44. ABYSSUS ABYSSUM INVOCAT
Discesero le scale con le spade in pugno, pronti allo scontro, e lo scontro non si fece attendere.
Nei sottosuoli della torre trovarono gli armigeri schierati e un gruppo di Elfi Scuri. Dalle insegne che portavano, Galanár immaginò che fossero la guardia privata di Vargas, coloro che gli erano rimasti al fianco fino all'ultimo.
Dispensò un paio di ordini secchi, quindi lasciò che i suoi uomini si lanciassero all'attacco. In quello spazio ristretto non c'erano molte regole da rispettare e la magia non sarebbe servita a molto, né dall'una né dall'altra parte, a meno che uno dei due schieramenti non avesse deciso di sacrificare tutti, amici e nemici. Si trattava, quindi, di combattere per la vita o per la morte, e il generale non aveva nessuna intenzione di morire là sotto.
Silanna rimase indietro, a distanza di sicurezza per sé e per i propri Maestri. Davanti a lei, i soldati nemici cadevano uno dopo l'altro. Galanár e i suoi sembravano furie assetate di sangue. Più ne uccidevano, più sembravano alla ricerca della prossima vittima. Il rumore assordante, lo stridio delle lame e le urla si amplificavano sotto le basse volte di pietra. Una oscura follia aleggiava attorno ai movimenti e negli sguardi impietosi dei cavalieri. L'elfa pensò che, se fosse esistito un Daimon del Sangue, quelli sarebbero stati i suoi più devoti servitori.
Un varco si aprì nella mischia e un Elfo Scuro avanzò verso di lei. Silanna non ragionò sul da farsi, ma agì d'istinto. Stese la mano e la serrò in un pugno. In pochi istanti fece accasciare al suolo il suo avversario e lo privò di tutta l'aria che aveva nei polmoni.
Si arrestò e rimase a fissare le proprie dita, ancora contratte. Non aveva mai ucciso un essere vivente a quel modo. Aveva sempre usato la sua magia per curare e proteggere. Persino nelle situazioni più estreme, aveva preferito rendere inoffensivo chi l'attaccava. Privare un'altra creatura della vita era un pensiero che non le apparteneva.
I suoi occhi tornarono a studiare la scena che aveva di fronte. I cavalieri di Arthalion banchettavano sulle spade dei loro nemici e i suoi Maestri Silmëran cominciavano ad avere campo libero per neutralizzare i Daimonmaster di Vargas.
Vargas...
Fu proprio pensando a lui che un'ombra scura le avvolse la mente e un brivido le scese lungo la schiena.
Lei era un Daimonmaster molto dotato e la Magia della Luce aveva di gran lunga potenziato le sue abilità. Ciononostante, era consapevole dei propri limiti. Non era Edhel, né avrebbe mai eguagliato la potenza che lui avrebbe potuto raggiungere se non fosse morto. Vargas, quindi, era ancora parecchio in vantaggio, in fatto di magia. Perché allora, le stava sembrando tutto così semplice?
Stavano facendo fuori gli incantatori con sufficiente facilità, e altrettanto in fretta Galanár e i suoi uomini si stavano disfacendo dei soldati nemici. Una sola parola le andò dritta dalla testa alle labbra.
"Trappola", mormorò. "È una trappola!"
Nel rumore assordante dello scontro, però, nessuno poteva sentirla.
Cercò Galanár con lo sguardo. Lo intravide dal lato opposto della grande sala che occupava il centro dei sotterranei. Aveva il piede appoggiato sul corpo di un soldato caduto e stava estraendo Ariendil dalla sua schiena. Provò a farsi largo tra i combattenti e cercò di raggiungerlo. Doveva avvertirlo. Due soldati ingaggiati nella lotta le sbarrarono la strada. Li aggirò e tornò verso il suo obiettivo, ma il re era sparito dalla sua vista.
Si sentì tirare per una manica. Si voltò e incrociò l'espressione tesa di uno dei suoi incantatori.
"Signora, venite subito... c'è qualcosa che dovete vedere".
"Generale, venite subito... c'è qualcosa che dovete vedere".
Un soldato aveva attirato l'attenzione di Galanár con voce allarmata. Il re pulì la lama di Ariendil, quindi seguì il suo uomo lungo uno dei corridoi laterali che si aprivano nella sala. Scese una stretta rampa di scale umide e si ritrovò in uno spazio angusto che aveva tutta l'aria di ospitare le prigioni.
"Guardate là".
Il soldato gli fece luce con la lama brillante della spada. Galanár cercò di adattare la vista e mosse qualche passo. Sì, era una cella, quella in cui si trovavano, e davanti a lui c'era un uomo in catene. Sedeva scomposto sul pavimento, con la schiena addossata contro il fondo di pietra scura.
Il generale si chiese quale terribile colpa poteva averlo condannato a uno stato tanto miserevole. Non c'era luce in quella profondità e tutto versava in un tremendo abbandono.
Si avvicinò alla parete da cui si partivano i ceppi che bloccavano a terra il prigioniero. Tese Ariendil davanti a sé e sollevò il mento dell'uomo con la punta della spada per studiargli il viso.
Dimostrava qualche anno più di lui, ma era un elfo, quindi era impossibile stabilirne l'età con certezza. L'aspetto malconcio, poi, rendeva vana qualsiasi speculazione. Era così smagrito dalle privazioni che la pelle, pallida e tesa, sembrava doversi incrinare da un momento all'altro. I capelli, sporchi e arruffati, conservavano ancora qualche traccia di un biondo leggero.
Al tocco del metallo, il prigioniero aprì le palpebre e lo fissò. Schiuse a fatica le labbra screpolate per lasciarsi sfuggire un'esclamazione di stupore, quindi un sottile rantolo. Galanár trattenne il fiato all'udire quel lamento. Quello spirito vitale, in una creatura che sembrava più prossima alla morte, gli procurò un brivido. Si tolse l'elmo e si inginocchiò accanto all'uomo, nel tentativo di udire le sue parole. L'altro osservò con stupore il suo gesto e lo seguì fino a quando non gli fu vicino.
"Siete Galanár?", mormorò con un filo di voce. "Siete il principe Mezzelfo, non è vero?"
Il re sgranò gli occhi a quella domanda. Chi era quell'elfo? Era sicuro di non averlo mai visto prima, eppure aveva pronunciato il suo nome con sicurezza.
"Sono Lomion. Ero il re di Helegdir".
Silanna si mosse con cautela attorno alla voragine che occupava il centro della stanza. Era forte, il potere che percepiva. Quasi incontenibile.
Aveva seguito i suoi Maestri Silmëran giù per una scala striminzita che sembrava perdersi nelle viscere stesse della terra. Erano nel cuore più profondo di Lumëran, dove risiedeva il centro della sua magia.
Simile ma speculare al loro Pozzo di Luce, quella voragine nel terreno era il punto da cui si dipartiva il vortice di tenebra che si innalzava sopra la torre e oscurava il cielo. Il suo richiamo seducente invitava a tendere le mani e ad affondare in quel cupo bagliore.
Silanna tremò nell'attimo in cui tutto le fu chiaro. La magia dell'Ombra permeava l'intero edificio, ne aveva intriso ogni pietra, ogni frammento. Emanava da ogni parte e contaminava tutto ciò che vi stava a contatto. Era magia che tirava fuori ogni pensiero nascosto, ogni scandalosa tentazione, ogni più ripugnante desiderio.
Ripensò alla furia con cui i soldati di Galanár avevano trucidato i nemici. Erano uomini e, molto più degli Elfi e dei Silmëran, erano soggetti alla malia operata dal pozzo.
Era scandalosamente semplice, il modo in cui la trappola di Vargas stava operando. Perché avrebbe dovuto fermarli? Che importanza poteva avere se stavano trucidando il suo esercito, quando presto si sarebbero tramutati nei suoi nuovi giocattoli? E quanta gloria, e altrettanta rovina, gliene sarebbero derivate se lo stesso Galanár fosse diventato il suo fantoccio?
Gettò una rapida occhiata al vortice nero che si agitava davanti a lei, senza soffermarsi troppo a lungo. Avrebbero potuto distruggerlo con la loro magia di Luce? Sì, potevano, ma che sarebbe accaduto?
Quella magia era intrecciata al tessuto stesso della torre. Se avessero disintegrato il pozzo, avrebbero distrutto l'edificio e forse l'intera città.
Scosse il capo. Doveva trovare Galanár e parlarne con lui. Era un Mezzelfo, non del tutto uomo, ed era stato protetto alla nascita contro la magia. Aveva ancora qualche speranza che lui fosse rimasto lucido.
Era un macabro scherzo? Un inganno? O era una incredibile, crudele verità?
Galanár scrutò l'elfo con sospetto.
"Re Lomion?"
Non si era mai preoccupato del suo destino. Aveva sempre preferito pensarlo lontano dal suo regno, oppure morto. Eppure, mentre osservava le sue braccia scarne, le piaghe dei ceppi sul suo corpo, lo stato dei suoi vestiti, non poté impedirsi di provare insieme una profonda pena e un'immensa paura.
Di cosa era stato capace Vargas, per raggiungere i suoi scopi? E di cosa era stato capace lui?
Scosse il capo per scacciare quel pensiero dalla testa.
"Che vi è accaduto?"
Lomion si tirò su a fatica e quel gesto gli strappò un flebile lamento di dolore. Guardò Galanár ed esitò. Era chiaro che lo temeva, ma non aveva altra scelta se non quella di fidarsi di lui.
"Quando Harmaros è caduta, ho cercato di riparare a Laurëgil per chiedere aiuto a mio padre contro i Nani, ma non sono mai arrivato nella capitale. Sono stato catturato e portato in una località che non conoscevo".
"Vargas?", lo interrogò il generale. "Perché?"
"Aveva deciso di mettere vostro fratello sul trono degli Elfi. Anche con voi caduto in battaglia, c'era comunque un re di troppo".
Il sorriso che Lomion aveva cercato di sposare alle sue parole non era che una linea che tagliava il suo viso. L'espressione sul volto di Galanár, invece, si fece più cupa.
"Non avete provato a discutere con lui del vostro rilascio? Avrete saputo che Edhel è morto".
"L'ho fatto. L'ho implorato, l'ho rassicurato sulle mie intenzioni, ho giurato sui Sacri Daimon, ma lui non ha mai voluto ascoltare".
Lomion sospirò e, in quel gesto, sembrò svuotarsi. Fece uno sforzo per sollevare il capo e proseguire.
"Sapete, Galanár... io non sono come voi, né come mio fratello. Non ho mai voluto la corona. Da quando ne ho memoria, ho sempre desiderato servire gli Dei. Il mio destino era Valkano. Avevo già deciso di passare la mia vita nel monastero, ma poi vostra madre è fuggita da Laurëgil, nostro padre l'ha maledetta e la mia vita è cambiata nell'arco di una notte".
L'elfo chinò le ciglia e fece una pausa, esausto. Galanár non disse nulla. Un gelo inspiegabile gli penetrò sotto la pelle e gli restituì un brivido. Si ritrovò a pensare come i diversi fili del destino si fossero intrecciati senza che molti protagonisti di quella storia ne avessero reale coscienza o piena intenzione. Quanto sarebbe stato naturale che Lomion lo odiasse? La sua stessa esistenza era stata, in almeno due diversi modi, motivo della sua sventura. Era perché Galanár era venuto al mondo ed era ancora vivo, se lui versava in quella condizione. Eppure, a dispetto di tutto, quell'elfo gli aveva sorriso come a un amico.
"Vargas sosteneva che era troppo pericoloso lasciarmi andare. Avrei preferito piuttosto che mi uccidesse, ma lui aveva già progettato un nuovo modo per usarmi: dovevo reclamare il trono e sollevare gli Elfi contro di voi. Mi ha messo in mostra fino a che non è riuscito nel suo intento, poi mi ha rinchiuso qui".
Galanár annuì. Quell'ultima parte del racconto collimava con le informazioni in suo possesso sulla rivolta a Ovest e riempiva i vuoti che, fino ad allora, aveva potuto colmare solo con le supposizioni.
Si alzò in piedi e fece qualche passo lontano dall'elfo, lo sguardo fisso sul terreno. Ariendil scendeva lungo il suo fianco, trattenuta nella sua mano da una stretta distratta. Voleva concentrarsi su quella scoperta, ma non ci riusciva. La sua mente, sempre così desta e attenta, era annebbiata.
"Come faccio a sapere che non è una trappola?", chiese infine. "Come faccio a sapere che non state ancora recitando per lui?"
"Galanár, sul mio spirito!", esclamò Lomion con tutta la forza che gli restava. "Vi chiedo solo di liberarmi. Vi guiderò fuori da questo posto, vi mostrerò tutto ciò che potrebbe esservi utile contro Vargas..."
Il generale gli rivolse uno sguardo oscuro e tagliente che sembrava fatto di ghiaccio, e l'elfo si zittì di colpo.
"Potrebbe essere tardi", gli rispose con voce dura. "Potrebbe non esserci nessuna via di salvezza fuori di qui".
Lomion si tirò su con la schiena e spostò il peso del suo corpo sulle ginocchia. Si tese verso il re con un gesto di supplica.
"Oh, non importa! Liberatemi, vi chiedo solo questo, e io sarò per sempre al vostro servizio".
La mano di Galanár recuperò la sua presa sicura attorno ad Ariendil. La lama ebbe un sussulto e brillò. La punta stridette piano contro il pavimento. Il generale fece un passo, poi un altro, come un leone intento a studiare la sua preda. Gli occhi chiari di Lomion si accesero di terrore.
"Vi prego!", ripeté. "Non chiederò mai nulla. Vi riconoscerò come re davanti a tutti, se è questo il vostro prezzo, e trascorrerò a Valkano la vita che mi resta..."
Galanár, con una maschera di totale inespressività sul viso perfetto, sollevò la spada.
"Ciò che va fatto, va fatto", dichiarò senza alcuna passione nella voce.
E va fatto adesso! Non metterò in pericolo ciò che ho costruito. Il mondo sta crollando, ma io posso impedirlo. Posso, e lo farò!
Poggiò anche la mano sinistra sull'elsa della spada e la sollevò sulla testa di Lomion. L'elfo chinò il capo e rimase immobile. Galanár si accorse che non tremava e quel dettaglio gli fece salire ancor più il sangue alla testa.
E non trema nemmeno davanti a me? Non trema davanti al suo re, al suo dio della vita e della morte?
È come Edhel, che ha osato guardarmi senza tremare quando avrebbe dovuto implorare la grazia, che ha osato prendere ciò che era mio! Ma anche Edhel ha fatto la fine che meritava e adesso nessuno oserà più minacciare ciò che mi appartiene!
Avrò la testa di Lomion come trofeo di guerra... io...
"Galanár!"
Si riscosse.
Silanna era ai piedi della scala che conduceva nella cella e lo fissava esterrefatta. Lui si girò appena per guardarla, senza abbassare la minaccia della spada. Lei avanzò cauta. I suoi occhi si spostarono dalla punta di Ariendil alla sagoma del prigioniero con crescente sgomento. Sollevò le dita e le avvicinò alla spalla di Galanár senza osare toccarlo, poi si sforzò di modulare la voce senza far trapelare il suo terrore.
"Che succede? Che stai facendo?"
"Non lo vedi?", rispose lui gelido. "Nella tana del traditore abbiamo trovato anche l'usurpatore".
"Galanár", lo supplicò Lomion. "Ho giurato..."
La sua voce si spense in un singhiozzo e Silanna provò una stretta al cuore quando riconobbe il re di Helegdir in quell'elfo spezzato e implorante.
"Galanár", ripeté l'incantatrice con maggiore dolcezza, "che stai facendo?"
Non era più in sé. La furia e il veleno malvagio di Lumëran avevano dovuto combattere con la sua tempra molto più di quanto non avessero dovuto fare con i suoi soldati, ma alla fine lo avevano avuto. E lui intendeva giustiziare a sangue freddo un innocente. Avrebbe preso una vita indifesa senza un motivo. Un peccato imperdonabile che non aveva mai compiuto prima.
Il cuore franò nel petto di Silanna. A suo modo, aveva amato quell'uomo. Per l'esattezza, aveva amato proprio quella parte gloriosa di lui. Il suo senso dell'onore, la sua grandezza d'animo, la sua capacità di dedicarsi a un ideale. Vedere quella luce oscura nei suoi occhi la riempì di profonda tristezza. Non era Galanár, quello. Non era il Galanár che avrebbe mai voluto vedere, abbandonato alla parte peggiore di sé.
La mano, che era rimasta sospesa, si tese per sfiorarlo.
"Che cosa vuoi?", le chiese brusco.
"Vorrei che abbassassi la spada e che mi seguissi".
"Prima devo mettere in salvo il mio regno, donna. Dopo, forse, ti permetterò di avanzare richieste".
"Galanár..."
Le dita di Silanna si fecero carezza sul suo braccio, ma lui non sembrò apprezzare quel gesto. Le bloccò il polso con una mano.
"Oppure potrei giustiziare anche te. In fondo, anche tu hai una colpa da pagare".
La lama di Ariendil si spostò dal capo di Lomion al viso dell'elfa, ma lei non si mosse. Si lasciò sfuggire solo un sospiro.
In quel momento la terra sotto i loro piedi fu scossa da un tremito che si diffuse lungo le pareti di roccia. Si udirono delle grida provenire dall'alto. Qualche granello di polvere danzò nell'aria e scese dal soffitto fino a loro.
Silanna trattenne il fiato. Sottrasse la mano dalla stretta di Galanár e si guardò attorno per interrogare la sua intelligenza arcana. Qualcosa stava mutando, qualcosa stava accadendo oltre loro, oltre la loro volontà. Da qualche parte, sopra le loro teste, Aidan stava combattendo Vargas. Forse lo aveva ucciso. Forse era morto. Forse, e quello era il pensiero peggiore, l'incantatore era riuscito a impossessarsi di lui.
Non aveva tempo di scoprire se la potenza che stava per stendersi sulle loro vite era Luce o Ombra. Per una forza o per l'altra, la torre stava tremando fin dalle fondamenta. Mise una mano su quella con cui il re stringeva la spada. Intuì che quel contatto lo aveva fatto fremere e quella reazione accese in lei la speranza.
"Galanár, tu possiedi ogni virtù, ogni gemma e ogni perfezione delle nostre razze... Te ne ricordi? Ricordi quella notte? Noi combattiamo per la gloria, mi hai detto. Noi stiamo mettendo in gioco il nostro onore. Sei tu, quello. E quel Galanár non uccide un innocente che non può difendersi".
Lui non rispose. Prese un profondo respiro e continuò a fissarla. Silanna capì che stava combattendo la battaglia più aspra che avrebbe mai affrontato. Stava duellando con la sua parte ferina e senza cuore.
Una scossa ancor più violenta fece sussultare la pietra. Piccoli cristalli di roccia si staccarono dalle pareti. L'espressione di Silanna si fece implorante. Dovevano andare, o sarebbero morti in quella prigione.
"Galanár, ti prego..."
Il re distolse lo sguardo, allontanò la spada da lei e tornò a puntarla contro Lomion.
"Ciò che va fatto, va fatto!", esclamò di nuovo.
NOTA DELL'AUTORE
Tratto dalla Vulgata (Salmo 41), il verso latino Abyssus abyssum invocat si traduce con L'abisso invoca l'abisso. In generale, viene interpretato come un avvertimento e un invito a tenersi lontani dalle tentazioni, perché il male genera altro male, in una spirale che conduce alla perdita della propria anima.
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