32. ABSIT REVERENTIA VERO

La sera era scesa improvvisa a lambire le cime degli alberi. La sagoma di Valkano cominciava a evaporare, inghiottita dall'ombra e dalla roccia.

Tutto era calmo attorno alla montagna. Solo un cavaliere avanzava a spron battuto, unico movimento in quello scenario statico. Viaggiava avvolto da un fitto mantello che ne rendeva indistinguibili i tratti. La sua ansia era tangibile dal modo in cui i guanti erano tesi nel tenere le briglie e da come il busto sembrava spingersi in avanti, a incitare la cavalcatura.

Si fermò all'ingresso del castello, dove le guardie si erano presentate a controllare chi fosse quel viandante.

"Devo parlare con la signora di Helegdir, presto!", gridò il cavaliere al loro indirizzo.

Le sentinelle si scambiarono uno sguardo perplesso.

"È tardi, signore", rispose uno di loro. "E la regina non riceve visite dagli sconosciuti".

Con un gesto nervoso, la figura a cavallo si liberò della stoffa che gli nascondeva il capo. Le lunghe orecchie da elfo e l'aspetto nobile rivelarono subito la sua vera identità.

"Sono il Reggente", esclamò, mentre le guardie si affrettavano a inchinarsi. "Aprite il cancello e avvertite subito la regina Adwen. È questione di vita o di morte".

Lo raggiunse con ancora indosso la veste da camera e i capelli sciolti sulle spalle. Aegis era sempre stato molto attaccato alle convenienze. Se anche non le avessero detto che era urgente, la sua visita inaspettata le avrebbe comunque suggerito che non c'era tempo per le formalità.

Adwen entrò nella sala con il cuore in tumulto, seguita da Alis.

"Mio caro Aegis, perché siete giunto qui con tanta urgenza e a quest'ora della notte?"

L'elfo fece per alzarsi, ma lei lo dispensò dal farlo. Aveva l'aria stanca e il volto segnato dalla preoccupazione. Sembrava persino più vecchio della sua età, come se un grave lutto gli fosse sceso sul cuore. Adwen gli sedette accanto e gli prese con slancio la mano. Era gelata.

"Non esiste una maniera cauta per darvi questa notizia", mormorò l'incantatore con voce tirata. "Laurëgil è stata presa".

Adwen sbatté le ciglia perplessa.

"Presa?"

"Gli Eldar si sono sollevati contro il Re e hanno occupato la capitale".

"E voi non avete potuto fare nulla? dov'erano gli uomini? dov'erano i vostri incantatori? perché non hanno difeso la rocca?"

Di fronte a quella raffica di domande, Aegis abbassò il capo e si lasciò sfuggire un gesto di sconforto.

"I pochi rimasti fedeli alla Corona mi hanno aperto la strada con la vita. È grazie al loro sacrificio se sono riuscito a lasciare la città e cavalcare fin qui. La rivolta è stata meticolosa e fulminea, quindi è assai probabile che il dissenso covasse da tempo sotto la cenere. Ha contagiato elfi e incantatori, compresi molti di coloro che vivevano a palazzo".

"Non potrei credere a questa notizia se non foste voi stesso a portarla", protestò Adwen, con un accento di dolore nella voce. "Siete stato sempre giusto e attento nell'amministrare quelle terre. Siete un Eldar anche voi, e un Daimonmaster. Non riesco a immaginare che il nostro stesso popolo non vi rispetti".

Lui sciolse la mano dalla sua e si coprì il viso, per celarle il suo avvilimento.

"Non sono uno di loro", mormorò affranto. "Non lo sono più. Il Reggente di Arthalion... così mi chiamano, signora. Per loro non sono che un'estensione del re. Di un re che non riconoscono e che non vogliono più".

"E che è troppo lontano, adesso", sospirò Alis.

Adwen considerò quelle parole e l'accoramento di lui.

"Devo riunire i Maestri e avvertirli di quanto è accaduto".

Il suo sguardo passò rapido da Alis a Aegis, come in cerca della loro conferma.

"Che altro ci resta da fare? Avvertire Aidan? Se anche trovassi un modo per farlo, a cosa servirebbe?"

L'incantatore, di fronte alla sua incertezza, posò la mano su quella di lei.

"Per il momento è opportuno richiamare tutti gli uomini abili a nostra disposizione. Formenos sembra tranquilla, le notizie giunte da quel fronte sono rassicuranti. Farò in modo di organizzare al meglio la difesa del castello e dei confini. Voi cercate di sapere cosa sta accadendo a Harmaros. Dobbiamo avere la certezza che il regno di Helegdir non sia compromesso".

Adwen annuì.

"Manderò subito qualcuno alla corte di re Arantar, a chiedere notizie. Voi, intanto, ditemi tutto ciò che sapete".

"Sembra che la ribellione degli Eldar abbia un valido fondamento, purtroppo. Reclamano il trono per re Lomion".

"Re Lomion?", esclamò lei, incapace di trattenere lo stupore all'udire quel nome. "Non si avevano più sue notizie dopo la presa di Harmaros".

"Le voci sulla sua sorte erano discordanti, ma tutte lasciavano intendere che fosse ancora vivo. E se lo è, la sua pretesa è valida, mia signora. In più, la sua persona può avere sugli Elfi una presa molto più salda di quanto non si possa dire di re Galanár".

"Più di Galanár?"

Adwen si alzò in piedi con un movimento nervoso e fece qualche passo lungo la stanza prima di tornare a fermarsi di fronte a Aegis. La sua espressione era colma di sdegno.

"Voi siete stato fin troppo cortese nel parlare di Lomion. Dov'era lui quando Harmaros è caduta? Dove, quando Valkano è caduta? E, soprattutto, dov'era quando i principi di Arthalion hanno respinto i Nani? Lui è fuggito di fronte alla battaglia! Adesso torna a pretendere una corona che non ha nemmeno tentato di difendere, e voi dite che la sua pretesa è valida?"

Aegis si alzò a sua volta, fece un passo verso la regina e, con fare confidente, poggiò la mano su quelle che lei teneva nervosamente intrecciate davanti a sé.

"Ad Hakala c'ero anch'io, signora", disse, pacato ma fermo. "Agli occhi degli Eldar, però, è stato Galanár a decretare la caduta di Valkano".

"Perché non aveva altra scelta!"

"Questo lo sappiamo voi e io, Adwen. E, a ogni modo, alla morte di Anarion, era Lomion l'erede del regno".

"Sciocchezze! Re Arantar aveva scelto Edheldûr come suo successore".

"E voi avete idea di quanto il principe Edheldûr sia venerato a Laurëgil? Soprattutto dopo che Galanár ha imposto di cancellarne la memoria".

"Ahimè", sospirò lei.

Chinò il capo e non aggiunse altro. Di fronte alle spiegazioni di Aegis, la sua ragione stava iniziando a deporre le armi.

"Una scelta impulsiva e senza dubbio incauta da parte del nostro re", proseguì l'incantatore. "Ma ammetterlo adesso non cambia la sostanza delle cose. È nel diritto di Lomion avanzare questa pretesa, e gli Eldar lo stanno supportando".

"Non tutti", ribatté lei. "Gli Alti Maestri di Valkano sono fedeli a mio marito. Qualunque cosa accada, proteggeranno la fortezza e combatteranno al nostro fianco".

La tavola di pietra al centro della stanza era rotonda. Ilo la studiò con curiosità.

Una scelta interessante e, tutto sommato, molto pratica.

Se fosse stato il maestro di cerimonie chiamato a predisporre la sala per quella riunione, si sarebbe di certo trovato parecchio in imbarazzo, con tutte quelle teste coronate.

Quando, all'ora stabilita, i convenuti fecero il loro ingresso, le parti si distribuirono infatti con una semplicità disarmante. Silanna prese posto e Aidan sedette alla sua destra. Galanár occupò la sedia di fronte a lei e ai suoi lati si accomodarono Fanelia e Mellodîn. Ilo si sistemò per ultimo, nello scranno rimasto libero alla sinistra della regina di Silmëran.

Se questa fosse una partita tra due opposte fazioni, saremmo già in vantaggio.

Era evidente che, dal loro ultimo incontro, Galanár non aveva scambiato nemmeno una parola con i suoi due compagni.

Silanna prese subito la parola, forse per impedire a lui di farlo. Si sistemò con il busto eretto sulla sedia e strinse una mano nell'altra con un gesto delicato.

"Miei signori, prima di discutere del motivo per il quale re Aidanhîn ci ha voluti qui, permettetemi di proporvi un gioco".

Galanár sollevò il sopracciglio ed esibì una smorfia divertita, ma Silanna non si fece distrarre.

"La pratica della magia ci insegna una regola tanto semplice quanto essenziale: la mente di un incantatore deve essere sgombra da ogni turbamento per esercitare il potere. Un cerchio magico sarà debole e facile da spezzare se anche solo uno dei maghi al suo interno è in preda alla proprie passioni".

"Di cosa stiamo parlando?", la interruppe Galanár annoiato. "Non siamo incantatori".

"No, ma la situazione non è dissimile. Siamo qui per unire le nostre forze, ma il nostro cerchio magico, passatemi il paragone, è fin troppo fragile".

"Quindi?"

"Propongo di parlare con schiettezza e, nel segreto di questa stanza, di chiarire tutti i punti rimasti in sospeso tra di noi. Chiamatelo gioco della verità, se volete".

Il generale parve soppesare per qualche istante quella proposta, quindi sorrise beffardo.

"Mi sembra un'ottima idea", rispose.

Si voltò a guardare Mellodîn e la linea delle sue labbra si contrasse in una smorfia dura.

"Perché non cominciamo con il comandante?"

Quello incrociò le braccia sul petto, inclinò il capo verso di lui e gli lanciò un'occhiata eloquente che forse non scalfì Galanár, ma di certo colpì Silanna.

"Mi rincresce", disse lei piano. "Credevo che ne fossi al corrente".

"È normale che tu lo credessi: un vero amico mi avrebbe informato".

"Non eri nello stato d'animo adatto", mormorò il comandante.

"Quindi hai preferito farmi credere che fosse stato Edhel a fuggire, grazie alla sua magia?"

"Sei stato tu a volerlo credere!"

Galanár si zittì, sorpreso da quella considerazione, e Mellodîn si lasciò sfuggire una risata bassa e amara.

"Erano i miei uomini, quelli. Li avevo addestrati di persona. Edhel avrebbe dovuto incenerirli tutti per uscire dal castello con le sue sole forze".

Lo sguardo del re si fece di brace nell'attimo in cui realizzò quel dettaglio.

"Eppure sapevi che ero pronto a tagliare la testa a tutti. Come ha fatto quel traditore a..."

"Non chiamarlo così!", sbottò Aidan.

La sua voce risuonò così feroce che Galanár proseguì senza nemmeno redarguirlo per l'interruzione.

"Come ha fatto a convincerti?", si corresse.

"Non mi ha convinto lui, mi hai convinto tu!", esclamò Mellodîn con veemenza. "Qualunque fosse la loro colpa, Edhel non meritava la morte, Silanna non meritava l'umiliazione che le volevi riservare, e tu... Maledizione, tu non meritavi di svegliarti con le mani macchiate del sangue di tuo fratello. Presto o tardi, saresti impazzito al pensiero di ciò che la tua ira ti aveva portato a fare!"

Galanár lo guardò senza riuscire a trovare una risposta.

"Non è per niente facile continuare a vivere con quel sangue sulle mani", commentò Aidan con tristezza.

Quindi si drizzò sulla schiena, appoggiò le braccia sul tavolo e intrecciò le dita.

"Tocca a me, adesso".

Galanár lanciò a Mellodîn un'occhiata dove rabbia e dolore sembrarono mescolarsi al rimpianto per tutto ciò che non si erano mai detti, poi si obbligò a spostare la propria attenzione sul fratello.

"Non sono la persona adatta per spiegare ogni dettaglio", iniziò Aidan. "Ciò che è certo è che Vargas Quenthar ha tramato per anni, mentre era al servizio della Corona di Arthalion, e ha usato su di me e sul mio gemello le arti magiche più oscure".

"A quale scopo?", si informò Galanár.

"Edhel era l'arma di cui intendeva servirsi contro di te. Ad Hakala, doveva guidare gli Eldar in battaglia e, al momento opportuno, sferrare il suo attacco per finire il nostro esercito. Quando io fossi andato a cercarlo con l'intento di ucciderlo, lui avrebbe ucciso me. A quel punto Vargas avrebbe avuto tra le mani lo strumento perfetto, la spada con cui avrebbe conquistato il mondo".

Un'ombra scura scese nella sala mentre Aidan si fermava a riprendere fiato.

"Edhel ha avuto la colpa di comprendere troppo tardi questo disegno, ma ha cercato di porvi rimedio a suo modo", proseguì l'arciere. "Ha finto con Vargas fino all'ultimo e ad Hakala ci ha regalato la vittoria".

Un velo di malinconia coprì il volto di Silanna.

"A costo della sua stessa vita", aggiunse in un soffio.

"Per questo l'odio e la vendetta di Vargas sono implacabili", concluse Aidan. "E anche i miei".

Galanár prese un profondo respiro. Nella sua mente, tutti i pezzi cominciavano a combaciare con naturalezza.

"Vargas si è già vendicato su tuo fratello", osservò. "Ma tu? Perché tu?"

Silanna e Aidan si scambiarono un lungo sguardo. Il ragazzo esitò, poi sembrò arrendersi e, con un cenno del capo, le lasciò la libertà di parlare.

"Aidan è un Daimonmaster", dichiarò lei senza troppi giri di parole. "Per essere precisi, è il Supremo Daimonmaster. Per questo Vargas lo vuole a tutti i costi".

Un brusio di incredulità attraversò il tavolo, ma solo Fanelia ebbe il coraggio di esprimere ad alta voce i dubbi di tutti.

"E questo è possibile? Per quel che ci hanno insegnato, solo gli Eldar possono essere Daimonmaster".

"In effetti no, non sarebbe possibile. Ma Vargas ha operato un incantesimo sui due principi, che Edheldûr ha portato a compimento alla sua morte, e adesso Aidanhîn reca in sé tutti i Quattro Arcani".

Silanna si soffermò a guardare Mellodîn e gli rivolse un lieve sorriso.

"Così, comandante, non è strano quanto accaduto a Gordian. Aidanhîn mi ha raccontato la vostra disavventura e sono certa, conoscendovi, che abbiate passato molte notti insonni cercando di raccapezzarvi. Ma non siete stato ingannato".

Lui le ricambiò il sorriso per ringraziarla.

"Gordian", proseguì lei, "ha pagato con l'oro la libertà dal dominio di sangue di Vargas. Il loro terrore, però, è grande. Hanno visto il giogo imposto alle città minori e lo temono. Per questo è stato emanato un editto che vieta l'ingresso di ogni Daimonmaster in città, pena la morte".

L'espressione di Mellodîn, a quel punto, si fece seria.

"Quindi il re di Helegdir va protetto da Vargas", osservò.

"Protetto a ogni costo", ribadì lei.

Aidan, allora, scostò il lembo del mantello che gli copriva il petto e scoprì il ciondolo che portava al collo.

"Non so cosa potrebbe farne di me, ma di certo vuole questo".

Galanár osservò le gemme senza troppo interesse.

"Non possiamo distruggerlo?", chiese.

"È un incantesimo del sangue che Edhel ha stretto con i sacri Daimon", spiegò Silanna. "Non sappiamo quali potrebbero essere le conseguenze, se lo distruggiamo".

Lanciò al generale uno sguardo più esplicito, sfidando il suo proverbiale scetticismo in materia di divinità e magia.

"Non sappiamo se, distruggendolo, causeremmo la morte di Aidan", chiarì.

Galanár si strinse nelle spalle e decise di non opporsi a quella spiegazione. Si limitò a lanciare una frecciatina al fratello.

"Tutte quelle ore passate a chiacchierare, e mai una volta che Edheldûr abbia pensato di darti qualche informazione utile?"

"Lui agiva secondo le sue ragioni", commentò Aidan, piccato.

"Ovvero quasi sempre in maniera maldestra e sconsiderata".

"Quasi sempre", puntualizzò Silanna.

A quel punto gli occhi di Galanár si posarono su di lei con nuovo e diverso interesse.

"E tu? Non hai nulla da confessare?", chiese con voce tagliente.

Lei lo fissò a lungo. Chi sa, se fossero stati soli, quali parole avrebbero usato l'uno per l'altra. Se lo chiesero entrambi, mentre si guardavano in silenzio. Poi la regina prese un profondo respiro.

"Vuoi che dica che mi dispiace? Che lo dica davanti a tutti?"

Lui rimase impassibile, rendendo ovvia la risposta che non aveva pronunciato.

"Mi dispiace", asserì lei. "Qualunque cosa tu possa pensare, non c'è stata cattiveria. Incoscienza forse. O timore. Ma mai cattiveria".

Attese per qualche istante una reazione che non arrivò.

"Ti è sufficiente?"

Lui continuò a guardarla con freddezza, come se le sue parole non l'avessero sfiorato. Si limitò a intrecciare le dita di fronte a sé e quello fu l'unico gesto che tradì il suo nervosismo.

Se avesse intenzione di replicare, e cosa, Silanna non lo seppe mai.

Uno dei suoi Maestri fece irruzione nella stanza. Si scusò in fretta in una lingua che nessuno comprese, poi si accostò alla regina e le parlò piano all'orecchio.

L'espressione sul volto di Silanna mutò e la luce attorno a lei si fece più opaca.

"Mi rincresce, ma devo lasciarvi".

Si levò di scatto e gli uomini, a parte il generale, si alzarono in piedi. Lei non perse tempo a registrare l'ennesima mancanza di rispetto di Galanár e si girò a cercare Aidan.

"Vieni con me".

Lui obbedì senza esitare.

Galanár li seguì con lo sguardo fino a quando sparirono dalla sua vista, quindi si allentò contro lo schienale della sedia e cominciò a giocare con il nastro che usava per annodare i capelli.

Era l'unico, a quel punto, che poteva congedare i presenti, ma non sembrava averne voglia. Lasciare attendere chi si aspettava qualcosa da lui era uno dei suoi passatempi preferiti. Con Fanelia, in particolare, aveva fatto quel gioco fin dall'inizio. Sollevò gli occhi su di lei e le rivolse un sorriso affilato.

"Tu, invece? Hai qualcosa da dire?"

Fanelia lo soppesò con indifferenza, quindi si rivolse agli altri due presenti.

"Comandante Mellodîn, mastro Ilo, sareste così gentili da accompagnarmi? Vorrei riposare dopo tutte le emozioni regalateci da questo tuffo nel passato".

Si sollevò dalla sedia e passò accanto al marito. Gli sfiorò il fianco, quindi si chinò per avvicinarsi al suo orecchio.

"Se ho qualcosa da dire?", insinuò con voce soffice. "Che mi sono sbagliata nel giudicarvi e che ho preso con troppa leggerezza la decisione di passare la vita accanto a voi. E se, a Opanje, ho avuto qualche dubbio su che tipo d'uomo siete, adesso ne ho la certezza".

NOTA DELL'AUTORE

Absit reverentia vero = Bando ai pudori di fronte alla verità (Ovidio, Heroides, V)

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