19. QUAMVIS SINT CARA, RELINQUE
Le torri di guardia si levavano nella bruma del mattino, silenziose sentinelle di una città che si adagiava nella valle accogliente fino al letto di un grande fiume.
Al pari di Gordian, anche Issan splendeva nella prima luce dell'alba con i suoi mattoni di pietra gialla. Mellodîn ne osservava a distanza la sagoma pigra, molle e per nulla minacciosa. Bellator, seduto a pochi passi da lui, spiccò una fetta dalla forma di pane poggiata sul tavolo, poi affondò il coltello nel formaggio che costituiva parte del loro scarno pasto mattutino.
"Cosa hai deciso di fare stavolta?", chiese d'un tratto il capitano. "Non credo che tu voglia entrare a Issan in queste condizioni".
"Non ho nessuna intenzione di avvicinarmi più di così", rispose l'altro con un sospiro. "A Gordian ho fatto un errore. Non ho preso le dovute precauzioni e ne pagherò le conseguenze. Quanto a Issan, però, Galanár ha solo ordinato di aspettarlo qui. Non ha mai specificato che dovessimo farlo dentro le mura della città".
"Ha almeno specificato per quanto tempo avremmo dovuto attendere?", azzardò il giovane. "Siamo qui da giorni, accampati in mezzo al nulla, con uomini, cavalli e carriaggi. Non discuto gli ordini, ma... sbaglio se dico che il generale è in ritardo?"
Il comandante si sedette di fronte a lui e con un gesto gli chiese il coltello.
"No, non sbagli", rispose secco.
Finse un subitaneo interesse per il cibo che imbandiva la loro tavola improvvisata e non aggiunse altro.
"Quindi?", lo incalzò Bellator.
"Quindi penso che l'unica scelta che ci sia rimasta sia quella di muovere verso nord per cercare di andargli incontro. Forse il generale ha trovato qualche ostacolo e non ha modo per comunicare con noi. Spostarci in una terra che non conosciamo è un rischio, ma restare fermi qui per l'eternità non gioverà a nessuno".
"Ci sarebbe ancora un'altra opzione, in verità".
Gli occhi di Mellodîn ebbero un guizzo oscuro all'udire quella frase, ma il capitano di Medthalion non si fece intimidire e proseguì senza esitare.
"Potremmo restare, invece. Prenderci il tempo per organizzare una spedizione e tornare indietro a cercare Aidan".
Il comandante lasciò cadere il coltello, che toccò la tavola di legno con un rumore sordo. Bellator non aveva davvero nessuna intenzione di mollare la presa su quel punto.
"Ragioniamoci, comandante!", lo incitò con veemenza. "Il generale non è certo l'ultimo dei soldati. Potrebbe aver incontrato degli ostacoli, è vero, e questo spiegherebbe il suo ritardo. Ma chi ci dice, invece, che non abbia semplicemente deciso di cambiare i suoi programmi?"
Ancora una volta, Mellodîn non lo interruppe e il suo silenzio convinse Bellator di poter continuare a perorare la propria causa.
"Accidenti, lo conosciamo bene! Sappiamo che sarebbe in grado di farlo. E se lo ha fatto davvero, in questo momento potrebbe essere dovunque".
Il comandante, di fronte a quell'ultima ipotesi, lo fissò con espressione inquieta. Credeva davvero, Bellator, che lui non si fosse già arrovellato intorno alla medesima questione?
Lo avrebbe accompagnato fino alla fine di quel discorso, nella speranza che arrivasse a trovare da sé la giusta risposta.
"Anche Aidan potrebbe essere dovunque, per quel che ne sappiamo", osservò calmo.
"Ma lui è da solo!", continuò il capitano con un accento ancor più caldo e accorato. "E... per gli Dei, ha poco più di vent'anni! Cosa faremo? Torneremo dalla regina Laurëloth con l'ennesimo drappo nero? Perché io non credo di avere abbastanza coraggio per farlo una seconda volta".
Mellodîn scosse il capo e rivolse lo sguardo altrove, lontano da quello del suo interlocutore.
"Ti stai aggrappando alla speranza con tutto il tuo furore, Bellator. Lo sai che questo atteggiamento, a volte, può essere pericoloso".
Il capitano, di fronte a quella risposta tanto compassata, dimenticò ogni convenienza. Si levò in piedi e si puntellò con i pugni sul legno malsicuro.
"E così, dopo che Aidan ci ha salvati ad Hakala, dopo che ha sacrificato Edhel per la nostra vittoria, ci volteremo dall'altra parte e lo lasceremo in mano alla morte?"
Mellodîn lo fulminò con un'occhiata severa.
"Adesso basta!"
"Ti volterai dall'altra parte?", rimarcò Bellator.
Il comandante si sollevò con uno scatto fino a fronteggiarlo, occhi negli occhi, tensioni opposte che si bilanciavano senza che nessuno dei due fosse pronto a recedere.
"Sì", ribatté duro e deciso. "Perché io l'ho visto il ghiaccio che ha preso il cuore di Aidan, da quella giornata ad Hakala. Non è la morte a minacciarlo, è lui che le sta andando incontro e... Miei Dei, che io sia maledetto se non amo quel ragazzo! Ma non saremo noi quelli che potranno riportarlo indietro!"
Si accorse che il suo tono violento aveva messo a tacere Bellator, quindi si ricompose a sua volta e ammorbidì gli accenti.
"Non sto scegliendo tra Aidan e Galanár, se è questo che stai pensando. Sto scegliendo tra la sopravvivenza e la rovina! E anche se Aidan fosse mio fratello o mio figlio, la mia decisione sarebbe la stessa".
Le parole di Mellodîn sembrarono sortire uno strano effetto nel capitano. La sua ira si tramutò pian piano in una profonda e triste consapevolezza. Nell'attimo in cui il comandante gliela lesse in viso, gli mise una mano sulla spalla perché non si sentisse troppo solo in quel momento.
Come avrebbe fatto con Amalion. Come avrebbe fatto con Aidan.
"Andremo a nord, oggi stesso", concluse. "Perché il nostro re potrebbe essere in pericolo e noi abbiamo il dovere di raggiungerlo, dovunque la sua follia lo abbia cacciato".
Le navi, le sue navi, erano davvero ancorate nella rada del porto di Argade, quasi intatte dopo essersi sottratte alla furia della tempesta.
Il Maestro Beita aveva detto il vero. Anche la seconda città della Lega del Mare gli aveva aperto le porte e lo aveva accolto come un salvatore all'interno delle sue mura.
La rapidità e la semplicità con la quale gli eventi si stavano presentando a lui, di norma lo avrebbero messo in allarme. Quella volta, invece, il re riusciva a concentrarsi solo sulla crescente esaltazione che stava provando man mano che procedeva in quella nuova avventura. E non sentiva nessun allarme suonargli in testa, tranne quello che gli trasmetteva il pensiero dei potenziali pericoli cui lo avrebbe esposto quell'alleanza.
I pericoli, però, riguardavano un domani che doveva ancora prendere forma concreta. Al momento gli bastava bearsi all'idea di essere di nuovo al comando di una gloriosa impresa. Un'impresa che richiedeva, una volta ancora, forza e astuzia, determinazione e strategia.
Seguendo le indicazioni che Beita gli aveva fornito, gli erano occorsi pochi giorni per stringere accordi con il Maestro Custode di Argade e ripartire alla volta della città successiva, Tasiar, che era già stata avvertita del suo arrivo.
Con l'aiuto delle Città del Mare e della loro efficiente organizzazione segreta avrebbe potuto tessere una rete per far cadere in trappola il suo oscuro nemico. Doveva solo studiare tutti i pezzi che avrebbe avuto a disposizione sulla propria scacchiera e disporli al meglio per la partita. Poi non si sarebbe fermato.
Le mura scure di Tasiar si disegnarono di fronte a lui quando il sole era già tramontato alle sue spalle. Grandi bracieri ardevano sulla loro sommità e oscuravano le stelle in cielo di fumo opaco.
Galanár avanzò fino alle porte d'ingresso della città. Il suo stendardo sventolava fosco nella bruma della notte. Uno scudiero agitò una torcia per segnalare alle guardie che il Re delle Terre Riunite era arrivato e quelle lo fecero passare. Il generale attraversò al trotto la prima linea di difesa, superò le sentinelle e si trovò di fronte un gruppetto di uomini ad attenderlo. Tra loro riconobbe subito il Maestro Beita, che gli andò incontro e si inchinò mentre il re smontava da cavallo.
"Sire, il Maestro Custode di Tasiar è ansioso di fare la vostra conoscenza".
Si fece da parte per fare spazio a un altro anziano. Quello si comportò con la stessa deferenza di Beita. Dopo un inchino e un solenne proclama, gli cinse il collo con l'ennesima catena d'oro, dalla quale pendeva il simbolo della città.
Quella volta il re non mostrò alcuno stupore di fronte al trattamento ricevuto. Ringraziò il notabile e accolse il suo invito di seguirlo fino al palazzo centrale.
"La regina Fanelia non si unirà a noi, questa sera?", chiese il Maestro di Kandalar mentre procedeva al suo fianco.
Galanár non fece una piega di fronte a quella domanda di cortesia.
"La regina ha preferito raggiungere Tasiar in nave, per controllare che la flotta fosse in ordine", replicò asciutto.
La verità era che, dopo il loro discutibile scambio di opinioni a Kandalar, a stento si erano rivolti la parola. Giunti ad Argade, il re le aveva imposto di partecipare al banchetto in suo onore, ma l'aveva esclusa da ogni conversazione politica. Per tutta risposta, il giorno della partenza lei aveva chiesto di ritornare a bordo e lui le aveva dato il suo consenso senza obiettare.
Una volta a Tasiar, Fanelia aveva giocato d'anticipo e gli aveva fatto sapere ancor prima del suo arrivo che era indisposta e che non sarebbe scesa a terra. Un modo come un altro per dirgli che, se doveva solo fare mostra di sé a una festa, la questione non le interessava. E a Galanár interessava ancor meno, a quel punto. Era più che deciso a mettere in chiaro le loro reciproche posizioni. Voleva che fosse lei a cedere per prima e avrebbe usato ogni mezzo perché ciò accadesse. Silenzio, risentimento e separazione non erano che l'inizio.
Cercò di allontanare dalla conversazione quell'argomento che gli procurava fastidio e si affrettò a spostare il discorso altrove.
"Vedo che non siete rimasto con le mani in mano, mio caro Beita", commentò mentre si guardava attorno con evidente compiacimento.
"Abbiamo atteso così tanto questa opportunità che sarebbe stato un vero peccato sprecare un minuto in più, non siete d'accordo?"
Galanár annuì.
"Dopo il nostro ultimo colloquio a Kandalar ho messo in moto la rete segreta che alimenta la rivolta delle città della costa", proseguì il Maestro. "Avete giurato di aiutarci a eliminare l'oppressione dell'Autocrate. Attivare la macchina politica e assicurarmi di persona che vi sostenga in questa impresa è il minimo che io possa fare".
Il re sorrise.
"Dunque, non sarò io a sottrarre alla vostra libertà altro tempo prezioso".
Prese una pausa per riesaminare tra sé ciò che andava fatto.
"Faremo come a Kandalar e ad Argade. Lascerò anche a Tasiar un congruo contingente militare che possa garantirne la difesa, mentre io ripartirò subito per... qual è la nostra prossima meta?"
"Opanje, sire. L'ultima città della Lega del Mare. Lì, però, dovrete recarvi in nave", lo avvertì Beita.
L'espressione serena di Galanár mutò in una sottile smorfia. Non era per nulla entusiasta di dover riprendere la navigazione, proprio quando stava riassaporando il piacere degli spostamenti a cavallo.
"Perché mai?"
"Perché Opanje è una fortezza singolare. Le mura della città si distendono sulle acque e chiudono ogni accesso. L'unico punto da cui è possibile entrare è il mare".
Galanár chinò appena il capo e si passò le dita sul mento, pensieroso.
"Voi verrete con me, Maestro Beita?"
"Certamente, maestà. Ho già avvertito chi di dovere. Opanje è avvisata del vostro arrivo e pronta a mettersi al vostro servizio".
"Perfetto. Per questa notte, allora, godiamo pure dei festeggiamenti che Tasiar vuole offrirci con tanta generosità. Domani stesso siate pronto per ripartire".
L'ingresso della sala si spalancò con insolita urgenza. Due fanciulle si precipitarono all'interno senza nemmeno farsi annunciare. Silanna sussultò, ma non si adirò per quell'interruzione. La preoccupazione era evidente sui visi chiari delle sue ancelle. I loro occhi luminosi erano sgranati e scintillavano di agitazione.
L'elfa si levò in piedi e si diresse verso di loro.
"Che accade?"
"Il Re ha varcato il confine", disse una delle fanciulle, con voce sottile.
A Silanna mancò il fiato. Socchiuse le palpebre e serrò le dita delle mani in una stretta dolorosa.
"Deve morire, mia signora?", domandò l'altra ancella.
Lei sollevò le ciglia e la scrutò pensosa. Le sue iridi dorate si accesero per un breve istante, poi l'elfa si voltò e iniziò a percorrere a passi lenti la stanza, mentre nascondeva loro il volto e i pensieri.
"Deve morire?", ripeté la giovane, dopo aver atteso invano una sua parola.
"No", scandì infine, senza mai girarsi. "Non voglio che lui muoia. Lasciatelo passare".
NOTA DELL'AUTORE
Il titolo è tratto da una frase di Catone. La citazione integrale è Quae nocitura tenes, quamvis sint cara, relinque, ovvero Lascia le cose che ti nuocciono, per quanto care ti siano. Un suggerimento che, in questo capitolo, può essere letto in vari modi, a seconda del personaggio cui scegliete di attribuirlo 😜
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top