25. FUROR ARMA MINISTRAT

Le fiamme si disegnavano sulla superficie dei suoi occhi. Ogni traccia d'azzurro era scomparsa, inghiottita dal bagliore. Le scintille si levavano in alto e si mescolavano con le stelle, il fumo basso cancellava i confini tra terra e cielo, le lingue di fuoco sembravano librarsi nell'etere come se non avessero né inizio né fine.

Galanár era dritto sul suo cavallo. L'Idra d'argento della sua armatura, che si attorcigliava attorno al torace e sfoggiava le fauci aperte sullo spallaccio sinistro, riluceva di un pallido colore cremisi.

Il re sembrava incurante dell'aria irrespirabile che lo circondava e del calore intenso che gli accarezzava la faccia. Il suo sguardo era fisso sul palazzo di Opanje, che ardeva come un immenso gigante di paglia.

Il cupo rumore delle architravi di legno che si spezzavano e si schiantavano al suolo, il tonfo sordo della pietra che rovinava su se stessa, lo scatto delle lame dei suoi cavalieri che giustiziavano gli uomini legati sulla piazza si intrecciavano come strumenti a corda che eseguivano un canone infinito e straziante. Quella melodia bassa e continua accompagnava le sue turbolente emozioni.

Non si era mai sentito tanto furente, e non si era mai sentito tanto potente al pensiero di come un semplice ordine potesse riscrivere la realtà. Un solo ordine uscito dalla sua bocca. Nella sua mente, gli echi del passato si rincorrevano e si sovrapponevano ai rumori del presente.

Le mie parole...

Le sue parole erano state frecce scagliate verso il cielo mentre lei lo guardava come se la sua vita, la sua stessa capacità di continuare a respirare dipendessero da lui.

"Io insegnerò loro come si vince, e con quali arti si scrive la storia dei popoli. E sarò re, Silanna, perché così è scritto nelle stelle. Perché è per questo che sono nato".

Le sue parole erano state sassi scagliati sul campo insanguinato di Hakala mentre inveiva contro suo fratello.

"Nessuna clemenza, Aidanhîn. Venga pure l'ira degli dei, io non sono venuto fino a qui per essere misericordioso!"

Le sue parole erano infine diventate assoluto mentre fissava Mellodîn senza che nessuno dei due riuscisse a respirare.

"Radete al suolo questa città".

Ed era solo l'inizio.

Avrebbe trovato l'Autocrate, o qualunque fosse il suo nome. Lo avrebbe stanato, lo avrebbe distrutto. Era arrivato il suo tempo, il tempo per una nuova guerra. E mentre Opanje si dissolveva nel fuoco, che rendeva i suoi occhi così simili a quelli di Edhel quando la furia magica prendeva il sopravvento, Galanár inanellava ossessivi e silenziosi giuramenti di sangue.

Mellodîn, al suo fianco, lo scrutava con discrezione e non riusciva a evitare che il suo cuore lacrimasse.

Come poteva guardare Galanár in quel momento e non piangerlo?

La distruzione di Opanje di propria mano non era un gesto saggio e non voleva esserlo. Il suo amico se ne sarebbe pentito in un paio di giorni, appena si fosse risvegliato dal sonno della sua ira e avesse realizzato ciò che aveva appena fatto. Ma lui, che era lì vigile e lucido, come poteva non piangerlo?

Il re aveva appena oltrepassato un nuovo confine, ma era probabile che non avesse nemmeno visto la linea che aveva cancellato. Perché quando si supera il primo limite, e Galanár lo aveva fatto ormai molti anni addietro, diventa sempre più difficile scorgere i successivi. E, assieme ai confini, si perde anche la percezione dei pericoli.

Se gli Dei stavano ascoltando le grida di Opanje in quella notte, Galanár avrebbe pagato caro quel massacro, e loro con lui. Se gli Dei non esistevano, come sosteneva il generale, avrebbero comunque dovuto affrontare la propria coscienza, presto o tardi.

"L'amore, non il furore, dovrebbe procurare le armi", mormorò tra sé.

Il generale non lo udì e Mellodîn si preparò ad affrontare la notte più lunga della sua vita, cosciente che il peggio doveva ancora venire.

"Aidan dov'è? Perché non è qui con il resto delle truppe?"

Presto o tardi, a quella domanda sarebbero dovuti arrivare, in effetti. Mellodîn fissò le acque scure di Tasiar che si agitavano alle spalle di Galanár. Erano lo scenario perfetto per rappresentare l'irrequietezza che il re celava alla perfezione sotto la maschera di impenetrabile calma.

Erano in piedi sulla terrazza che, tempo addietro, aveva ascoltato le maledizioni del comandante. Era notte anche in quel momento, ed era un bene che non si potessero vedere in viso, come sarebbe accaduto alla cruda luce del giorno. Era la prima volta che si ritrovavano a parlare da soli dopo che avevano lasciato Opanje, o ciò che ne restava, e c'era una tensione tra loro che di rado avevano affrontato prima di allora.

"Abbiamo avuto un incidente imprevisto a Gordian e abbiamo perso Aidan", mormorò Mellodîn, in un unico soffio di fiato.

"Abbiamo perso Aidan? Che significa Abbiamo perso Aidan?"

Galanár contrasse le dita in un pugno e le nocche gli sbiancarono nella stretta.

"Puoi perdere un bottone o la fibbia del tuo mantello, ma come si perde il re di Helegdir?"

Disse proprio in quel modo: il re di Helegdir. Non Aidan, né mio fratello. Quella scelta di termini, unita al tono fastidioso che aveva usato, rischiarono di far perdere la pazienza al comandante.

Mellodîn trasse un profondo respiro, ricacciò indietro tutte le frasi che lo avrebbero condotto senza dubbio a litigare con Galanár e si concentrò sul racconto del loro arrivo a Gordian. Narrò dello strano evento accaduto, di come l'iniziale accoglienza si era di colpo trasformata, del sacerdote che aveva urlato contro Aidan, dell'arresto e della sua presunta fuga.

"Daimonmaster?", fu l'unica osservazione di Galanár mentre sollevava il sopracciglio perplesso, come se il resto della faccenda lo avesse lasciato indifferente. "Deve essersi trattato di una scusa".

"Sì, l'ho pensato anche io, ma il governatore sembrava davvero interessato a fare affari con te. Mi è parso un uomo abile e deciso a tenersi stretta la libertà della sua città. Anche se avesse avuto le sue buone ragioni, non gli occorreva scomodare gli Dei e organizzare una scena simile, se aveva intenzione di mettere le mani su Aidan. E poi... andiamo, è di Aidan che stiamo parlando! Ha trascorso gli ultimi due anni chiuso a Valkano. A chi mai può aver dato fastidio?"

"No", concordò il re, serissimo. "Ci dev'essere dell'altro".

Appena elaborò quel pensiero, si domandò se non fosse il caso di ricercare nella propria persona la causa di quel comportamento. Aidan di sicuro non aveva mai dato fastidio a nessuno, ma poteva dirsi lo stesso di lui?

Il pensiero delle proprie possibili responsabilità lo condusse a un altro punto che gli stava altrettanto a cuore.

"Sei andato da Fanelia?"

Mellodîn assentì.

"Che ti ha detto?"

"Che non vuole nessuna scorta. Che lei è la regina e decide da sé. Per farla breve, è stato come parlare con te se tu fossi stato una femmina".

Galanár non rise di quella battuta. Si serrò le dita di una mano con l'altra e rivolse lo sguardo al mare, come se stesse cercando di afferrare una risposta che gli sfuggiva.

"Non ha importanza. Sarai tu la sua scorta. Non la perderai di vista nemmeno per un istante".

Mellodîn rimase a fissarlo in silenzio per qualche minuto. C'era qualcosa di diverso in Galanár, qualcosa che non aveva avuto ancora modo di comprendere fino in fondo, ma che non poteva continuare a ignorare per molto. Fu quella sensazione che lo spinse a seguire l'istinto e a parlare senza remore.

"Senti, so benissimo che tutto ciò che riguarda Aidan è una mia responsabilità. Se gli è accaduto qualcosa, ne risponderò anche con la vita, se necessario. Ma Fanelia è una tua responsabilità. Opanje è stata una tua scelta".

La calma apparente di Galanár scivolò via come un velo.

"Lo so, dannazione! Non occorre che tu venga qua a ricordarmi che è stato un errore!", esclamò fuori di sé.

Il capitano oppose una calma imperturbabile alla sua esplosione di rabbia. Era quasi incredibile, aver ottenuto quella reazione da lui, e Mellodîn pensò che non avrebbe avuto una seconda occasione per un confronto tanto onesto. Doveva approfittare di quella crepa inaspettata.

"Stai davvero ammettendo di aver sbagliato?", chiese quasi con candore.

Il re si ricompose con una smorfia di disappunto, come se solo in quel momento si fosse accorto di essere contravvenuto alle proprie abitudini.

"No. Sto solo dicendo che potresti avere ragione", borbottò.

Rimase ancora appoggiato alla balconata, a scrutare l'oscurità dell'onda senza aggiungere nulla. Mellodîn pensò che non avesse più voglia di parlare, che volesse restare solo, e scosse il capo. Era sfumata, una volta ancora, la possibilità di discutere davvero di ciò che stava accadendo. Stava per abbandonarsi alla frustrazione, quando la voce di Galanár lo sorprese.

"Da quando hai smesso di avere fiducia in me?"

Il comandante sobbalzò. Non si aspettava una simile domanda. Il re non metteva mai in dubbio nulla. Si sentì in imbarazzo di fronte alla necessità di dover ammettere la verità. Se lo avesse fatto, se avesse confessato, dove li avrebbe condotti quel discorso? Se fino a un attimo prima aveva desiderato quel confronto, di colpo si trovò a vacillare di fronte alla mole di imprevedibili conseguenze che avrebbe potuto generare una risposta sincera.

"Oh, andiamo!", provò a scherzare. "Non ho mai smesso davvero!"

"Da quando?", lo interruppe l'altro con violenza.

Il tono di quella domanda si era tramutato in ordine secco. La sola idea che Galanár avesse trasformato una discussione in un interrogatorio fece fremere Mellodîn di rabbia. Se a quel sentimento, poi, aggiungeva le traversie, le difficoltà affrontate e le scelte fatte nel corso di quel viaggio, la solida corazza della sua calma non avrebbe resistito oltre.

"Be', forse da quando ho dovuto fare tanta strada per venirti a prendere solo per scoprire che avevi fatto di testa tua?", replicò con il medesimo tono alterato. "Forse da quando ho capito che, per la prima volta da che ti conosco, hai deciso di affidarti al caso e alla fortuna per conquistare una terra di cui non sai niente? O forse da quando, nonostante i giuramenti che mi hai fatto, non sei riuscito a non creare dissapori con una donna che fa parte del tuo esercito?"

Galanár abbandonò la sua posizione e si girò a fissarlo sbigottito. Mellodîn era sempre stato sincero con lui, ma non si era mai spinto fino a quel punto. Non gli aveva mai esposto il suo dissenso con tanta veemenza. Si rese conto che il suo comportamento non lo aveva urtato, né irritato. Gli aveva fatto piacere. Gli aveva ricordato quello che erano. Quello che erano sempre stati.

Appoggiò la schiena contro il marmo della terrazza, chinò le ciglia con fare più rilassato e abbozzò un sorriso. Il comandante lo interpretò come un segnale di tregua e sorrise di rimando.

"È sorprendente, non trovi?", continuò con tono più lieve. "La tua assurda capacità di invaghirti solo di donne che riescono a crearti problemi!"

Il re ridacchiò a quella frase.

"Per non parlare del fatto che sembro morbosamente attratto solo da donne che, in un modo o nell'altro, mi si rifiutano!"

Mellodîn scosse il capo. Gli si fece da presso e si sistemò al suo fianco, con lo sguardo rivolto al mare.

"Da che parte stiamo andando, Galanár?", chiese piano. "Neppure gli Dei osano sfidare il caso".

Tacque un istante di fronte al basso mormorio delle onde e della notte.

"Dimmi che lo sai, che c'è una meta, e io ti risponderò che mi fido, mi fido ancora di te".

"Se rispondessi che sono qui per cercarla? Perché dopo tutto questo tempo non l'ho ancora trovata, la mia meta? Che mi risponderesti?"

Il comandante sospirò.

"Ti risponderei di fare in fretta. I cambiamenti sono necessari alla sopravvivenza".

"Ma i cambiamenti fanno sempre paura", replicò Galanár a mezza voce.

Mellodîn esitò di fronte a quella contorta confessione. Doveva pur ammettere a se stesso che era molto più facile stare accanto a Galanár quando era deciso e dispotico. Se talvolta esaudire le sue richieste era gravoso, era comunque comodo star dietro a qualcuno che, nel bene o nel male, si sarebbe fatto carico di ogni colpa. Era molto più difficile mettersi al timone di una barca che stava perdendo la rotta. Se non lo avesse fatto, però, che razza di persona sarebbe stata?

Non è mai tardi per fare la scelta giusta. Non è mai tardi per essere un buon amico.

Poggiò una mano sulla spalla del re con fare rassicurante.

"Vai da Fanelia, vacci in fretta", mormorò. "Quella ragazza ha sgozzato Almar con un coltello. Non è di una scorta che ha bisogno, mi pare chiaro. Ha bisogno di te".

"Ha bisogno di te".

E se fosse stato proprio quello il problema? Che lui non voleva essere il suo appoggio? Che aveva timore di esserlo davvero?

Aprì la porta della stanza con delicatezza e si fermò sulla soglia, a fissare Fanelia intenta a vergare rapidi appunti su un foglio. Era seduta al suo scrittoio, dove aveva disposto tutto ciò che le occorreva. Per un attimo la rivide seduta nel grande tavolo della reggia, quando le aveva chiesto di sposarlo.

"Qualsiasi cosa accada, mi sforzerò di essere gentile con voi e non vi farò mancare nulla".

Era quella la promessa che le aveva fatto, ma aveva mai pensato a come l'avrebbe mantenuta?

Fanelia sollevò il capo e lasciò cadere lo stilo. Lo sguardo fosco che gli indirizzò cancellò il ricordo dei suoi occhi sorpresi nella dolce sera di Formenos. Galanár entrò, si chiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò contro.

"Come ti senti?"

Lei lo squadrò come se quel banale tentativo di intavolare una discussione non le stesse procurando altro che fastidio.

"Bene, grazie", rispose laconica, e tornò a tracciare segni.

Nessuno gli aveva mai detto che era facile trattare con una donna di cattivo umore, ma era pur vero che lui aveva sempre evitato come la peste le discussioni. Con Silanna, almeno, aveva agito così. Aveva sempre preferito dedicarsi ad altri passatempi in attesa che lei tornasse a sorridergli. Le uniche volte che non aveva rispettato quella regola, erano stati a un passo dal tagliarsi la gola a vicenda, quindi aveva imparato bene a giocare la sua parte. La sua raffinata abilità di eclissarsi al momento giusto, però, non gli stava fornendo nessun aiuto in quella situazione. Mentre il silenzio tra loro si faceva sempre più imbarazzante, Galanár decise che l'unica cosa di cui era capace era andare dritto al punto.

"Ti è stato fatto del male?"

Lei sollevò le ciglia e lo guardò con ancor più disappunto.

"A parte essere lasciata senza cibo né acqua, tollerare le viscide attenzioni di quell'uomo ed essere interrogata giorno e notte sul numero dei tuoi soldati, intendi?", rispose senza alcuna grazia. "No, a parte questo no".

Galanár non sapeva se sentirsi sollevato da quella notizia o preoccupato dal tono con cui l'aveva pronunciata. Non sapeva se mostrarsi felice o triste. Nel dubbio, non fece nulla. Fanelia soppesò la sua immobilità e di certo gli attribuì un proprio insondabile valore, dal momento che appoggiò la penna al calamaio e lo fissò decisa.

"Adesso che hai appurato che le tue proprietà sono ancora intatte, puoi anche andare", scandì con durezza.

Il re socchiuse le palpebre e non si mosse. Dietro la schiena strinse il pomello della porta fin quasi a farsi male, ma il suo volto rimase inalterato. Quella risposta gli aveva procurato una ferita che non si era aspettato.

Il Galanár di un tempo, si disse, sarebbe andato su tutte le furie e avrebbe preteso il rispetto che gli era dovuto.

Ma il Galanár di un tempo non aveva tremato davanti all'immagine di Fanelia coperta di sangue.

Il Galanár di un tempo non era mai andato in pezzi pensandola morta.

"Ero venuto per te", sussurrò. "Pensavo che avessi bisogno di me".

"Bisogno di te? E in che modo, per l'esattezza? Non mi occorre la tua comprensione, né la tua pietà. Non puoi darmi quello di cui ho bisogno, perché non lo possiedi".

Prese una pausa calcolata per lanciargli un'occhiata feroce e allusiva.

"E non lo puoi conquistare".

Lui la guardò senza alcuna voglia di controbattere. Non c'era davvero nessuna crepa in lei. Nessuna breccia. Non gli stava lasciando scampo.

"Hai ragione. Non c'è nulla che io possa darti".

Si staccò dalla porta e nello stesso istante si staccò da lei.

"Buona notte".

Lei attese che scivolasse fuori dalla stanza, che richiudesse l'uscio, che i suoi passi si allontanassero.

"Buona notte", sussurrò nel silenzio della stanza.

NOTA DELL'AUTORE

Il titolo è una variazione della citazione usata nel capitolo 1 a proposito di Aidan (L'amore procura le armi). Nel caso di Galanár, invece, è il furore che fornisce le armi.

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