24. REGINA IN SANGUINE

La barba incolta di qualche giorno, gli abiti scuri e rovinati, l'aspetto trasandato e una quantità di armi più o meno in vista che non aveva nulla da invidiare a quelle che Aidan era solito sfoggiare sul campo di battaglia.

Mellodîn aveva avuto ragione, o solo molta fortuna. In un caso o nell'altro, il suo piano di entrare a Opanje era riuscito.

Esisteva un piccolo ingresso secondario da terra che permetteva solo il transito a piedi. Era strettamente sorvegliato, come previsto, ma nessuno aveva nutrito particolari sospetti verso quei mercenari arrivati in città in cerca di un ingaggio. Erano solo due uomini come tanti. La parte davvero difficile era trovare Galanár e, ancor più, riuscire a parlargli.

Il comandante aveva guardato solo di sfuggita l'ombra della grande ammiraglia ancorata nel porto. Non voleva sembrare troppo interessato alla sua presenza. Le aveva dato subito le spalle e si era infilato nella taverna più vicina assieme al suo compagno. Trascorsero lì parecchie ore ad attendere che fosse buio e, tra un boccale e l'altro, riuscirono a ottenere qualche brandello di informazione, annegato tra il vino e le vanterie.

"Penso che adesso tocchi a te", suggerì Mellodîn all'orecchio di Bellator, mentre un marinaio alticcio intratteneva la tavolata con i rumorosi racconti delle sue avventure.

Il capitano si limitò ad annuire.

"Io resto qui", proseguì il comandante. "Daremo meno nell'occhio se continuo a bere e a chiacchierare con questi pirati ubriaconi. Tu abborda qualcuna delle ragazze della taverna e allontanati con lei. Nessuno si chiederà che fine hai fatto".

Una volta ancora Bellator rispose con un cenno del capo. Mellodîn gli batté una mano sulla spalla.

"Fai attenzione", si raccomandò a mezza voce.

L'acqua era scura e densa come l'inchiostro, e sapeva di morte.

Bellator si sforzò di ignorare l'odore pungente e la superficie plumbea sotto di lui. Si abbarbicò alla gomena che tratteneva lo scafo sulla banchina e, graffiandosi le mani, cominciò a risalire il ruvido canapo. Cercava di fare aderire il suo corpo scuro alla corda, mentre scrutava il porto nel timore di cogliere la presenza di qualcuno. Era essenziale arrivare a bordo senza che nessuno lo notasse e desse l'allarme.

La salita sembrava interminabile e la cautela ne amplificava la lunghezza. Bellator benedisse gli Dei quando la sua mano toccò il legno della murata. Sbirciò il ponte della nave. Sembrava deserto. Si lasciò scivolare all'interno e si spinse verso un rotolo di cordami, per studiare meglio la situazione. Appena si acquattò dietro quel riparo, urtò qualcosa di morbido e caldo, che subito prese ad agitarsi.

L'uomo, con i sensi in allerta, afferrò il corpo che provava a divincolarsi nella stretta vigorosa delle sue braccia e gli sigillò la bocca con una mano. Quando riuscì ad ottenere che lo sconosciuto si placasse, gli girò il viso per studiarlo nell'ombra. Nei tratti mingherlini e imberbi riconobbe il mozzo.

"Ssssst...", sussurrò. "Sono il capitano Bellator".

Il ragazzino annuì con vigore, per fargli intendere che lo aveva riconosciuto.

"Vai ad avvertire il capitano. Digli di salire qui, con una scusa o con un'altra".

Il capitano della nave ammiraglia di Aermegil era un uomo scaltro e pratico. Bellator aveva fatto affidamento su quelle sue doti fin dal principio. Era riuscito a farlo scendere sottocoperta senza che nessuno li vedesse. Non prima, però, di avergli fornito ogni indicazione. C'erano sempre quattro uomini che controllavano Galanár durante il giorno, che di notte si alternavano in turni di guardia due alla volta.

Il capitano Almar sembrava non avere gran timore di perdere il suo reale prigioniero. Sapeva che, chiusi com'erano dentro quella fortezza circondata dalle acque, non sarebbero potuti andare lontano. Aveva anche fatto rastrellare tutte le navi. I suoi uomini avevano portato via qualsiasi arma, comprese le fiocine e gli ami per la pesca, e anche cibo e acqua, che gli venivano razionati ogni giorno.

Dopo aver soppesato quelle notizie, Bellator diede al capitano un pugnale e una spada che aveva legati al suo corpo e insieme si liberarono dei due pirati che stavano dormendo. Quindi si occuparono dei due che sorvegliavano Galanár. Li sorpresero alle spalle e li sgozzarono prima che potessero fare un fiato.

La lama tintinnò contro il metallo del piatto. Almar si portò alla bocca l'ultimo brandello di carne, quindi abbandonò sul tavolaccio il coltello con cui l'aveva tranciata.

Sollevò le ciglia scure su Fanelia, che gli sedeva di fronte come ogni sera.

"Avresti dovuto studiare meglio l'educazione, altezza. La tua conversazione langue", osservò accigliato.

"Non ho nulla da dire a uno come te", biascicò la ragazza.

I suoi occhi erano cerchiati e il suo pallore la rendeva diafana. I capelli intrecciati in maniera approssimativa e i vestiti strappati la facevano somigliare a un giocattolo rovinato. Nemmeno il suo carceriere, però, aveva un aspetto migliore. Sembrava anche lui stremato, logorato dalla tensione e dal continuo sforzo di doverla piegare. Nonostante le minacce e le privazioni che le aveva inflitto, Fanelia continuava a opporgli il suo silenzio.

Almar si levò in piedi e fece tremolare le stoviglie che imbandivano la tavola della sua cena.

"Per tutti i Daimon, Fanelia! Perché continui a dimostrargli tutta questa devozione? Hai idea di che razza di uomo sia tuo marito?"

Lei lo fissò come se non lo avesse compreso. Il suo sguardo lo seguì paziente mentre lui girava attorno al tavolo e le si fermava davanti.

"Mio marito è il re delle Terre Riunite e il mio generale. Che altro dovrei sapere di lui?"

Un sorriso ironico increspò il viso di Almar. Sarebbe stato un bel viso se il segno che Fanelia vi aveva impresso sopra non lo avesse reso inquietante.

"Se tu fossi stata solo una stupida principessina viziata, forse mi sarei potuto accontentare di questa risposta".

Si posizionò davanti al tavolo e vi si puntellò con entrambe le mani. Abbassò il capo e lo scosse con lentezza, senza smettere di sogghignare.

"Ma, per tua sfortuna, non lo sei. Non sei così sciocca da non capire".

I suoi occhi guizzarono sotto l'ombra dei capelli scuri e si piantarono sulla ragazza.

"Io e lui siamo della stessa pasta, pirati e gentaglia tutti e due! Galanár ha avuto solo la fortuna di nascere nella culla giusta. La culla che gli dà diritto di dominare il mondo, di depredarlo in maniera legale".

Si staccò dal tavolo, si avvicinò a lei, le passò un dito sulla guancia che aveva perso colore.

"Sarebbe così semplice, Fanelia, parlare e darmi ciò che voglio... la libertà ti costerebbe appena qualche cifra".

Con lentezza, la regina si sollevò per fronteggiarlo con una espressione altera. Sebbene fosse più bassa di lui e il suo aspetto non avesse nulla di regale in quelle circostanze, in quel gesto lei non sembrò essergli affatto da meno.

"Ora capisco", mormorò con asprezza. "Tu lo odi perché sai che non potrai mai essere al suo livello. E no, non è questione di nascita, Almar. Nemmeno tra mille anni potresti essere come Galanár!"

Lui le restò a pochi centimetri dal viso, a sfidare il suo sguardo, la risata sardonica che mostrava i suoi denti bianchi.

"Ah, ma ora anche io capisco. Tu lo ami. Lo ami davvero. Altrimenti non si spiegherebbe perché sei disposta a tutto pur di non tradirlo".

Le dita di Almar, all'inizio gentili sulla sua guancia, scivolarono sul collo e mutarono in artigli. Le serrò i capelli dietro la nuca, mentre i suoi occhi si facevano opachi e perdevano ogni traccia di ironia.

"Bene, questo dettaglio non potrà che rendere ancora più piacevole la vendetta".

La strinse, la forzò a un bacio violento e, con la mano libera, scese a strapparle la camicia chiara che le copriva il petto. Fanelia gli morse le labbra e approfittò del suo dolore per sfuggire alla stretta. Cercò un angolo in cui rifugiarsi, ma non c'era un posto dove fuggire in quella stanza, già occupata da un letto e dalla tavola. Si allontanò da lui e si guardò attorno alla ricerca di qualcosa con cui colpirlo, ma quell'attimo di indecisione le costò caro. Almar le agguantò il polso e la tirò di nuovo verso di sé.

Fanelia urlò e si divincolò. Urtò contro il tavolo e fu costretta ad aggrapparvisi con le mani per non cadere. Si ferì con il coltello che finì sotto le sue dita e dovette mollare la presa. A quel punto pensò di rovesciargli addosso la superficie di legno, ma ne ottenne solo di alimentare ancor più il suo furore. Quando Almar ebbe scansato l'ultimo ostacolo che aveva frapposto tra loro, lei era ormai con le spalle al muro. Il pirata l'afferrò per un braccio e la sospinse con brutalità verso il letto.

Lei ricadde sulla schiena con un gemito di dolore, il corpo di Almar che le pesava addosso e le impediva di muoversi. I sensi sembrarono venirle meno. Avvertì solo il rumore della stoffa lacerata e il lampo delle sue iridi scure che incombevano su di lei.

Galanár sentì sbattere il piccolo uscio di legno e si sollevò dalla branda.

"Bellator?"

Non credeva ai suoi occhi di fronte al sorriso di trionfo del suo capitano.

"Non perdiamo tempo, generale".

Gli tese subito una spada e il re annuì, più che felice di interrompere il suo periodo di riposo forzato e di seguirlo fuori dalla cabina. Lì il capitano della nave era intento a frugare i corpi dei pirati uccisi per recuperarne le armi.

"Tra queste e quelle che Mellodîn ha con sé abbiamo armi per una dozzina di uomini", lo informò Bellator. "Possiamo prendere i soldati più abili rimasti sulla nave e tentare una sortita".

Galanár valutò per qualche istante la proposta.

"I nostri migliori contro tutti loro?", si interrogò perplesso.

"Ci sono fortezze che si prendono per la forza di molti", considerò Bellator, mentre lo studiava fremente, in attesa dei suoi ordini. "Altre che cadono per l'astuzia di pochi".

Il generale gli ricambiò lo sguardo. L'idea di guidare un assalto notturno, di nuovo armato, di nuovo alla guida dei suoi, lo riempiva di innegabile eccitazione.

"Hai ragione", confermò. "E il palazzo di Opanje è una costruzione gentilizia, non un castello. Deve ospitare le riunioni con il popolo, non proteggere la vita di un re. Con molta attenzione e un po' di fortuna, dodici uomini ben addestrati possono farcela. E, una volta dentro, ci basta trovare e uccidere Almar".

Caddero uno dopo l'altro.

Galanár e il suo piccolo manipolo di guerrieri sembravano spiriti assetati di sangue. La necessità di mantenere il silenzio e di strisciare lungo le pareti come ladri servirono solo ad amplificare la loro ferocia ogni volta che facevano cantare le lame.

Caddero uno dopo l'altro, tutti coloro che avevano incrociato nel loro cammino.

Dalla porta centrale e lungo gli eleganti camminamenti illuminati a stento dalla luce delle torce, su per le scale fino agli appartamenti privati del palazzo. Al termine di un lungo corridoio deserto si trovarono di fronte a un'ultima porta. Almar non poteva essere che lì.

Il re fremeva d'impazienza al solo pensiero di quell'incontro. Spalancò l'uscio con un calcio e il chiavistello schizzò via con un tintinnio metallico, seguito dal rumore sordo del battente di legno che cozzava contro la parete.

Una stanza da letto. Mellodîn seguì il generale all'interno. Abbracciò la scena in un battito di ciglia e si arrestò. Allargò le braccia e respinse gli uomini che gli stavano alle spalle, pronti a intervenire. Mormorò un brusco ordine e intimò loro di restare fuori. Quindi tirò verso di sé l'anta della porta e la fermò con il proprio peso.

Galanár fu il solo ad avanzare, un passo davanti all'altro.

Il corpo di Almar era riverso sul pavimento, la gola tagliata da parte a parte. Lo scavalcò senza nemmeno degnarlo di un'occhiata e si avvicinò con cautela al bordo del letto. Fanelia era seduta al centro, le gambe piegate su un fianco, il palmo della mano semiaperto sull'altro, l'impugnatura del coltello appena sfuggita alla sua stretta. Aveva lo sguardo fisso nel vuoto, le pupille dilatate da un orrore invisibile, i vestiti strappati e coperti di sangue. Qualche striatura le macchiava anche la pelle, ma lei sembrava non curarsene. Era immobile, bianca come il sale, brillante di rosso scuro.

A Galanár mancò il fiato.

Sperimentò un vuoto allo stomaco che gli fece gelare il sangue nelle vene, come se stesse precipitando da un dirupo. E, a dispetto di quanto andava sbandierando in giro, seppe di avere ancora un pezzo di cuore da qualche parte, perché il suo battito era appena cessato.

Poggiò con delicatezza il ginocchio sul letto, si spostò piano come se temesse di produrre anche un solo impercettibile rumore e allontanò il coltello con la punta delle dita. Fanelia non si mosse, lo lasciò fare. Lo guardava come se non lo vedesse. Lui le scrutò gli occhi per qualche istante, quindi si sedette accanto a lei, la prese tra le braccia e la strinse senza una parola. Il sangue gli imbrattò il bordo chiaro della camicia e la guancia mentre la cullava in quella stretta, come se fosse stata una bambina da consolare al risveglio da un incubo notturno.

Mellodîn era impietrito, il corpo ancora schiacciato contro la porta. Rimase a fissare quella scena incredibile fino a quando Galanár sollevò lo sguardo su di lui. Era cupo e brillante come l'acciaio appena temprato, affilato come una lama.

"Prendete possesso del palazzo", disse con voce asciutta, "e passate a fil di spada chiunque incroci il vostro passaggio. Recupera le armi, l'equipaggio e tutti i miei uomini, e portate fuori dalle mura le donne e i bambini".

Lasciò cadere una pausa, mentre il comandante tratteneva il respiro, in attesa che l'inevitabile mannaia della sua ira si abbattesse su tutti loro.

"Poi radete al suolo questa città".

NOTA DELL'AUTORE

Regina in sanguine, Regina coperta di sangue.

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