39. NUMQUAM PERICULUM SINE PERICOLO VINCITUR
Il fuoco si stava spegnendo, ma nessuno sembrava curarsene. Una tenue luce rossastra aveva preso il posto dei guizzi brillanti e dorati che, fino a poco prima, illuminava l'ambiente.
Gli unici due occupanti della stanza erano immobili, stretti in un abbraccio che sembrava isolarli da ciò che li circondava, indifferenti al chiarore e al calore che andavano scemando.
Alis sedeva di fronte al grande camino. Osservava i rami che si scurivano e le braci che baluginavano delle ultime scintille rossastre. Mellodîn, alle sue spalle, le avvolgeva la vita con un braccio e la teneva stretta contro il suo petto mentre, a occhi chiusi, affondava la guancia tra i suoi capelli sciolti.
C'era un'innaturale assenza di suoni attorno, e un'altrettanta innaturale quiete. Persino un sospiro avrebbe potuto incrinare quel fragile equilibrio, che sembrava sospeso come una bolla di sapone.
"Sei in pensiero per lui?", sussurrò lei d'un tratto, riluttante al pensiero di infrangere quel silenzio.
Il comandante non rispose subito.
"Per Aidanhîn?", bisbigliò a un millimetro dal suo orecchio, senza sollevare le palpebre e senza muovere un muscolo.
Alis piegò il capo e si appoggiò ancor di più contro di lui.
"No", chiarì. "Per Galanár".
Mellodîn sollevò le palpebre e mise a fuoco il camino che aveva di fronte. Seguì le architetture di quella stanza che gli era ancora estranea e non rispose.
"So che avevi delle riserve su questa spedizione", proseguì lei. "So che hai cercato di metterlo in guardia su quello che sarebbe potuto succedere... che è successo alla fine... insomma, so che non eri d'accordo con lui, stavolta".
"Era inevitabile", rispose il comandante.
Sembrava non sentire l'esigenza di seguire il filo logico delle parole di lei, ma solo il flusso dei propri pensieri.
"Prima o poi lui doveva forzare gli eventi fino alla crisi. Quell'oscuramento, quel vuoto che ti fa perdere di vista l'obiettivo... credo che accada a tutti, almeno una volta nella vita, e Galanár non poteva sfuggire a questa regola. Anzi, ne era tanto più soggetto quanto più audaci diventavano i suoi progetti".
Strinse ancor di più le braccia attorno al corpo di Alis come se avesse voluto fondersi con lei.
"Due anni interi...", mormorò, come se stesse solo riflettendo a voce alta. "Due anni in cui si è rifiutato di guardarsi dentro e di affrontare il caos in cui stava annegando, in cui siamo andati sempre più vicini al perdere tutto... però adesso sono quasi contento di essere partito".
"Contento? Come mai?"
"Perché credo che, in qualche modo, Galanár abbia ritrovato se stesso".
Sorrise e strofinò con dolcezza la barba contro il viso di lei.
"Quindi no, non sono in pensiero per lui. Non più".
Lei non disse nulla. Si lasciò cullare da lui e da quella sicurezza che avvertiva nella sua stretta. Il silenzio riconquistò la stanza, caldo e avvolgente. Il silenzio di un abbraccio che non desiderava altre parole per essere perfetto.
"Alis, ascolta..."
Un ramo si spezzò, la legna crepitò e una scintilla si sollevò nell'aria densa del camino. Alis chiuse gli occhi e trattenne il fiato, mentre lui passava il pollice sulla sua guancia con un gesto lento.
"Non sono tornato solo per combattere. Stavolta sono tornato per restare".
Lei non replicò. Si lasciò solo sfuggire un sospiro, che era insieme sollievo e gioia. Si girò, poggiò la guancia sul suo cuore e si sistemò meglio tra le sue braccia. Si strinse a lui con tutte le sue forze e rimase a farsi circondare dal suo calore, fino a quando due lievi colpi sul legno della porta li risvegliarono dal loro abbandono.
Adwen entrò nella stanza. Mellodîn e Alis ebbero appena il tempo di allontanarsi e di sollevare la testa per guardarla. La regina rivolse loro un'occhiata desolata. Per quanto fosse evidente il suo tentativo di restare calma, il movimento nervoso delle sue mani tradiva la sua ansia.
"Comandante", disse con voce strozzata, quasi a scusarsi di essersi rivolta a lui in quel momento, "una delle vostre staffette è appena tornata. I ribelli hanno violato i confini. All'alba saranno qui a reclamare il possesso di Valkano".
Mellodîn non disse nulla. Sciolse la stretta che lo teneva unito ad Alis e si levò in piedi. Affibbiò il giustacuore slacciato, quindi si chinò a prendere la spada appoggiata contro la parete di pietra.
L'alba era cupa ed esangue. Galanár guidò il cavallo di fronte ai reparti ben allineati del suo esercito con gesto distratto. Fissava la linea nera e vivente davanti a sé.
Quante volte aveva già osservato quella scena, e quante ancora avrebbe avuto in sorte di farlo?
Fermò l'animale accanto a quello del fratello con uno scarto lieve ed elegante.
"E così, eccoci da Vargas", esordì.
Aidan annuì senza guardarlo. Non riusciva a staccare gli occhi dalla vista magnetica della bufera di forze che si scatenava sopra la città nemica.
Silanna aveva descritto Lúmëran alla perfezione: esposta in piena luce. Ma se Silmëran era pervasa da un chiarore impalpabile, Lúmëran sembrava calata in una grigia giornata d'inverno.
Era una modesta fortezza, attorniata da pochi e bassi edifici. Al centro troneggiava una torre, dalla cui cima si innalzava una fosca colonna di oscuro bagliore. Le due forze si intrecciavano e si elevavano fino al cielo, dove il turbinio si fondeva con le nuvole. Il loro vortice era presago di tempesta. Come potesse il buio mescolarsi alla luce a quel modo era, per Aidan, un mistero inspiegabile.
Galanár studiò l'espressione di triste stupore con cui il fratello stava osservando lo schieramento nemico. Sembrava senza fiato, ma il lieve condensarsi dell'aria del mattino lo rassicurò almeno sul fatto che respirava ancora. Decise di non attendere oltre. Rischiava solo che la situazione peggiorasse e poi, date le circostanze, a cosa sarebbe servito aspettare?
Non aveva dovuto perder tempo a sistemare l'accampamento, né mettere a punto grandi strategie. Come era ovvio per tutti loro, Vargas li stava aspettando. Sapeva dov'erano, quanti erano e quanto tempo avrebbero impiegato per raggiungere le porte di Lúmëran. A Galanár non era rimasto altro da fare che organizzare i soldati nel modo migliore possibile, concertare le linee guida fondamentali per l'attacco con i suoi alleati, quindi presentarsi di fronte al nemico, che era già schierato davanti alle mura della città.
Il Re Mezzelfo fece scorrere lo sguardo su quella distesa di uomini e di armi. Non era la fanteria a preoccuparlo. Da quello che poteva intuire, era composta per la maggior parte da uomini rastrellati nei villaggi e nelle città assoggettate, e da mercenari, tra i quali spiccava buona parte dei Pirati Neri che Almar doveva aver donato al suo ultimo padrone.
No, quello che davvero faceva gelare il sangue nelle vene di Galanár erano i Daimonmaster. E non Daimonmaster qualsiasi: alla testa di ogni drappello c'era un Elfo Scuro.
Chi poteva sapere di quale terribile magia si erano arricchiti, sotto la guida del loro scellerato Maestro? Se Vargas era davvero riuscito a mettere in atto i suoi rituali proibiti, e la tempesta oscura che si sollevava sopra la città sembrava suggerirlo, a Galanár non sarebbe bastato uccidere tutti quei soldati.
Pregò che Silanna possedesse una soluzione a quel problema e in cuor suo ringraziò Aidan per averla trascinata con loro in quell'impresa. A quel pensiero la curva delle sue labbra si distese. Poggiò una mano sulla spalla del fratello.
"Sai, Aidanhîn... penso che stavolta tocchi a te incitare i soldati prima di scendere in campo".
Il ragazzo si girò di colpo a guardarlo, senza neppure tentare di nascondere il proprio stupore, poi aggrottò le sopracciglia.
"Ma sono i tuoi uomini, quelli. E sono venuti fino a qui per te", rispose incredulo.
Galanár, per tutta risposta, sorrise.
"E io sono venuto fin qui per te, quindi dovresti essere tu a guidare la carica".
Per qualche istante, Aidan rimase a fissare un punto indefinito di fronte a sé. Non sarebbe stato in grado di spiegare il groviglio di emozioni contrastanti che era venuto a galla di fronte a quella richiesta. La gioia e la paura si intrecciavano ai ricordi. Agli stessi ricordi che aveva voluto seppellire e dimenticare. Alla fine si arrese a se stesso e cedette alla sincerità che gli dettava il cuore.
"Le parole che tu hai pronunciato ad Hakala... nessuno potrà mai scordarle, né eguagliarle. Qualsiasi cosa io riesca a inventarmi adesso, non sarò mai bravo come te".
"Probabile", rispose Galanár, divertito dall'espressione del fratello, che mescolava piacere e imbarazzo. "Ma non certo".
Con una risata, sollevò le redini e diede di sprone al cavallo.
"Sbrigati, prima che cambi opinione", scherzò.
Si voltò per disporsi sul lato dello schieramento e lasciare ad Aidan il suo momento. Nel compiere quel movimento tanto usuale, il suo cuore perse un battito: il suo sguardo si era smarrito nel vuoto. Per la prima volta in tanti anni non aveva incrociato gli occhi di Mellodîn. Per la prima volta dovette ricordare a se stesso che lui non era lì, che la sua presenza vigile non lo avrebbe accompagnato.
Gli mancò il respiro, come se si fosse accorto di colpo di aver perso Ariendil, di essere disarmato, ma subito si ripeté che forse anche Mellodîn stava per scendere in campo. Stavano combattendo la stessa battaglia in ogni caso, anche se su terreni diversi. Due fili della stessa arma.
Quel pensiero riportò la calma nella sua testa. Prese fiato e tornò a guardare dritto di fronte a sé. Vide Fanelia raggiungere il suo posto e d'istinto sorrise, mentre guidava il cavallo fino a lei.
L'alba era viola e grigia. La primavera era ancora una lontana speranza. Il vento sbatteva la stoffa dei mantelli e la faceva schioccare come una frusta. Adwen ripeté a se stessa che non sarebbe arretrata di un passo, in quella giornata che non era ancora iniziata. Cercò di raccogliere ogni pensiero felice, ogni frammento capace di rassicurarla: l'abbraccio di Silanna, l'omaggio di Aegis, le parole di Edhel, i sorrisi di Aidan.
Aidan.
Era per lui che non avrebbe ceduto.
Si allontanò dal viso i capelli che l'aria capricciosa le scompigliava e si avviò con passo deciso verso gli spalti del palazzo. Aegis, lo sguardo immobile e serio, si fermò alla sua destra.
Adwen fece scivolare le dita sulla pietra fredda che si ergeva a ultima difesa di quel castello. Metri e metri più in basso, migliaia di soldati erano disposti con ordine, pronti a resistere. Le sue iridi pervinca si spostarono quindi più lontano, a scrutare le linee dei ribelli che si apprestavano ad attaccarli.
In un angolo lontano e dimenticato della corte, l'albero di Jacaranda piegava i suoi rami verso il terreno scintillante di brina. I fiori cominciavano ad avvizzire e i petali caduti mulinavano nel vento. In tutti quei giorni aveva trascurato di curare quella pianta.
La regina trattenne un sospiro di tristezza, poi si girò verso Aegis e gli rivolse un lento cenno del capo. Il Maestro avanzò fino alle mura e guardò i soldati schierati sotto di loro. La sua voce vibrò cristallina nell'aria tersa del mattino.
"Soldati, siete qui per proteggere un luogo che per secoli non avete chiamato casa, ma che per tutti è stato ugualmente sacro. Incantatori, state per affrontare una battaglia che nessuno avrebbe voluto mai combattere, contro coloro che chiamiamo fratelli".
Nel campo si era fatto silenzio. Sopra lo schieramento dei soldati, il cielo di Valkano si colorava di cobalto e luce. Solo qualche striatura di nuvole imbiancava la distesa perfetta come una pennellata distratta.
"Le nostre mura hanno già subito l'offesa della distruzione e della rabbia nemiche, e quel giorno un ragazzo, che non era ancora re di Helegdir, ha salvato Valkano con la sua spada", proseguì Aegis, mentre il tono della sua voce si faceva via via più intenso. "Queste mura sono state infine ricostruite e rivestite del loro antico potere, e anche quel giorno un giovane, che era ormai re di Helegdir, ha posto il suo sigillo sull'anima magica di Valkano.
Il Maestro prese una pausa. Il suo sguardo sembrò ripassare con lentezza lo spettacolo di uomini, elfi, armi e cavalli che si agitava di fronte a lui, ancorato alle sue parole.
"Oggi tocca a noi scendere in campo perché il giorno della Caduta non debba ripetersi. Confidate nella magia e nella forza. Dimostrate la vostra fedeltà al re e la vostra devozione agli Antichi Daimon, che sono gli unici arbitri della vita e della morte".
Un suono profondo e compatto si levò dalla schiera.
"Nai!"
Il cuore di Adwen ebbe un sussulto all'udire quel roco grido di battaglia. Il vento le scompigliò le vesti e i capelli. Si sporse dalle mura della fortezza per guardare gli Uomini e gli Elfi schierati. Un uomo a cavallo, con l'armatura di Artalion scintillante, aveva rivolto il capo nella sua direzione. I suoi occhi castani guardavano lei. Quel lungo sguardo fu sufficiente per calmarle il cuore. Si girò verso Aegis. Sollevò la mano e l'affondò nella coppa che lui le porgeva. Raccolse un pugno di terra, quindi distese il braccio davanti a sé, oltre gli spalti del castello.
"Benedizioni della Terra!", esclamò nella lingua degli Elfi e in quella degli Uomini.
Aprì piano le dita e sparse la polvere nel vento con un gesto ampio, mentre con una preghiera al suo Daimon consacrava alla battaglia i suoi soldati. Guardò in basso un'ultima volta. Mellodîn la stava ancora fissando. Da quella distanza si indirizzarono il medesimo augurio di speranza, un attimo prima che il comandante si voltasse per fronteggiare il nemico.
NOTA DELL'AUTORE
Numquam periculum sine periculo vincitur, Non si vince un pericolo senza correre un pericolo (Publilio Siro, Sententiae, n.568).
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