15. NIL ADSUETUDINE MAIUS

Un approdo.

A Galanár non importava nemmeno dove si trovasse con esattezza, quale fosse il nome della città e di che razza fossero i suoi abitanti. La terra ferma era tutto ciò che desiderava, a qualsiasi condizione. 

Incaricò il capitano di restare a bordo a stilare la lista dei danni subiti. Lui, invece, scese subito sul pontile con Fanelia e un piccolo drappello di soldati come scorta.

"Dove pensi che ci troviamo?", domandò alla ragazza.

Lei scosse il capo.

"Difficile dirlo. La costa nord si spinge per leghe e leghe. Potremmo essere finiti dovunque".

Galanár annuì mentre il suo sguardo si fissava su qualcosa che aveva attirato la sua attenzione.

"Immagino che lo scopriremo presto", commentò.

Da quello che sembrava l'ingresso principale del porto, infatti, avanzava un corteo di uomini. Vestivano abiti eleganti, sebbene di foggia diversa da quella a cui erano abituati. Tuniche abbottonate fino al ginocchio e pantaloni ampi, ma rifiniti da complessi ricami dorati. E d'oro erano anche i molti gioielli che indossavano al collo, tra le dita e alle orecchie.

A guidarli c'era un uomo anziano, dalla lunga barba bianca e il viso ricamato di rughe. Il re si arrestò e fece cenno ai soldati di non muoversi. Attese che il vecchio gli fosse di fronte e solo allora avanzò di un passo, con l'intento di chiedergli notizie di quel luogo.

Quello, però, lo anticipò. Chinò il capo e gli rese omaggio.

"Benvenuto a Kandalar, Galanár di Arthalion, re delle Terre Riunite".

Lui sobbalzò per la sorpresa e riuscì a replicare solo con un incerto gesto di assenso. Lanciò una rapida occhiata a Fanelia, ma lei aveva la medesima espressione interrogativa sul volto.

"Abbiamo visto la vostra bandiera e riconosciuto le insegne, sire", spiegò il vecchio. "Siamo qui per accogliervi e chiedervi di prendere in custodia la nostra città".

Sotto gli occhi attoniti del re Mezzelfo e della sua scorta, il vecchio sollevò le mani e gli passò attorno al collo una elaborata catena d'oro, quindi si inchinò davanti a lui con tutto il suo seguito.

"Kandalar è vostra, maestà".

Kandalar era in festa.

Galanár non sapeva ancora come definire quella situazione. Un'offerta di alleanza? Una resa? Oppure una trappola?

Il maestro Beita, colui che lo aveva accolto, sembrava un uomo saggio e affidabile. Nel dubbio, però, il re aveva ordinato ai suoi uomini di disporsi sulle mura e agli ingressi del porto, a fare da sentinella assieme alle guardie della città. Era una dimostrazione di disponibilità e, allo stesso tempo, un modo prudente per tenere sotto controllo Kandalar.

Le torce ardevano fuori dalle case e al centro delle piazze, e illuminavano edifici dall'aria esotica, che univano la grazia delle architetture elfiche alla solidità delle costruzioni umane. Il palazzo del governo brillava nella notte, lungo le strade aleggiava un'aria di festa per l'arrivo del Re d'Occidente.

Beita condusse Galanár in una grande sala. Il re osservò con curiosità l'arredo e l'atteggiamento degli altri invitati. Non c'erano tavoli né sedie. Gli ospiti stavano seduti o sdraiati su cuscini di seta, disposti in cerchio. Nessuno occupava un posto di rilievo in quel consesso, nemmeno lo stesso Beita, e il re concluse che quell'usanza aveva una sua ragion d'essere. L'anziano maestro non era un sovrano né un principe e, per ciò che gli era parso di capire, nessuna delle città della costa ne aveva uno.

Esisteva una classe nobile, composta da coloro che popolavano quella sala. Al suo interno veniva scelto un Maestro Guardiano, il cui compito era quello di sovrintendere alle attività cittadine. Un primo tra pari, comunque soggetto a una legge superiore. Non occorreva alcun trono, dunque, né alcuna insegna del potere.

L'atmosfera era molle e rilassata, improntata al lento piacere della discussione e del cibo. Al centro, su un piano lievemente rialzato, alcune fanciulle danzavano al suono di una musica suadente e ritmata. Tra loro, una ragazza spiccava per il colore acceso della stoffa impalpabile che velava il suo corpo. Ballava a piedi nudi, e nudi erano anche il seno e le caviglie, coperti da monili, pietre, anelli d'oro che tintinnavano a ogni movimento.

Galanár si rammaricò di non avere Mellodîn al suo fianco. Avrebbe scommesso con lui sul numero delle collane che le cingevano il collo. Rinunciò a contarle, mentre la ragazza faceva girare la gonna a un centimetro dai suoi occhi.

"Se vi piace, è vostra. Ve la dono", disse Beita, mentre faceva cenno a un valletto di riempire i loro calici.

Il re lanciò un sorriso seducente a quella bellezza straniera, poi scosse il capo.

"Non credo che la regina Fanelia apprezzerebbe la vostra gentilezza".

L'espressione del Maestro si compose in una smorfia di rammarico.

"Perdonatemi, non era mia intenzione recare offesa alla regina. I nobili di qui prendono moglie, ma possono tenere tutte le concubine che desiderano. Forse avete costumi diversi nell'Ovest".

Galanár seguì il movimento aggraziato dei fianchi della danzatrice, che non gli lesinò un'occhiata invitante.

"No, molto diversi non direi", commentò a mezza voce. "Più ambigui, forse".

Lei accennò un inchino e sparì, seguita dalle compagne, in un tintinnio di monetine. Il loro posto venne occupato da un giocoliere che dominava il fuoco e l'attenzione di Galanár tornò sul suo ospite.

"Penso sia giunto il momento di avere qualche spiegazione in più a proposito della vostra richiesta, Maestro Custode".

L'uomo fece un impercettibile cenno di assenso e si assicurò che le loro voci fossero fuori dalla portata di altre orecchie prima di cominciare.

"Amministro Kandalar da quasi vent'anni. Da quando eravamo liberi".

"Cosa è accaduto?"

"Un anno fa un'ombra è scesa sull'Est e ci ha inghiottiti tutti. Siamo stati invasi da un esercito imponente. Le città della Lega del Mare sono sempre state pacifiche. Non eravamo in grado di opporci, così la nostra libertà, adesso, è in mano all'Autocrate".

Un lampo si accese negli occhi di Galanár all'udire quel titolo.

"L'Autocrate?"

"Colui che ci governa, potente e senza scrupoli. Ci è proibito persino conoscere il suo nome. Tutti ci rivolgiamo a lui con questo appellativo".

Il re parve riflettere su quelle informazioni.

"Un conquistatore", commentò tra sé, prima di tornare a guardare Beita. "Quanto è grande il suo dominio?"

"Parecchio, sire. Solo un paio di città del Sud sono riuscite a sottrarsene. Gordian e pochi altri nodi commerciali".

"Come mai?"

"Gordian gestisce i traffici dell'intero sud-ovest. Possiede ricchezze tali da poter negoziare la propria libertà. Hanno pagato per l'indipendenza e, al contempo, hanno assicurato approvvigionamento continuo all'Autocrate".

Galanár non rispose. Invasione, conquista e accordi non erano concetti a lui sconosciuti. Anzi, era vero il contrario. E se la sua fama era giunta fino a Est, il suo ospite non doveva essere del tutto all'oscuro delle sue gesta. Cosa poteva spingere qualcuno a chiedere a un dominatore di sottrarli al controllo di un altro dominatore?

Il suo sguardo si perse tra le luci della sala, che facevano risplendere le decorazioni dorate, le sete che ricoprivano i nobili presenti, l'argento sbalzato dei vassoi colmi di cibo. Il suo dubbio si fece più pressante.

"Comprendo il patimento per la perdita dell'indipendenza, ma Kandalar mi sembra comunque una città tranquilla e florida. Perché siete così ostili al vostro nuovo signore?"

Aveva cercato di pesare le parole, ma lo sguardo di Beita si velò comunque di cupo sgomento.

"Florida, sì, ma non tanto da potersi vendere a prezzo di moneta. Noi paghiamo i nostri tributi in vite umane. Una volta al mese doniamo i nostri giovani all'Autocrate, pena la distruzione".

Il re sgranò gli occhi. Ogni possibile risposta gli era morta in gola. Aveva visto tanto in battaglia e credeva di saperne abbastanza di intrighi di corte e di lotte per il potere più o meno sotterranee. In quel momento, però, comprese di avere di fronte un nemico che non giocava alla guerra con le sue stesse regole.

Su quale terreno si stava inoltrando?

Si congedò poco dopo con la scusa di dover riposare dopo il viaggio. Ancora preda di mille domande, si sdraiò sul letto, ma non chiuse occhio. Restò a guardare il soffitto decorato che lo sovrastava. La stanza riluceva di bagliori dorati, incendiata dai fuochi che ancora bruciavano all'esterno del palazzo.

Un rumore sottile e strisciante lo fece sobbalzare. La porta della camera si aprì. Immaginò che fosse Fanelia, che entrava furtiva per infilarsi nel suo letto, e sorrise.

Un lieve tintinnare di monetine fu sufficiente a fargli indovinare la realtà. Tese un braccio nel buio e, senza una parola, strinse la mano della ragazza. La guidò fino a sé, la fece distendere sulle lenzuola, poi affondò le dita nell'intreccio di veli trasparenti e pelle liscia. Rinunciò a ogni sterile ragionamento su quella intricata situazione. Quella notte non voleva pensare a nulla. Voleva solo provare su di lei tutti i giochi che, nelle sue fantasie più segrete, aveva riservato alla propria moglie.

Quale sensazione inusuale lo stava traghettando dal sonno alla veglia?

Dita sottili gli sfioravano le ciglia, lungo la curva delle sue palpebre.

Galanár spalancò gli occhi e rimase senza fiato per la sorpresa: Fanelia era seduta sul bordo del letto.

D'istinto, lasciò scivolare una mano al proprio fianco, ma incontrò solo il vuoto. Il naturale sollievo trasmesso da quel gesto fu subito rimpiazzato dalla spiacevole necessità di sentirsi in qualche modo colpevole. Reagì a quel sentimento come faceva sempre: si mise a sedere con un gesto nervoso e si mostrò risentito.

"Dov'eri stanotte?", chiese con aria di rimprovero.

Fanelia lo ripagò con lo stesso tono.

"Dove volevi che fossi? Nella mia stanza".

Lui non rispose ed entrambi continuarono a tenersi sotto tiro con espressione adirata.

"Potevi venire a controllare tu stesso. Non dovevi fare che un paio di metri".

Un paio di metri?

Non avrebbe mai immaginato che lei gli fosse così vicina, quella notte. Un brivido gli percorse la schiena, ma lo camuffò con una smorfia di noncuranza.

"Perché sei qui?"

"Perché è tardi e tu non eri da nessuna parte. Il Maestro Custode desidera parlarti con urgenza".

Galanár sembrò finalmente in grado di mettere a fuoco la situazione. Si mise in piedi e cominciò a vestirsi. Lei lo seguì con lo sguardo, in silenzio.

"Voglio venire con te", dichiarò mentre lui non la guardava.

"Sono io a decidere se la tua presenza è necessaria o meno", fu la risposta secca.

Continuava a darle le spalle e Fanelia sentì l'irritazione montarle ancor più dentro.

"È il sovrano che parla, adesso, o il generale?"

Galanár interruppe la vestizione e si girò verso di lei.

"Cambia qualcosa?"

"Cambia parecchio. Il generale può darmi un ordine, ma il sovrano ha una promessa da mantenere. Una promessa che ha deciso di trascurare".

Lui fece qualche passo e le si fermò di fronte.

"Fanelia, io sono il re e faccio quello che voglio".

Lei sapeva per esperienza che, se un uomo arrivava a controbattere con simili puntualizzazioni, il più delle volte significava che non aveva altri argomenti. Per nulla intimorita, si alzò in piedi per fronteggiarlo.

"E io sono libera, maestà. L'avete stabilito voi", ribatté, senza staccare gli occhi dai suoi. "Io non ti appartengo, Galanár".

Il re si sforzò di trattenere un moto di rabbia, senza riuscirvi del tutto. Le prese il mento tra le dita e le avvicinò il viso al suo.

"Forse non appartieni a me, ma appartieni ad Arthalion. Con tutto ciò che ne consegue".

Fanelia si liberò con una smorfia di sdegno. Si passò le dita sul mento per scacciarvi il segno della sua stretta, quindi si avviò verso la porta.

"Vado in giardino a fare compagnia al nostro ospite", disse con voce glaciale. "Toglietevi di dosso l'odore di quella puttana e cercate di non farci attendere troppo, maestà".

Udì la sua risata appena mise piede nel lussureggiante giardino del palazzo di Kandalar .

Seguì la strada di ciottoli che si apriva tra cespugli di fiori e rampicanti, e raggiunse una vasca piena di pesci e ninfee. Beita e la regina sedevano sul largo bordo di marmo.

Fanelia aveva indossato di nuovo gli indumenti militari e le insegne dell'esercito, nonostante il suo parere contrario. Voleva forse mettere in chiaro che non era solo un mero ornamento della sua corona? Rammentargli una volta ancora il loro accordo?

Non erano quelli i modi che lui gradiva. A dispetto di quanto affermato poco prima, esistevano davvero poche cose al mondo che non considerava di sua personale proprietà. Affermare che Fanelia fosse una di queste rare eccezioni sarebbe stata una menzogna.

Lei lo accolse con un sorriso lucente e pieno di falso affetto. Lui pensò che l'avrebbe volentieri strozzata, ma decise di stare al gioco, viste le circostanze. Le baciò la mano che gli aveva teso con ostentata devozione, quindi rivolse la sua attenzione al loro ospite.

"Di cosa volevate discutere?"

Beita sospirò, poi lo fissò con aria grave.

"Kandalar è allo stremo delle forze, i suoi abitanti stanno perdendo ogni speranza di liberarsi dal giogo dell'Autocrate. Per questo, quando è giunta voce del vostro arrivo, io e gli altri membri del consiglio abbiamo deciso di consegnarvi la città. Vi giureremo fedeltà se ci metterete sotto la vostra protezione, sire Galanár".

Il re annuì a quel discorso, ma era chiaro che non fosse concluso. Beita non gli aveva detto nulla che lui non avesse già compreso dalla sera prima. Doveva esserci dell'altro.

"Non saremo i soli a farlo. Da tempo le Città del Mare sono in attesa del momento propizio per liberarsi. Esiste un accordo tra di noi e abbiamo una rete sotterranea di informatori. Muovetevi lungo la costa. I porti di Argade, Tasiar e Opanje vi stanno già aspettando. Vogliamo tutti la stessa cosa: i vostri soldati a difendere le nostre mura quando ci solleveremo contro l'Autocrate".

Galanár si ritrovò a fissare il rosso guizzare di un pesce che increspava la superficie dell'acqua. Era perplesso. Lo esaltava, e non poteva negarselo, il pensiero che tutta quella gente lo considerasse alla stregua di un salvatore. Lo esaltava e lo appagava.

Quella gloria, però, lo avrebbe costretto a rivedere i suoi piani. Mettersi sul capo quel serto di alloro gli sarebbe costato un nuovo nemico e una nuova guerra.

Sfiorò la superficie dell'acqua con un dito e il grosso pesce venne docile al suo tocco.

"Come posso darvi l'assistenza che meritate?", obiettò infine. "Non ho tutti i miei uomini con me e ho perso le mie navi".

"Le vostre navi sono in salvo".

A quella frase, sia Galanár che Fanelia ebbero un moto di stupore.

"In salvo?", ripeté il re, ancora incredulo.

"Mi è giunta notizia proprio stamane, per questo vi avevo fatto cercare con urgenza. Erano dietro di voi quando è arrivata la burrasca. Hanno fatto in tempo a virare a nord, passare di fianco alla tempesta e riparare nel porto di Argade. Le troverete lì".

Sembrava davvero un segno, quello. Capace di far pendere l'ago della sua bilancia interiore. Il re recuperò il sorriso e, con esso, la sua abituale sicurezza.

"Questo sistema molte cose, mio caro Beita", rispose. "Lascerò l'ammiraglia e buona parte dei suoi soldati qui in città, a vostra completa disposizione. Io partirò subito via terra per raggiungere Argade".

Un soffio di vento entrò nella camera e mulinò attorno agli angoli in modo innaturale, come se avesse fretta di uscire.

Silanna sollevò le ciglia e seguì il movimento dell'Aria. Il fascio di luce con cui le sue dita stavano giocando si contrasse e si spense. La stanza ripiombò in una quieta penombra.

"Edhel, aspetta", sospirò. "Dammi qualche minuto, poi sarò subito da te".

Si sollevò dai cuscini su cui era sdraiata, uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle. Si assicurò di essere sola, poi richiamò il suo Daimon.

"Che accade?"

Vilya le gironzolò attorno con movimenti sinuosi e le sussurrò qualcosa all'orecchio. L'espressione di Silanna si fece di sasso.

"Il re?", domandò con voce sgomenta. "Così vicino?"

L'Aria le scompigliò i capelli, la sua voce le suggerì un'altra frase. Silanna chiuse gli occhi e si portò una mano alle labbra.

"Per gli Dei, non doveva essere qui".

NOTA DELL'AUTORE

Nil adsuetudine maius, Niente è più forte dell'abitudine (Ovidio, Ars Amatoria, Liber II).

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