48. REM TIBI QUAM SCIERIS APTAM DIMITTERE NOLI
Mellodîn entrò nella sala delle udienze con passo marziale. Il viso era segnato dalla stanchezza e l'armatura coperta di polvere, ma c'era qualcosa di trionfante nella sua espressione.
Adwen sedeva sul trono che dominava il centro della stanza, il volto affondato in una mano, gli occhi chiusi nascosti tra le dita. Aegis era in piedi, a pochi passi da lei. Sembrava intento a consultare un dispaccio, ma in realtà vegliava sulla regina con discrezione. Alis, invece, era accoccolata accanto al seggio reale. Appena vide Mellodîn, poggiò una mano sul ginocchio dell'elfa e le sussurrò all'orecchio che il comandante era arrivato.
Adwen sollevò il capo e cercò di ricomporsi prima di rivolgergli la sua attenzione.
"È finita", esordì lui con accento sicuro. "Abbiamo controllato l'intero campo e preso i superstiti come prigionieri. I feriti sono già stati portati dai guaritori e stiamo provvedendo a tributare la giusta sepoltura ai nostri soldati".
La regina sospirò e le sue iridi viola si scurirono di tristezza.
"Il capitano Bellator sta bene?", chiese con voce spezzata.
Mellodîn le rivolse un'occhiata interrogativa. Dopo l'elenco che aveva sciorinato, non era quella la prima domanda che si sarebbe aspettato.
"Il suo viso era cupo come la notte", spiegò lei di rimando.
Il comandante annuì, colpito dalla gentilezza che lei aveva mostrato nei riguardi del capitano di Medthalion e, in maniera indiretta, degli uomini che si erano sacrificati per la loro causa.
"Starà bene", rispose.
Tacque e attese che Adwen gli rivolgesse qualche richiesta, ma lei non disse altro. Il suo sguardo, triste e turbato, si era spostato verso un punto vuoto della stanza. I suoi pensieri sembravano diretti altrove.
Mellodîn guardò Aegis, poi la regina, quindi si decise a prendere di nuovo la parola.
"Con il vostro permesso, intendo partire domani stesso per Harmaros".
Quella frase risvegliò l'interesse di lei, che raddrizzò la schiena e lo studiò con attenzione, alla ricerca di una spiegazione.
"Dopo la vittoria di oggi, ritengo sia impellente entrare in città", chiarì il comandante. "Condurrò con me i prigionieri in catene e riporterò l'ordine. Il capitano Bellator resterà qui a garantire la sicurezza di Valkano".
Aegis accennò un assenso misurato, ma rimase in silenzio. Era la regina di Helegdir a doversi pronunciare sulla questione, e Adwen non esitò.
"Avete la mia benedizione, comandante", scandì prima di accennare un sorriso. "Come sempre".
Mellodîn chinò il capo per ringraziarla, poi si rivolse al Maestro.
"Aegis, in qualità di Reggente, vorrei che veniste con me a riprendere possesso di Harmaros".
L'elfo si lasciò sfuggire un lieve moto di sorpresa.
"Sono il Reggente di Laurëlindon, comandante. Non esercito nessun potere su Helegdir e...".
"Lo so", lo interruppe l'altro con gravità. "Ma non sappiamo quando Galanár potrà essere di ritorno. Laurëgil non può essere ripresa adesso, ma possiamo almeno mandare un messaggio: abbiamo tagliato la testa della ribellione a Helegdir, possiamo farlo a Laurëlindon quando ci pare".
"Un messaggio forte e chiaro, direi", commentò Aegis divertito. "Immagino che sire Galanár non potrebbe chiedere di meglio".
Nonostante l'appoggio dell'elfo fosse proprio ciò che sperava di ottenere, Mellodîn non aveva ancora completato il suo pensiero. Evitò, quindi, di manifestare la propria soddisfazione e proseguì con lo stesso tono deciso.
"Inoltre, siete la persona più indicata per parlare con re Arantar, presso la corte di Harmaros".
Aegis squadrò il comandante con curiosità, ansioso di comprendere cosa avesse davvero in mente, e fino a che punto intendeva spingersi per spianare la strada a Galanár.
"Re Arantar?", domandò perplesso. "Cosa ha a che fare lui con la rivolta? Da quanto mi è stato riferito, non ha avuto nessun contatto con i ribelli, né li ha mai sostenuti".
Adwen, a quelle parole, ebbe un fremito.
"No, è vero", intervenne nella discussione. "Ma non ha nemmeno mosso un dito per fermarli, ed era in suo potere farlo. È ancora la guida spirituale degli Eldar, avrebbe potuto condannare le azioni dei ribelli, invece di restare in silenzio".
Aegis abbozzò una smorfia che tradiva la sua poca fede in quell'ultima affermazione.
"È difficile immaginare che re Arantar possa prendere le parti di Galanár, soprattutto a discapito del suo stesso figlio", chiosò.
"Può darsi, ma ormai non ha più importanza", tagliò corto la regina, "perché il comandante ha ragione".
Adwen strinse le mani attorno ai pomelli intagliati che ornavano i braccioli del trono e si levò in piedi con un movimento regale, che lasciava trasparire una sicurezza insolita per lei.
"Mellodîn, Aegis, partite al più presto per Harmaros", ordinò con fermezza. "Rammentate a sire Arantar che è solo grazie a re Aidanhîn di Helegdir se egli può godere del suo ritiro dorato".
Prese una pausa e si concesse un sorriso che incontrò l'approvazione del comandante.
"Ricordategli, vi prego, a quali accordi deve tenere fede e fate in modo che sia al vostro fianco quando riprenderete possesso della città".
Rumori.
Lievi, ovattati, stranieri. Una sedia che strisciava sul pavimento, lo scalpiccio di passi rapidi, un suono metallico e indistinto, poi un respiro profondo, che era insieme accorato e sollevato.
"Andate a chiamare la signora".
Di nuovo silenzio, il silenzio profondo che lo aveva accompagnato per un tempo eterno, e infine la voce di lei.
"Mastro Ilo, che succede?"
"Credo ci sia bisogno di voi, adesso".
Un intenso calore gli lambì la mano e risalì lungo il braccio, fino alle guance. Aidan aprì gli occhi. Le iridi dorate che lo scrutavano erano quelle di Silanna, la luce che lo avvolgeva quella di Silmëran. Era vivo. Incredulo, sorpreso, sollevato, e vivo.
"Non occorreva sfidare la morte solo per venire di nuovo a Silmëran, maestà!", esclamò la voce divertita di Ilo. "Di questo passo ti daranno la cittadinanza onoraria, ammesso che tu sopravviva una volta ancora".
Aidan si mise a sedere e fissò stupito il volto dell'incantatore, che era in piedi di fronte a lui. Il tono era sempre lo stesso, beffardo e leggero, ma il re si accorse che due minuscole lacrime brillavano tra le sue ciglia mentre si sforzava di prenderlo in giro come faceva sempre.
La sua attenzione si spostò su Silanna, seduta al suo fianco. Gli stringeva ancora una mano tra le sue con piglio febbrile. Anche lei sembrava molto turbata.
"Cos'è successo?", domandò con timore.
Lei si sforzò di sorridergli e di sostituire la preoccupazione con la dolcezza.
"Dovresti dircelo tu".
Aidan sbatté le ciglia e piegò il capo senza rispondere. Stentava a mettere insieme i ricordi. Era tutto confuso e senza un filo logico. Credeva di essere morto. Doveva essere morto.
"Strano", mormorò. "Eppure mi sembra di stare bene".
Silanna lo studiò con aria perplessa. Sebbene Aidan fosse lì in carne e ossa, e le stesse parlando, non sembrava affatto tranquilla.
"È molto più che strano", osservò infine. "Non eri ferito, a parte un paio di lividi e qualche graffio. Il mio scudo magico ha protetto entrambi quando la torre è crollata, ma eri assiderato, e Ilo ha avuto un gran bel daffare per farti riprendere".
Aidan annaspò ancora una volta alla ricerca di un ordine.
Assiderato?
Sì, quella parte la ricordava. Il freddo intenso che aveva provato, il ghiaccio che ricopriva la sala.
E Vargas!
"Non so nemmeno come tu abbia fatto a non subire alcun danno", proseguì lei. "Ero sicura che il potere dei Daimon ti avrebbe fatto a pezzi, se lo avessi usato ancora".
Le immagini gelide e vaghe che avevano occupato la testa di Aidan si trasformarono di colpo, e si fecero intense e calde. Gli mancò il respiro quando la memoria gliele ripropose. Pensò che avrebbe voluto piangere, invece sorrise.
"Edhel", disse soltanto.
Silanna si irrigidì all'udire quel nome.
"Edhel?"
Lui annuì, senza riuscire a cancellarsi dalla faccia quell'espressione commossa e felice.
"Sì, è stato Edhel. È rimasto con me fino alla fine".
Silanna serrò la presa attorno alla mano del ragazzo e si avvicinò per scrutargli gli occhi. Quello che diceva non aveva senso. Era follia, allucinazione. Doveva essere ancora sconvolto, dopo lo scontro con Vargas. Chissà a quale pressione era stata sottoposta la sua mente impreparata, e chissà cosa avevano generato in lui gli incantesimi che l'Alto Elfo gli aveva scagliato contro.
"Com'è possibile?"
Aidan lesse l'incredulità e la preoccupazione nello sguardo di lei, e si sforzò di trovare le parole più semplici per spiegare ciò che non comprendeva, ma che tuttavia aveva vissuto.
"Edhel mi ha liberato dai Daimon. Perché avevi ragione tu, stava accadendo quello che avevi previsto, ma lui è riuscito a riprendersi gli Arcani e adesso..."
Il ragazzo si slacciò la camicia e la scostò per scoprirsi il petto. Silanna dischiuse le labbra per lo stupore. Sciolse la mano dalla stretta e l'avvicinò a lui con un movimento esitante. Le pietre del ciondolo erano andate in pezzi. Restava solo qualche frammento incastrato nell'anima d'oro che le aveva incastonate.
"Adesso sono solo Aidan e basta", concluse con un sorriso.
L'elfa, ancora sorpresa, passò la punta delle dita sull'amuleto. Lo sfiorò appena, mormorò qualche parola in elfico e rimase a guardare.
Nessun bagliore. Nessun mutamento. Le pietre, o ciò che ne restava, erano inerti.
Si portò la mano alle labbra nel tentativo di nascondere il brivido che l'aveva attraversata. Aidan si accorse di seguire con insolita tenerezza le diverse emozioni che si alternavano sul viso di lei. Distolse lo sguardo e lo abbassò di nuovo sul proprio petto. Scoprì ancora un lembo di pelle, proprio sopra il cuore. Il leggero segno rossastro, sottile come una linea tracciata da una matita, si intravedeva appena.
"L'ha fatto con il mio coltello, così come aveva voluto il suo per se stesso", raccontò con espressione desolata. "Però... io non sono morto".
Silanna socchiuse le palpebre mentre le labbra le tremavano di fronte al ricordo che lui aveva evocato.
"Perché eravate nello spazio sacro dei Daimon, non sul piano della realtà", spiegò. "Edhel ha agito sullo spirito, non sulla materia".
La sua voce dolente si spense nel silenzio generale e Aidan sentì che stava piangendo. Le sfiorò la guancia, si bagnò con le sue lacrime e comprese cosa Silanna aveva inteso dire, quando aveva affermato che qualcosa di più grande della loro stessa volontà li aveva legati. Lei era la sola in grado di comprenderlo. La sola che poteva immaginare quanto quell'amore fosse costato a lui e quanto fosse costato a Edhel.
"Scusatemi, devo andare", mormorò lei in tutta fretta.
Sfuggì alla sua carezza, si alzò senza mai incrociare il suo sguardo e uscì dalla stanza. Aidan non cercò di trattenerla. Sapeva dov'era diretta. Non poteva che andare da Edheldûr.
Si girò a fissare Ilo, che era rimasto in piedi, a seguire la scena in silenzio, le braccia incrociate sul petto. Aidan pensò che non l'aveva mai visto così serio. Anche se, con il tempo, stava imparando a leggere oltre i suoi sorrisi e la sua spavalderia, non era così sicuro di conoscere bene quella parte di lui che teneva nascosta dietro la sua perenne ironia. E non sapeva se poteva sfiorarla.
"Sei rimasto qui per tutto questo tempo?", chiese soltanto.
Ilo annuì. Aidan non disse nulla. Sollevò il ciondolo spezzato e rimase a osservarlo per un momento.
"Devi lasciarmi andare".
Sfilò la catena dal collo e depose il gioiello sul letto con un gesto che somigliava a un addio, poi guardò il mago e sorrise.
"Il migliore amico che avrei mai potuto incontrare".
"Non può essere questo il nostro addio, Fanelia!"
Galanár si lasciò scivolare per terra, nel silenzio e nell'immobilità della stanza. Gettò la testa indietro e sollevò gli occhi stanchi a fissare il soffitto. Si sentiva stremato come mai prima di allora, svuotato di ogni pensiero che non avesse il nome di lei.
"Non lo permetto", rimuginò ad alta voce. "Io non te lo permetto!"
Piegò il capo con un movimento brusco che assecondava la sua rabbia. Una ciocca d'argento gli scivolò sul viso e si fermò sulla sua spalla.
Si sentiva solo, si sentiva perso.
"L'avresti mai detto?", sputò fuori con tragica ironia. "Io, Galanár di Arthalion, il principe della leggenda, il re che ha unito il mondo, il generale che ha vinto ogni battaglia..."
Si interruppe e si ritrovò a ridere di se stesso in maniera lugubre e grottesca.
"Bah... è quasi ridicolo anche solo pensarci!"
Tacque. Non poteva più dare retta al cuore. Finché fosse rimasto da solo in quella stanza, avrebbe potuto gettare le armi e arrendersi a se stesso, ma presto qualcuno sarebbe arrivato a interrompere la sua solitudine e lui sarebbe stato costretto a ritornare nei panni di sempre. Nella sua corazza abbagliante.
Si levò in piedi e si avvicinò a lei. Era così bella, nei candidi vestiti di Silmëran. Un lieve sorriso gli increspò le labbra al ricordo di quando l'aveva presa in giro. Le aveva detto che non le donavano affatto, ma voleva solo farla arrabbiare, provocare la sua deliziosa reazione. Aveva bisogno di mascherare la propria emozione mentre la portava a sposarsi.
Il ricordo si spense mentre le sfiorava la mano fredda.
"Quali certezze mi restano, se mi togli tutto ciò che desidero?", mormorò.
Lasciò scorrere le dita lungo il suo braccio, disegnò il profilo del suo collo e si fermò sul viso.
"Non ti ho dato il permesso di andartene così, ragazzina..."
Le carezzò la guancia, poi tracciò con il pollice la curva delle sue labbra.
"Senza nemmeno una parola", concluse amaro.
Un bacio leggero come un sospiro si poggiò sul suo polpastrello.
Fanelia aprì gli occhi e accennò un sorriso.
"Ti stai preoccupando troppo, generale", biascicò.
Lui ritrasse la mano di scatto e arretrò di un passo. Incrociò le braccia sul petto e la fissò corrucciato, mentre la bocca si piegava in una smorfia di disappunto.
"Da quanto tempo sei sveglia ad ascoltare?", chiese seccato.
Lei cercò di conferire un tono allegro alla sua voce che era appena un sospiro.
"Abbastanza".
Galanár sbuffò e scosse la testa. Si accostò di nuovo al suo giaciglio e si chinò verso di lei.
"Ho l'impressione che dovremo rivedere meglio i nostri accordi", osservò severo.
"Quel che è fatto, è fatto!"
Le rispose con un mugugno. Fanelia provò a sollevarsi e ad avvicinarsi a lui, ma non vi riuscì. Un dolore lancinante la obbligò a restare distesa. I suoi occhi, che fino a un istante prima guizzavano di piacere, si spensero in una nuvola di angoscia. Galanár, a quella vista, mise da parte ogni rimprovero.
"Devi avere pazienza. I Silmëran ti hanno dovuta ricucire per bene. Silanna ha detto che le ferite non sembravano mortali, ma che avremmo dovuto comunque attendere un segno di ripresa da parte tua per avere qualche certezza".
"E tu hai atteso?"
Galanár indirizzò il proprio sguardo corrucciato lontano da lei.
"Vorrei risponderti di no, ma dal momento che ti sei divertita a spiarmi..."
Fanelia gongolò per un attimo del suo atteggiamento scostante e del suo imbarazzo, poi intrecciò le dita a quelle di lui.
"Ilo come sta?", domandò.
"Ilo chi? L'incantatore che stavo per strozzare un attimo prima che tu esalassi un impercettibile respiro?"
La risata divertita di Fanelia fece tornare il sorriso anche sul volto di Galanár.
"Oh, sii gentile e dimmi che sta bene", lo esortò. "E poi raccontami tutto quello che è successo".
Il re prese uno sgabello e le si sedette accanto. Fece per iniziare, ma poi si trattenne. Un'ombra scura gli attraversò il viso, mentre chinava le ciglia. Strinse la mano di lei tra le sue e se la portò alle labbra.
"Non so se sono pronto a rivivere quella battaglia", ammise a bassa voce. "Ho visto una malvagità difficile da descrivere in parole umane. Ho affrontato una parte di me che non credevo nemmeno esistesse e... per farla breve, ho avuto paura".
Tacque e affondò le labbra tra le dita di lei. Fanelia decise di rispettare il suo silenzio e rimase a fissarlo senza chiedere oltre. Sollevò la mano e gli carezzò il viso, poi strinse la sua capricciosa ciocca d'argento e vi lasciò scivolare sopra le dita fino a perdere la presa.
L'ombra che era in lui, la vedeva. Forse non sarebbe mai scomparsa del tutto, ma lei aveva giurato davanti agli Dei di prendersene cura.
"Hai già pensato cosa faremo, appena potrò rimettermi in piedi?"
Il re annuì, sollevato al pensiero di cambiare argomento.
"Andremo subito ad Harmaros. Mellodîn ed Aegis ci attendono lì. Dobbiamo andare a riprendere Laurëgil e pacificare il regno".
Fanelia chinò le ciglia in segno di assenso.
"Allora io andrò a Formenos".
L'espressione contrariata di Galanár le suggerì che quell'idea non rientrava tra i piani.
"A Formenos? Perché?"
"Perché dobbiamo riaprire la corte e mostrare a tutti che il nostro potere è saldo".
La stretta con cui lui le stringeva le dita si irrigidì. Il re si levò in piedi di scatto. Sembrava volerla sovrastare mentre lei non poteva muoversi dalla propria posizione indifesa.
"Non voglio che tu vada a Formenos da sola. Non sono questi gli ordini. Ho detto che..."
"Ho detto che andrò a Formenos, perché è così che va fatto. E così farò".
Galanár rimase in silenzio, a guardarla dall'alto per qualche istante.
"Ho l'impressione che dovremo rivedere meglio i nostri accordi", ripeté infine, serissimo. "Quando ti avrò raggiunta alla nostra corte di Formenos".
NOTA DELL'AUTORE
Nei Disticha Catonis (Distici di Catone, una raccolta in quattro libri di sentenze e proverbi molto noti nel Medievo), si parla del concetto latino di Occasio (Occasio o Tempus era l'equivalente latino del greco Caerus o Kairos, ovvero il tempo inteso come momento giusto, opportunità).
Il distico in questione recita:
Rem tibi quam scieris aptam dimittere noli: fronte capillata, post haec occasio calva.
Non lasciarti mai sfuggire ciò che sai essere adatto a te: l'occasione giusta ha i capelli sulla fronte, ma dietro è calva.
Se ti lasci sfuggire la tua occasione giusta, insomma, non puoi afferrarla per i capelli, quindi meglio stare attenti!
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