16. AMICUM CUM VIDES, OBLIVISCERE MISERIAS
Gordian era davvero all'altezza delle leggende che la riguardavano.
Per anni avevano pensato che fosse una città immaginaria. Solo quando il suo profilo elegante si disegnò davanti ai loro occhi riuscirono ad ammetterne davvero l'esistenza.
Mellodîn diede ordine di far accampare l'esercito a qualche lega dalle mura esterne. Non erano lì per occupare né per depredare, e non avevano alcun motivo di impensierire gli abitanti del luogo. Dispose che solo lui, Aidan, Bellator e Ilo si sarebbero recati alle porte della città, e avrebbero chiesto udienza a chi ne deteneva le chiavi.
Il governatore di Gordian li accolse subito nel suo palazzo. La reggia era costruita secondo una foggia a loro sconosciuta, ma le suppellettili e i decori era davvero splendidi come quelli che erano stati loro descritti. I mosaici che adornavano le pareti con scene di caccia e animali fantastici erano realizzati con foglie d'oro e vere pietre preziose, così come gli arredi della stanza in cui vennero ricevuti.
Il governatore si fece incontro ai forestieri appena fu annunciato il loro ingresso. Era un uomo alto, chiaro di carnagione e capelli, di bell'aspetto nonostante avesse ormai superato la metà della sua vita. Aveva modi eleganti e si sforzava di parlare la loro lingua con tono lento e calcolato.
"Benvenuti a Gordian, ufficiali della Lega".
Mellodîn gli rivolse un compito omaggio e lo ringraziò per l'accoglienza.
Quello fece un lieve gesto della mano, come a sottolineare quanto fosse avvezzo a simili cortesie, quindi li invitò a soggiornare nel palazzo per qualche giorno.
"Avrei molto gradito la visita del vostro signore, il sire Galanár", ammise a quel punto. "Gordian è una città libera, una delle poche ormai, e io ho sempre nutrito grande curiosità per il Re dell'Ovest. Mi piacerebbe fare affari con lui".
Il comandante annuì cauto a quella proposta.
"Non escludo di poter organizzare questo incontro, in futuro. Ci riuniremo presto al nostro re e sarò lieto di porgergli una vostra ambasciata".
L'altro sorrise soddisfatto e batté le mani per richiamare l'attenzione di uno dei valletti.
"Dobbiamo festeggiare il vostro arrivo, signori. Ma prima lasciate che assecondi le nostre tradizioni. Chiamate il sommo sacerdote, perché venga a benedire questo fortunato incontro".
Li raggiunse un uomo curvo e anziano, che conservava tuttavia un aspetto severo e dignitoso. Doveva incutere timore e rispetto perfino nel governatore, a giudicare dal profondo inchino con cui salutò il suo ingresso nella sala. Indecisi sui modi da adottare, i quattro uomini si limitarono a rendergli omaggio con un gesto del capo e a seguire con ossequioso silenzio il rito che si apprestava a officiare.
Il sacerdote si avvicinò a Mellodîn, gli passò un nastro candido attorno al braccio e chiuse gli occhi. Recitò una formula incomprensibile, il cui tono appariva però benevolo e augurale. Ripeté il medesimo gesto con Bellator, quindi si volse verso Aidan.
Lo sfiorò appena con la stoffa che teneva tra le mani e subito fece un repentino passo indietro. Il viso gli si contrasse in una smorfia di orrore e il vecchio iniziò a gridare frasi misteriose nella sua lingua natale. Il governatore si fece da parte e la sua espressione si fece stupita e preoccupata. Alcune guardie del palazzo si precipitarono al centro della sala.
L'incertezza serpeggiò tra gli uomini di Arthalion, mentre la situazione diventava sempre più caotica e precaria. Le guardie afferrarono l'arciere, gli bloccarono le braccia dietro la schiena e lo allontanarono dagli altri. Mellodîn si lanciò verso di lui, senza pensare di essere entrato senz'armi. Bellator lo afferrò al volo dalla brigantina di cuoio e lo trasse indietro, un attimo prima che il petto del comandante si scontrasse contro le picche sollevate dalle guardie. Ilo, da parte sua, si nascose dietro il mantello del capitano di Medthalion e lì rimase a occhieggiare la scena, mentre Aidan, attonito e spaventato, veniva trascinato via.
Solo a quel punto il governatore sembrò tornare in sé. Riprese in mano il controllo e, con un gesto imperioso, ordinò alle guardie di allontanare le armi dal comandante. Quindi gli si parò davanti, non più sorridente, ma innervosito da quanto accaduto. Era palese quanto si stesse sforzando per apparire gentile.
"Siete ancora il benvenuto in questo palazzo, comandante di Arthalion. Ma il Daimonmaster no. La sua presenza non è ammessa nella città libera di Gordian e sarà punito per questa infrazione".
Mellodîn, ancora fuori di sé, si divincolò dalla stretta di Bellator.
"Il Daimonmaster?", urlò. "Ma di che diamine state parlando? Siamo Uomini, non Elfi. Non c'è nessun Daimonmaster qui, e il ragazzo che avete appena arrestato è fratello del re!"
Il governatore socchiuse gli occhi un istante, come se stesse valutando il peso di quelle informazioni, quindi tornò a fissarlo con occhi calmi e glaciali.
"Domattina, all'alba, il Daimonmaster sarà giustiziato, come prevedono le nostre leggi. Dopo potremo trattare i nostri affari".
Era la cella più orrenda che la sua fantasia avesse potuto immaginare.
Non che Aidan potesse vantare una grande esperienza, in fatto di prigioni. Non aveva visto che le celle di rigore del palazzo di Formenos, dove di tanto in tanto Galanár spediva qualche soldato che aveva alzato troppo il gomito. Considerato il gusto spartano che suo fratello imponeva all'esercito, quelle stanzette non erano poi molto più spoglie dei normali alloggi militari. La loro vera, unica tortura era il tempo che non passava mai, senza avere nulla da fare. Le carceri del palazzo di Gordian, invece, erano buie cellette senza aria, scavate nella roccia umida e vischiosa dei sotterranei.
Aidan aveva cercato di impiegare il tempo a studiare palmo a palmo quei due metri scarsi che lo racchiudevano, ma non c'era molto da sapere su quel posto.
Un cumulo di pietre coperte di muschio sbarrate all'ingresso da una porta di ferro.
Quando la sua prima esplorazione si era conclusa troppo in fretta, Aidan aveva usato la Vista con i roditori che popolavano, suo malgrado, la sua nuova residenza. Forse, andando in giro con i loro occhi, avrebbe scoperto di più sulla disposizione della sua cella e sulla strada per venirne fuori. In quegli anni, però, aveva esercitato la Vista solo con Melima e con i suoi obbedienti occhi da falco, quindi si stancò presto di star dietro ai topi, e quell'esperimento lo lasciò ancor più fiacco di prima.
Mentre la notte avanzava cominciò a sentire freddo. L'umidità dell'ambiente trapassava la stoffa dei vestiti che, al mattino, aveva scelto senza troppe preoccupazioni. Si appellò al suo istinto da cacciatore, ma dovette arrendersi al fatto che, in quella prigione, non c'era nulla a parte i topi.
Non gli avevano lasciato nemmeno un pagliericcio per terra, e quel trattamento poteva significare una cosa soltanto. Che non avevano intenzione di tenercelo a lungo, in quella gabbia.
Si chiese cosa sarebbe accaduto, al mattino. Cosa ne sarebbe stato di lui.
Non pensava spesso alla morte, e in verità non riusciva a farlo nemmeno in quel momento. Mellodîn non lo avrebbe lasciato lì. Avrebbe parlato con il governatore, gli avrebbe spiegato che era tutto un malinteso, che Aidan era umano e non poteva essere un Daimonmaster, che era il fratello di Galanár e il re di Helegdir, anche se aveva scelto di viaggiare indossando solo i gradi di capitano di Arthalion.
Tutto vero e tutto falso allo stesso tempo insomma, ma cos'altro avrebbe dovuto fare? Dire a tutti la verità?
No. La difesa del comandante sarebbe stata più appassionata e sincera proprio in virtù della sua ignoranza. Era solo il suo animo a sentirsi colpevole al pensiero di quella bugia.
Chiuse gli occhi con un sospiro. Forse avrebbe dovuto permettere al fato di seguire il suo corso. Forse avrebbe dovuto solamente smetterla di pensare e cercare di dormire. Forse l'istinto lo ingannava una volta ancora e forse i rumori stridenti che aveva sentito erano solo gli incisivi dei topi, che non dormivano mai.
Aidan spalancò gli occhi nell'oscurità.
Non sono topi!
Era un attrito metallico, uno strofinio di piedi, uno sfregamento regolare.
Umano, senza alcun dubbio.
Mise all'erta tutti i sensi. Era già mattino? Erano venuti a prenderlo?
I muscoli del suo corpo si tesero mentre fissava la porta della cella che si apriva.
Una figura sottile si fermò sulla soglia e strofinò le mani per liberarsi le palme dalla ruggine. Il re quasi soffocò per l'ansia e lo stupore che si erano avvicendati con troppa rapidità.
"Ilo! Ma come diamine hai fatto?"
Il ragazzo sollevò uno sguardo brillante su di lui e gli rivolse uno dei suoi sorrisi sghembi.
"Oh, questo..."
Accennò con aria lieve al chiavistello della porta.
"Un'abilità affinata nel tempo per far fronte a un paio di spiacevoli circostanze".
"Non lo voglio nemmeno sapere. Mi sorprende solo il fatto che tu sia riuscito ad arrivare fin quaggiù senza un codazzo di guardie al seguito".
Ilo si lasciò sfuggire una smorfia di divertito risentimento.
"Ti considerano un Daimonmaster. Tante trappole magiche e nessuna cura per le serrature di metallo".
Aidan, suo malgrado, sorrise.
"Ma avrai tutto il tempo per elogiare la mia bravura quando saremo fuori di qui, Vostra Ingratitudine. Adesso filiamocela, prima che sia troppo tardi".
L'espressione del re mutò di colpo e il suo sorriso si spense.
"Non credo sarà così facile", disse.
Sollevò i polsi e gli mostrò gli anelli che lo ancoravano a una robusta catena fissata sul pavimento.
"Oh, credevo che con voi nobili ci andassero più leggeri".
"Non mi sembrano molto interessati ai titoli nobiliari, in questa città".
Ilo si chinò al suo fianco e cominciò a esaminare i ceppi che imprigionavano Aidan con aria sempre più perplessa. Si rimise in piedi e guardò il re dall'alto con aria afflitta.
"No, questo non sarà per niente facile".
Quell'impedimento, proprio quando si era sentito a un passo dalla libertà, sembrò ad Aidan così snervante da convincerlo ad accettare qualsiasi mezzo pur di fare in fretta.
"Non potresti provare con la magia?", suggerì.
Ilo si strofinò la nuca con la mano, scompigliò i capelli già abbastanza disordinati e rivelò un leggero imbarazzo di fronte a quella richiesta.
"Non sono così tanto potente", ammise. "Ci vuole l'Arcano del Fuoco per distruggere il metallo, e io sono un Uomo, nel caso in cui te lo fossi scordato".
Aidan annuì in silenzio e abbassò gli occhi. Rimase pensoso per qualche minuto. Sembrava essersi chiuso in se stesso e aver dimenticato di avere compagnia. Si lasciò sfuggire solo un lieve sospiro, ma così doloroso da far rabbrividire chiunque.
"Hai un coltello?"
Ilo recuperò il suo sorriso trionfante.
"Che razza di ladro sarei se non ti avessi recuperato questi?"
Dalla cinta si sfilò le lame elfiche che Aidan aveva consegnato alle guardie prima di entrare nel palazzo del governatore. Il re ne sistemò subito una sul fianco, quindi sollevò l'altra sopra il palmo aperto. La fece affondare e guardò senza emozione la linea rossa che si disegnava sulla carne.
"Visto? Evitando le dita che ti servono per tendere le corde dell'arco"
Come gli aveva insegnato Edhel. Tese la mano ferita all'altro ragazzo.
"Evoca il Daimon".
Non gli diede nessun'altra spiegazione. Serrò le dita dell'altra mano attorno a qualcosa che nascondeva sotto la camicia.
Ilo non era sicuro di ciò che stava per fare, né di ciò che sarebbe potuto accadere, ma decise di non fare domande e di fidarsi.
Si inginocchiò, strinse la mano da cui il sangue veniva ancora fuori e chiuse gli occhi nello stesso istante in cui anche l'altro chiudeva i suoi.
Evocò il Fuoco come sapeva fare, ma subito dopo si spinse oltre la soglia che non aveva mai osato varcare. Evocò il Daimon del Fuoco.
E Nor gli rispose.
Lo sentì venire fuori dal sangue di Aidan, che iniziò a bruciare entrambi con prepotenza. Ilo non si arrese. Rimase saldo, sopportò quell'onda di calore sconosciuta che lo assaliva e proseguì nel formulare l'incantesimo.
Il primo anello della catena si sciolse e il resto andò giù con un rumore così pesante che li fece sobbalzare. Aidan lasciò l'amico e l'amuleto nello stesso istante, poi si fissò i polsi circondati dai ceppi di ferro, ma liberi dal loro ingombrante seguito.
"A questi penseremo dopo, in qualche modo".
Stentò a tirarsi in piedi, perché una stanchezza innaturale gli stava facendo dolere tutti i muscoli, e schivò deliberatamente lo sguardo di Ilo. Sapeva che lo stava osservando con stupore e non voleva sentirsi i suoi occhi addosso. Era quel tipo di sguardo che lo faceva sentire un mostro.
Quel tipo di sguardo che ha sempre fatto soffrire Edhel.
"Forse c'è qualcosa che non hai detto", mormorò Ilo, dopo qualche istante di silenzio.
"È davvero importante che lo faccia?"
L'altro gli mise una mano sulla spalla e lo costrinse a guardarlo.
"No, non a me. Io non lo voglio nemmeno sapere", gli sorrise con un'occhiata complice. "Al comandante Mellodîn, magari. Almeno a giudicare dalla sua reazione".
Aidan trattenne il fiato un istante, poi scacciò via quel pensiero. Non voleva pensarci, non ci riusciva ancora.
"Andiamo", mormorò. "Vediamo se riesci davvero a farmi uscire da qui".
Il sole era ancora un interrogativo sulla linea dell'orizzonte. Mellodîn non aveva chiuso occhio per tutta la notte e non sapeva più cosa fare.
La sera precedente il governatore aveva offerto loro un banchetto come se fossero ospiti d'onore. Come se nulla fosse accaduto. Il comandante aveva accolto quell'invito con entusiasmo, nella speranza di potergli spiegare che il sommo sacerdote si era sbagliato. Gli avrebbe ribadito chi era Aidan e cosa rappresentava per Galanár, visto che il governatore sembrava tanto interessato a colpire favorevolmente il re.
Il loro ospite, però, non si era fatto vedere. Quando il comandante aveva chiesto di lui, gli era stato risposto che avrebbe pranzato con loro il giorno successivo. A mezzodì. Quando tutto sarebbe stato compiuto.
Mellodîn strinse gli occhi e si passò una mano sulla fronte. Senza armi, senza i suoi uomini e senza possibilità di muoversi in quel palazzo che non conosceva, aveva ceduto prima all'ira, quindi alla disperazione. Non faceva che pensare a quel ragazzo, al suo ragazzo, e al modo di sottrarlo a una morte ingiusta.
L'aria si schiarì appena, ma la sottile lama di luce bastò a peggiorare il suo stato d'animo. Stava per maledire l'inizio del giorno, quando il silenzio fu rotto da un suono violento.
Campane. Campane suonate con urgenza.
Ne riconobbe il tocco, sapeva cosa volevano dire: un prigioniero era scappato.
La porta si aprì di colpo e Bellator entrò nella stanza, agitato come se avesse corso per miglia. Il comandante lo accolse con un sorriso di soddisfazione.
"Il nostro ragazzo è stato furbo".
"Sì", confermò Bellator, cercando di riprendere fiato. "E non è solo, a quanto pare. Ilo è sparito e ha lasciato queste sopra il letto".
Sollevò un sacco di iuta. Dalle estremità slabbrate si intravedevano le impugnature di due spade. Bellator le liberò dall'involto e tese a Mellodîn la sua arma.
"Che facciamo adesso, comandante?"
Quello lanciò uno sguardo alla strada. Le vie attorno al palazzo si stavano animando in fretta di guardie e scudieri, che sciamavano come api impazzite.
"Se Aidan e Ilo sono fuggiti, ne dovremo rispondere noi e, a quel punto, non so se saremo più così benvenuti a Gordian. Se siamo svelti, però, possiamo uscire dalla città senza dare nell'occhio. Qualcosa mi dice che, se prendiamo l'esercito e ci allontaniamo senza creare altri problemi, il governatore non ci inseguirà".
NOTA DELL'AUTORE
Amicum cum vides, obliviscere miserias.
Quando vedi un amico, dimentichi le sciagure
(Appio Claudio Cieco, Sententiae).
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