12. AUT REGEM AUT FATUUM

Galanár era estasiato dalla vista che si godeva dalla balconata. Non aveva mai immaginato che potesse esistere una città concepita come quell'approdo elfico.

Il palazzo che fronteggiava il mare era una costruzione che si distendeva lungo l'intero perimetro del porto e si piegava con eleganza ad abbracciare la curva dell'insenatura, come un suggestivo anfiteatro affacciato sulle acque tranquille della rada. La bianca costruzione sfidava l'azzurro con la sua architettura di filigrana. Leggiadre fasce di marmo si attorcigliavano a formarne le colonne portanti. La luce e l'ombra giocavano in quei nodi e nelle aperture che si aprivano sul mare.

Il re fissava l'orizzonte che tagliava il cielo in due diverse gradazioni di blu. Le mani poggiate sulla balaustra, gli occhi che gli brillavano al pensiero di quella nuova avventura, Galanár non si sentiva così vivo da anni.

Mellodîn uscì al sole. Sollevò la mano per pararsi dal chiarore del mattino, quindi avanzò fino ad affiancare l'amico. Poggiò il gomito sul parapetto e si sporse appena per riuscire ad abbracciare con lo sguardo la distesa di navi, con il loro intrico di legno, sartiame e vele. La brezza lieve del mare gli accarezzò il viso con il suo odore di alghe e sale.

"Aidan ha mandato un messaggio", disse il comandante, dopo essersi goduto quel bagno di luce. "È arrivato ad Aldalon e si appresta a cavalcare verso il confine di Lossmir. Ci dà le indicazioni per raggiungere il luogo convenuto".

Galanár annuì soddisfatto. Il sole del mattino e la sicurezza delle proprie idee facevano risplendere il barlume di Laurëgil che albergava in lui.

"Bravo ragazzo", mormorò soddisfatto.

"E verrà con noi", aggiunse Mellodîn, a mezza voce.

"Sapevo che avrebbe cambiato idea".

Mellodîn fece una smorfia e gli lanciò un'occhiata di blando rimprovero che Galanár liquidò con un mezzo sorriso.

"Alla fine Aidanhîn farà comunque quello che gli dico, perché non può farne a meno".

Il comandante sollevò il sopracciglio con aria scettica, ma non obiettò. Si limitò a cambiare argomento e a sciorinare l'elenco delle mansioni già portate a termine dai vari reparti. Fanelia e Bellator lavoravano da giorni per armare e stivare la flotta nella maniera più conveniente per il viaggio, e l'allestimento era a buon punto.

Galanár lo ascoltava con attenzione e annuiva di quando in quando. Era davvero soddisfatto dal modo in cui stavano procedendo i preparativi. La sua anima fremeva, non vedeva l'ora di partire. Quel vento salino che profumava di nuovo e che giocava con il nastro cremisi dei suoi capelli gli solleticava la fantasia al pensiero di quanto ancora aveva da scoprire.

"Come procede con Fanelia?", chiese Mellodîn d'un tratto.

Sembrava che per lui organizzare una spedizione e gestire un matrimonio fossero la stessa impresa, dal momento che il soggetto di entrambe le attività era il medesimo. Nonostante avesse posto la domanda con fare distratto, come se non si fosse trattato di un argomento importante, Galanár si irrigidì e assunse un'aria svagata.

"Non saprei. Che dicono gli ultimi pettegolezzi di corte?"

Mellodîn non rise di quello scherzo. Era più serio che mai.

"Io non ascolto le voci di palazzo. Mai. Eccetto quella di Alis", puntualizzò.

Il re sfoderò un'esclamazione ironica e afflitta.

"Ah, Alis... e le alleanze femminili!"

Gli lanciò uno sguardo eloquente, che palesava tutta la sua noia di fronte all'argomento, ma accettò di proseguire la discussione.

"Comincio ad averne abbastanza. Dovreste smetterla di considerare questo matrimonio un affare di stato del quale dissertare ogni giorno, dal mattino fino alla sera".

"Forse ne dissertiamo tanto perché lo è davvero, un affare di stato?"

"Mi sono sposato", sottolineò il re con insofferenza. "Fine degli accordi, degli intrighi e dei giochi politici della Lega. Che altro vogliono adesso?"

"Un erede, ecco che vogliono. Oppure che non vogliono affatto, e in quest'ultimo caso io mi preoccuperei ancor di più. Nessuno sa cosa troveremo dall'altra parte e tu stai partendo senza lasciarti nulla alle spalle".

Restarono in silenzio per qualche minuto, a contemplare lo spettacolo offerto dal porto. Seguirono le traiettorie degli uccelli che si lanciavano acuti richiami e svolazzavano tra le stoffe attorcigliate agli alberi delle navi. Infine Mellodîn scosse il capo e fissò Galanár con un'espressione che mescolava tristezza e preoccupazione.

"A volte stento a credere che una simile negligenza venga da te", riprese. "Edhel è morto, tu stai trascinando Aidan assieme a te in un viaggio verso l'ignoto e nessuno di voi ha ancora dei figli. È questa la fine di Arthalion? La stirpe dei re? Cosa accadrà alla Lega se né tu né Aidan doveste tornare? E all'unità del tuo regno? La fragile unità del tuo regno, aggiungerei. Non penserai che due anni siano sufficienti per convincere due razze diverse a vivere in pace, come se nulla fosse successo?"

Il re sollevò le spalle con indifferenza, appoggiò gli avambracci sul legno della balaustra e si ostinò a guardare il mare. In quel momento sembrava di nuovo il ragazzino che, sulle mura di Arthalion, sognava di sconfiggere i Troll e di conquistare il mondo.

Il mondo, alla fine, lo ha conquistato, ma di certo non è più un ragazzino.

"No, non lo pensi davvero", rimarcò il comandante, di fronte al suo silenzio. "Ma io comincio a non capirti. Non posso credere che tu abbia fatto tutto questo solo per la voglia di collezionare una terra dopo l'altra, come fossero giocattoli".

"Magari è proprio così, invece", rispose Galanár, sibillino. "Ma, in ogni caso, è il mio giocattolo. Non ho mai pensato di fare tutto questo perché dovesse piacere a qualcun altro".

Tacque un istante e sospirò come se fosse stanco. Fissò il mare e pensò a quella linea blu come a una desiderabile via di fuga. Non gli importava nemmeno cosa ci fosse oltre. Gli importava solo ciò che poteva lasciarsi alle spalle.

"Tutte queste diatribe, Mellodîn, non fanno che ricordarmi quanto siamo piccoli, noi uomini. E piccole sono quelle anime che riescono a condurre un'intera esistenza preoccupandosi solo di piccole gioie e di piccoli dolori. Che accumulano una qualche fortuna solo per consegnarla nelle mani di un altro che, a sua volta, non vivrà che per questo scopo".

Si tirò su, si girò sul fianco e si decise a guardarlo.

"Io non sono così. A me non importa cosa ci sarà dopo di me. Volevo realizzare qualcosa di grandioso nella mia vita, e voglio farlo ancora. E ancora non è abbastanza".

Prese una pausa e lasciò che il vento gli disordinasse i capelli e disperdesse le sue parole.

"Se esiste qualcosa che debba essere scoperto, allora io la scoprirò. Se esiste qualcosa che possa essere conquistato, la conquisterò. Non desidero il potere, che è un'aspirazione bassa e meschina. Esercito il comando perché è il solo modo per tenere in piedi il sistema, ma ciò che davvero voglio è imprimere il segno del mio passaggio su ogni cosa".

Mellodîn lo ascoltò per tutto il tempo senza fare un fiato, sprofondato in qualche inconfessabile ragionamento.

"Sia come sia", replicò infine, con un lieve cenno di assenso. "Quel che è fatto, è fatto, Galanár. Questo regno, però, è una tua creatura. A prescindere dalle motivazioni per cui lo hai fatto, non puoi abbandonarlo al suo destino, condannarlo alla polvere. Se vuoi davvero imprimere il tuo sigillo su ogni cosa, devi anche preservarne la memoria futura, o tutto sarà dimenticato. Compreso il tuo nome".

Il re si arrese a quel pensiero. Annuì e gli rivolse uno di quei sorrisi con cui di solito poneva fine alle discussioni nelle quali sapeva di non poter far coincidere le loro opinioni.

"Bene", esclamò di nuovo allegro. "Allora dovremmo almeno sapere che pronostici sono stati fatti a corte e buscarci qualche soldo. A quanto è stato dato il mio matrimonio, nelle ultime puntate?"

Mellodîn ridacchiò di rimando.

"Secondo le ultime osservazioni di Alis, le quotazioni sono parecchio in rialzo. Soprattutto dopo che certe dame sono state congedate per ordine della regina".

Galanár sobbalzò e quasi si strozzò per la sorpresa.

"La regina ha fatto cosa?"

Il comandante si strinse nelle spalle e allargò le braccia, come a sottolineare che lui non aveva avuto parte in quella faccenda.

"Credevo che lo sapessi. Subito prima della partenza, quasi tutte le dame di corte che tu avevi nominato sono state congedate e rimandate a casa. Ordine della regina".

Galanár, per un istante, non riuscì nemmeno a infuriarsi, tanto quella notizia gli parve assurda e incredibile. Impossibile, addirittura.

"Fanelia dov'è?", ruggì infine, quando si riebbe dallo stupore.

Mellodîn si limitò a indicare il porto con un gesto del capo.

In effetti, era possibile scorgere Fanelia dal punto in cui si trovavano. Anche se, a una prima occhiata, nessuno si sarebbe soffermato su di lei, a un osservatore attento non sarebbe di certo sfuggita quella ragazza che sedeva a cavalcioni sulla murata della nave ancorata al centro del porto. Indossava i soliti calzoni e la camicia stretta in una brigantina di pelle. Aveva il braccio sollevato verso l'alto e gridava qualcosa a un uomo abbarbicato sul pennone di trinchetto.

Galanár cercò di convincersi che la sua vista lo stesse ingannando. L'attimo dopo si precipitò giù per le scale del palazzo, imboccò l'uscita che dava sulle banchine e si diresse verso la nave ammiraglia.

Appena i suoi passi si fermarono all'ombra del veliero, dimenticò di colpo ogni altro pensiero. L'imponenza delle navi, delle sue navi, lo lasciò a bocca aperta. Aveva osservato la flotta alla fonda dal balcone del palazzo e l'aveva valutata con soddisfazione, ma non si era mai deciso a esaminarle tanto da vicino. Nel momento in cui si rese conto della loro reale possanza, la sua mente cominciò a scandagliarne ogni potenzialità. Dimensioni, equilibri e dettagli presero il posto di qualsiasi altro pensiero e gli fecero perfino dimenticare il motivo per cui era corso fin lì.

"Buongiorno, generale".

Quel saluto lo obbligò a sollevare il capo e ad abbandonare le proprie visioni.

La regina.

No, meglio continuare a pensare a lei solo come Fanelia!

Non riusciva proprio a figurarsela regina in quell'arnese, mentre arrotolava una cima con abilità, seduta in quella posizione precaria. Gli sembrava solo preoccupante e instabile come tutto il resto dello scenario.

"Sono davvero sicure, queste navi?", osò infine.

Lei rise.

"Perché non salite e venite a controllare voi stesso?"

Lui passò lo sguardo su tutta la lunghezza del veliero, poi si concentrò sul quieto ondeggiare dello scafo.

"No", glissò con un sorriso. "Non credo di avere molta voglia di farlo".

Lei sbatté gli occhi da cervo e continuò a fissarlo d'alto, con aria di lieve celia.

"Sapete nuotare, maestà?"

Il re cominciò ad agitarsi per il nervosismo.

Che razza di domanda era, quella? E perché continuava a parlargli a distanza, invece di scendere a terra? Non gli piaceva affatto trovarsi in quella posizione. Era abituato ad avere lui il controllo.

"Abbastanza da non morire affogato in un lago, mia signora".

"Oh, allora è per questo che avete paura", esclamò lei con candore. "Pazienza, si vede che non siete fatto per il mare".

Si girò e riprese ad avvolgere il canapo come se stesse intrecciando una corona di fiori.

Galanár strinse gli occhi, incredulo.

Paura? Io?

Quella ragazza aveva decisamente passato il segno, per quella giornata.

"Bellator!", gridò a gran voce.

Sapeva che anche l'altro suo capitano si trovava sulla nave in quel momento e subito, infatti, gli rispose una voce dall'alto.

"Sì, generale?"

Gli occorse qualche istante per rendersi conto che a parlare era stato proprio l'uomo in piedi sul pennone. Senza alcun indumento militare, la camicia bianca arrotolata sui bicipiti, i lunghi capelli neri raccolti e la carnagione scurita dal sole, sulle prime Galanár aveva stentato a riconoscere il capitano di Medthalion in quell'uomo di mare.

Bellator sembrava del tutto a proprio agio sulla nave, tanto quanto lo era sul campo di battaglia. Si rese conto di aver sempre preso in considerazione i suoi uomini solo in quanto suoi soldati. La loro vita era sempre stata quella che avevano condiviso con lui. Galanár non sapeva quasi nulla di cosa fossero prima di esistere nei ranghi del suo esercito. Una distrazione alla quale, un giorno, avrebbe dovuto porre rimedio.

"Bellator, scendi da lì", gli ordinò con voce fosca. "Vieni a terra, i piani sono cambiati".

Fanelia, a quelle parole, lo guardò senza nascondere la propria soddisfazione. Mollò la cima e afferrò una scaletta di corda, che lasciò ricadere sulla fiancata dello scafo, proprio sopra la testa del re.

Galanár l'afferrò e la trattenne. Studiò quell'appiglio precario, poi lei. Colse il lampo di sfida nei suoi occhi e si diede uno slancio necessario per issarsi sulla scaletta e raggiungere la ragazza.

Lei seguì i suoi movimenti con aria compiaciuta e, appena lui ebbe messo piede sul ponte di coperta, glielo mostrò con un gesto elegante della mano.

"Benvenuto a bordo, ammiraglio".

NOTA DELL'AUTORE

Aut regem aut fatuum nasci oportet.

Occorre nascere re oppure pazzo.

La frase di Seneca, tratta dall'Apocolocyntosis, è la traduzione di un precedente proverbio greco. Il senso esteso del motto è: "Devi essere un re oppure un folle (nel senso di giullare, di matto) per poter fare quello che vuoi / per ricevere una tolleranza che di solito viene negata al resto del mondo".

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top