattino era esploso, chiaro e senza nuvole. Sotto quella luce, ogni particolare di Valkano sembrava più vivido e Adwen pensò che sarebbe stato inutile tentare di nascondere le cicatrici che la battaglia aveva lasciato sulla pelle della loro casa.
Camminarono in silenzio lungo le mura, fino a raggiungere il piccolo giardino interno. Era deserto e abbandonato. Aidan lasciò la mano della moglie e avanzò da solo verso il centro. La jacaranda piegava i rami avvizziti verso terra. Il re poggiò le dita sul tronco e le lasciò scivolare sulla superficie ruvida con un sospiro.
"Mi dispiace", sussurrò Adwen.
Si fermò accanto a lui, che si girò appena percepì la presenza al suo fianco.
"No, non importa", rispose di slancio. "Guarirà".
Si arrestò di fronte alla sua stessa affermazione, come se avesse messo a fuoco in ritardo la vera emozione che voleva esprimere.
"Lo guariremo", precisò.
Lei chinò il capo. L'intensità con cui lui aveva pronunciato quelle due parole, in qualche inspiegabile modo, le aveva fatto male al cuore. Era l'intenso dolore delle bugie più colpevoli e amare, quelle impropriamente pronunciate per amore.
A lui non sfuggì quel mutamento. La studiò con apprensione, come se avesse dovuto proteggerla. La sua espressione si fece seria e intenta. Le prese le mani tra le sue e le strinse forte. Sembrava sul punto di volerle offrire tutto e, allo stesso tempo, di chiederle tutto.
"Adwen, non lasciarmi".
Lo disse all'improvviso, tutto d'un fiato, nel silenzio perfetto che li circondava. Lei sollevò il viso di scatto, messa in allarme dalla sua richiesta inaspettata, e non poté evitare di incrociare il suo sguardo. Sembrava un uccellino braccato. Aidan le scostò i capelli dal viso e le carezzò la guancia.
"Silanna mi ha spiegato e... ma noi non ne abbiamo parlato in maniera esplicita".
"E forse non dovremmo farlo", mormorò lei, desolata.
Aidan fece una smorfia e scosse appena il capo. Le sue dita accarezzarono quelle di lei mentre la sua stretta si faceva più calda.
"È colpa mia, sono stato cieco. Non avevo mai pensato a quanto ti avessi lasciata sola, in compagnia della tristezza e della paura. Ma sono quasi morto, Adwen, e sono stato riportato indietro, e sarei uno sciocco se non avessi imparato qualcosa, se adesso mi giocassi questa seconda occasione..."
Si interruppe e sorrise.
"Lui mi torturerebbe per l'eternità se lo facessi".
Anche lei si sforzò di sorridere.
"Oh, ne sono certa".
Con un movimento delicato, sollevò la mano e disegnò i tratti del suo viso. Fissò assorta le tracce che i suoi polpastrelli gli lasciavano sulla pelle. Non poteva fare a meno di pensare agli inevitabili segni del tempo. Quei segni ancora invisibili, ma che un giorno sarebbero stati evidenti. I suoi occhi si riempirono di tristezza.
"Ma Edhel è stato fortunato", aggiunse.
La sua voce si era incrinata, il suo respiro si era arrestato sull'orlo del pianto. Aidan pensò che non avrebbe potuto sopportare un solo istante di quel dolore. Annullò ogni distanza tra loro e la strinse tra le braccia, per poterla avere ancora più vicino.
"Siamo giovani e ci amiamo. Non deve importarci altro. Qualunque cosa accada, io ti voglio con me in tutti i miei giorni, pochi o tanti che siano. Non voglio che la luce di Laurëgil in te si spenga".
Adwen, a quelle parole, sospirò. Chinò le ciglia nell'inutile tentativo di nascondergli il suo tormento.
"Quando eri lontano, ho pensato spesso che eravamo sfortunati", ammise infine, con un filo di voce. "Volevo concentrarmi sui nostri ricordi felici, ma non ci riuscivo. Pensavo solo che gli Dei volevano punirci perché ci amavamo troppo, e per questo ci avevano destinati a non avere figli".
Aidan non rispose. Si limitò a contemplarla in silenzio. Tutto in lui gridava amore, al punto che non c'era più spazio per nessun altro sentimento. Le prese il mento tra le dita e le sollevò il viso per obbligarla a guardarlo, poi sorrise.
"E hai pensato un mucchio di sciocchezze", la rimproverò con dolcezza. "Perché quelli che si amano come noi non hanno bisogno di generare figli. Quelli che si amano come noi mettono al mondo la luce ogni giorno".
Adwen capitolò di fronte a quelle parole. Si abbandonò sul suo corpo e gli serrò le dita dietro la schiena. Affondò il viso contro il suo petto e lo strinse come se avesse voluto fondersi in lui. Rimasero in silenzio, a godersi quell'abbraccio, a sognare insieme tutti i giorni che avevano davanti. Aidan le baciò i capelli, mentre le sue dita le carezzavano le ciocche bionde.
Il trillo sottile di un uccello attirò la sua attenzione. Sollevò il capo e, in quel gesto, vide le mura che li circondavano. Le mura che avevano ricostruito con pazienza. Ogni pietra di quel posto gli raccontava una storia.
Laggiù è dove l'ho aiuto a rialzarsi e là, una volta, c'era la porta che abbiamo spalancato per entrare.
La sua memoria era in grado di ricostruire ogni punto con precisione incredibile, persino dove la fisionomia di quel luogo era stata cambiata. Il pensiero di riuscire a vedere lo spazio al di là del tempo lo fece sentire simile al suo gemello. Vicino a lui.
"Valkano è così pieno di ricordi", mormorò d'un tratto. "Di me e di Edhel".
Adwen sollevò il capo, sorpresa di avergli sentito pronunciare quel nome con tanta serenità. Si scostò appena da lui e rimase a osservarlo attenta, mentre Aidan le apriva il cuore.
"Per anni mi sono chiesto come avrei fatto a passare la vita in un posto del genere", proseguì lui. "Mi chiedevo se prima o poi non sarebbe arrivato un giorno in cui, attraversando uno di questi spazi della memoria, non mi fossi più accorto di averlo fatto. Se il cuore avrebbe smesso di sussultare, se non avrei sentito una fitta allo stomaco".
"Ed è successo?", azzardò Adwen.
"No, non succede che io dimentichi, e forse non succederà mai, ma il punto è che sarebbe davvero triste, se accadesse".
"Triste? Sarebbe triste, per te, non provare più questo dolore?"
"Sì, perché la vita è questo. È una sequenza di attimi riscritti, uno sopra l'altro. Errori tracciati sulla pergamena, tagliati e poi emendati. E noi non siamo altro che il frutto di questa continua cancellazione".
Si interruppe e le lasciò un bacio lieve sulla fronte.
"Dobbiamo solo continuare a scrivere".
Quando Galanár, dopo settimane di viaggio, arrivò a Formenos, c'era solo Bellator ad attenderlo sulla soglia.
Non era l'accoglienza che si era aspettato, ma non diede a vedere il suo disappunto. Smontò da cavallo con il solito atteggiamento incurante, salutò il suo capitano ed entrò con lui nel palazzo. Mentre si faceva aggiornare sugli ultimi avvenimenti, però, un pensiero gli pungolava il cuore a ogni passo.
Dov'è Fanelia? Perché non è ancora qui?
Non che fossero stati avvezzi a molte attenzioni, in quella che era stata la loro maldestra e bizzarra vita matrimoniale, ma sperava almeno di esserle mancato. Per la precisione, Galanár si aspettava di esserle mancato. Il fatto che non fosse corsa ad accoglierlo lo irritava e quel sentimento si accentuò quando, nella sala delle riunioni, trovò solo Alis.
"Ah, Alis... sono contento che almeno tu sia qui. Forse puoi darmi qualche notizia di Fanelia".
Lei gli rivolse un profondo inchino, poi lo fissò con aria tranquilla.
"La regina è molto impegnata questa mattina e vi vedrà più tardi".
"Più tardi?", sbottò Galanár con un gesto di stizza.
"Vi manda a dire che non avrete il tempo per annoiarvi, perché oggi è giorno di udienze a corte e, visto che siete arrivato di buon mattino, sarete voi a presiederle".
Si avvicinò a lui di qualche passo e gli tese un rotolo di pergamena con un elenco di nomi e di annotazioni. Galanár fece scorrere lo sguardo dall'apice al fondo della carta e corrugò la fronte, sempre più perplesso.
"Chi è tutta questa gente, Alis? Non potresti occupartene tu?"
"Non sono il Siniscalco, maestà".
"È evidente che non lo sei, ma di certo mi piacerebbe che lo fossi", mormorò. "Io non ho la più pallida idea di cosa siano queste richieste".
Lei assentì con il capo.
"La regina era sicura che avreste risposto così. Ha detto che ne verrete a capo senz'altro, e che comunque questo fa parte dei vostri doveri".
Il re sospirò e si passò una mano sugli occhi con un gesto disperato.
"Bellator!"
"Sì, generale?"
"Tieni a mente le mie parole: non prendere mai moglie!"
"Agli ordini, generale!"
Una lunga, estenuante sequela di richieste. Ecco cos'erano le udienze reali!
Non che Galanár fosse estraneo a quella pratica. Faceva parte dei compiti di un sovrano, e lui lo sapeva bene. Solo che fino ad allora aveva sempre lasciato che qualcun altro se ne prendesse carico. In fondo, lui si occupava già abbastanza del regno sul campo di battaglia.
Sapeva che a Formenos era giunta voce del suo discorso alla popolazione di Laurëgil e si domandò se quello non fosse un altro dei trucchetti di Fanelia per impedirgli di dimenticare troppo in fretta le promesse fatte. Se così era, avrebbe avuto un altro buon motivo per punirla. Sorrise a quel pensiero mentre la sua mente, stanca di ascoltare le suppliche dei richiedenti, scivolava già nelle fantasie della notte e nei particolari dolci e atroci del suo corpo.
No, non posso ancora pensarci!
"Questo era l'ultimo?", chiese a bassa voce al ciambellano che lo assisteva.
Il dignitario consultò una pergamena del tutto simile a quella che Alis gli aveva consegnato al suo arrivo, poi si schiarì la voce.
"No, sire. La regina Fanelia ha chiesto di essere ricevuta alla fine dell'udienza".
Galanár lo guardò con dispetto, sebbene non fosse lui il diretto responsabile di quella fastidiosa situazione. Che si era messa in testa, Fanelia? Non era venuta ad accoglierlo all'arrivo e poi chiedeva pubblica udienza dal re?
Ogni pensiero seducente si trasformò di colpo in una vampata d'ira.
"Fate entrare la regina", ordinò con voce aspra.
Lei fece il suo ingresso in tutto il suo regale bagliore. Galanár fu costretto a mettere da parte il disappunto, tanta fu l'emozione che provò nel rivederla. Avanzava splendida, con in testa la tiara con cui lui l'aveva resa regina e con indosso un prezioso abito che terminava in una lunga coda decorata con ricami di foglie e fiori. I suoi occhi da cerva erano puntati su di lui con tutta la loro sicurezza.
Giunse a pochi passi dal suo seggio e si inchinò a lui. Nonostante l'abbigliamento fosse del tutto diverso, Galanár ripensò alla prima volta in cui l'aveva vista. Il posto era immutato, ma forse non poteva più dire lo stesso della sua anima. Decise di non farla attendere, quella volta, anche se l'idea di replicare quel capriccio lo aveva sfiorato.
"Che cosa chiede la regina?", domandò.
Fanelia sollevò il capo.
"Chiede al suo sovrano di confermarle gli impegni presi con lei nel giorno in cui l'ha chiesta in moglie".
Galanár la fissò con attenzione, nel tentativo di scoprire la vera richiesta. Non riusciva a credere che lei avesse preteso una pubblica esibizione dei loro accordi privati. Certo, era un capriccio del tutto femminile, ma Fanelia non era quel tipo di donna. Decise di non mostrare le sue perplessità e si trasse di impaccio come faceva ogni volta, ostentando una distaccata sicurezza.
"Se è solo questa, la richiesta, non esiste alcun ragionevole ostacolo. Confermo, davanti a tutti, gli impegni presi nel giorno in cui l'ho chiesta in moglie".
Fanelia era ancora inginocchiata di fronte al trono, ma lo fissava con un'espressione fiera e regale.
"Grazie, mio re", replicò. "Sono lieta di aver udito questa conferma, perché oggi sono venuta a dirvi che ho la certezza di aver tenuto fede alla mia parte di impegno".
Galanár impiegò più di qualche istante per comprendere le sue parole ma, nel momento in cui ne realizzò il significato, sentì che il fiato gli veniva meno.
Uno stordimento sconosciuto gli salì alla testa. Dimenticò il luogo in cui si trovava, si alzò e si precipitò da lei. Le prese la mano e la fece levare in piedi.
"Fanelia...?", mormorò incredulo.
Lei accennò un sorriso.
"Se è un maschio, mi piacerebbe chiamarlo come vostro padre".
Galanár chiuse gli occhi e le baciò la fronte. Sperò che il calore bruciante delle sue labbra fosse sufficiente per trasmetterle tutta la sua felicità. La sua mano scivolò sul ventre di lei. Non poteva che accarezzare la stoffa, senza notare alcun mutamento, ma non aveva importanza.
Capì che quel mondo, che non poteva ancora vedere e che sfiorava appena, era l'unico regno che voleva davvero esplorare e conquistare.
L'unico regno che valesse la pena possedere.
NOTA DELL'AUTORE
Nulla dies sine linea significa Nessun giorno senza una linea (Plinio il Vecchio, Storia Nat., 35).
La frase fa riferimento al celebre pittore Apelle, che non lasciava passare mai giorno senza tratteggiare con il pennello qualche linea.
Per perfezionarsi, per progredire, e forse per trovare la felicità, occorre aggiungere un pezzettino al giorno, con costanza.
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