09. INVITUS AMABO

"Anche tu hai aspettato tutto questo tempo?"

Adwen sollevò lo sguardo dal libro e fissò Fanelia senza capire.

"Aspettare cosa?"

"Che il re venisse a farti visita dopo le nozze".

L'elfa sprofondò nell'imbarazzo.

Fanelia possedeva una naturale grazia nel non dare peso alle proprie azioni e alle proprie parole, che doveva provenire dall'educazione nobiliare che aveva ricevuto a corte. Dal momento che aveva un atteggiamento disinvolto nei confronti di qualsiasi argomento, Adwen concluse che gli uomini e l'amore non potevano di certo rappresentare un'eccezione per lei. Non aveva davvero nulla di cui sorprendersi, doveva solo farci l'abitudine.

La confidenza che avevano raggiunto nelle settimane trascorse insieme dopo le nozze, in effetti, le consentiva di superare la sua abituale riservatezza sull'argomento. L'unico ostacolo che non avrebbe saputo come rimuovere era il soggetto di quel discorso. Galanár non era un cavaliere qualsiasi su cui poter spettegolare con leggerezza.

Adwen si ritrovò a chiedersi, non senza un velo di preoccupazione, quanto Fanelia ne sapesse di lui, del suo passato e delle relazioni che, in un modo o nell'altro, avevano legato tutti loro.

"Esiste forse qualche tradizione di cui non sono a conoscenza?", riprese la ragazza serafica, per nulla impensierita dalla sua esitazione.

L'altra sbatté le ciglia, perplessa. Che cosa avrebbe dovuto rispondere?

Poteva dirle che era a conoscenza di alcuni aspetti della vita privata del re che andavano ben al di là di quanto non fosse noto ai più? E che tale conoscenza derivava da fatti ed occasioni che non era prudente riportare alla luce?

"Non credo esistano regole o tradizioni per le faccende del cuore", si limitò a rispondere vaga.

Fanelia, di contro, si lasciò andare a una risata argentina.

"Il cuore? Il re non prova nessun amore né trasporto nei miei confronti, è evidente".

Sebbene quella frase fosse stata pronunciata in modo del tutto spontaneo e senza nemmeno un velo di rammarico, Adwen non poté fare a meno di sentirsi triste.

"Mi spiace. Immagino che questo ti faccia soffrire".

Fanelia si stiracchiò e si lasciò andare contro i cuscini che decoravano quell'angolo riparato del giardino di Laurëgil in cui si erano rifugiate a chiacchierare.

"Perché dovrei? Sono già abbastanza grata alla sorte per avermi dato un marito non troppo vecchio e piuttosto piacente. Eccessivamente temerario forse, ma abbastanza ricco e potente da non dovermi preoccupare per le richieste che gli faccio".

Non sembrava né delusa né addolorata. Adwen la studiò con curiosità. A volte dimenticava che lei e Aidan rappresentavano un'eccezione in un mondo che si reggeva più sulla politica che sui sentimenti. Loro, almeno, si erano scelti.

Tornò a fissare l'erba tenera e le corolle dorate dei fiori che ondeggiavano nella brezza primaverile, indecisa su come commentare quell'uscita di Fanelia. L'idea che si era fatta di lei era che fosse una ragazza assennata e determinata, eppure alle volte aveva l'impressione che avesse preso con troppa leggerezza il contratto con Galanár.

Qualcosa, nell'aria tiepida del pomeriggio, le suggeriva che sarebbe stato sbagliato nasconderle oltre le sue perplessità. Voleva essere sincera con lei. E non perché lo doveva ad Aidan per la promessa che gli aveva fatto, ma perché si stava davvero affezionando alla nuova regina.

"Devi stare molto attenta, con il re", disse infine.

Fanelia le rivolse un'occhiata penetrante. Quell'affermazione aveva catturato il suo interesse ed era evidente che fosse in attesa di una spiegazione migliore.

"Sei sua moglie, adesso, è vero, ma guardati dalle donne di questa corte. Galanár è un uomo accorto, ma di carattere mutevole. Talvolta asseconda con troppa sconsideratezza il proprio desiderio, e coloro che ne sono al centro in quel momento".

L'altra ragazza annuì. Abituata com'era alla vita di palazzo, non le occorrevano troppe parole per comprendere il senso di quell'avvertimento. Quello era un genere di pericolo che conosceva bene. Erano ben altre, le relazioni del re che non riusciva a mettere a fuoco e che pensava di dover comprendere meglio.

"Lui e Aidan hanno uno strano rapporto", osservò a quel punto.

Lo sguardo di Adwen vagò tra i colori delle aiuole che le circondavano.

"C'è stato un tempo in cui Aidan ha molto amato suo fratello, ma alcuni avvenimenti lo hanno... ferito".

"E sono risolvibili, questi avvenimenti?"

"Non lo so".

Fanelia sembrò soppesare quell'informazione con cura.

"E noi?", chiese allora. "Cosa faremo noi? Saremo destinate a farci la guerra, se i nostri mariti decidessero di farla tra loro?"

Adwen sorrise e scosse il capo.

"No, non occorre. Noi siamo donne. E le donne seguono una politica a parte, che non corrisponde a quella ufficiale".

Prese una pausa e il sorriso si affievolì.

"È l'unico potere che abbiamo", aggiunse. "Quello di intrecciare legami tra noi per influenzare gli eventi oltre noi".

Anche l'espressione sul volto di Fanelia mutò.

"Non tutti gli eventi possono essere influenzati a nostro piacimento però", considerò amara. "Per quanto ci si impegni, la sorte talvolta gioca a nostro sfavore. Così io dovrò dare a Galanár un erede, anche se non ho alcuna inclinazione per essere madre, mentre tu non potrai dare dei figli ad Aidan, pure se lo desideri con tutto il cuore".

Adwen, a quelle parole, le prese una mano e gliela strinse con sincero trasporto.

"Parli così perché hai sposato un uomo che non conosci. Non pensi che, in fondo, questa potrebbe essere una vera fortuna? Hai ancora tutto il tempo per poterlo scoprire, apprezzare e forse amare".

Fanelia scosse il capo e sorrise.

"Parlo così perché sono un donna pratica e realista. È questa la differenza tra noi, che ci obbliga a valutare il mondo in maniera diversa".

L'elfa si sforzò di sorridere a quella sottolineatura.

"La differenza tra chi è poco pratico e chi non lo è?"

"No. La differenza tra chi ha l'amore e chi è senza".

Di fronte a quella replica, Adwen rimase un istante senza fiato.

Quando pensava a Galanár, in effetti, i suoi sentimenti verso di lui non le apparivano ancora del tutto chiari. Sapeva di aver nutrito un forte rancore nei suoi confronti. Un sentimento che non avrebbe mai confessato, tanto era distante dal suo abituale modo di sentire. Tuttavia, aveva sempre creduto nel perdono e nel riscatto. Per ogni creatura, senza eccezione.

"Sono certa che Galanár, prima o poi, ti amerà", rispose sicura. "Perché meriti che lo faccia. E forse un po' lo merita anche lui".

Era il tramonto quando raggiunsero il casino di caccia che il conte di Turfalas aveva messo loro a disposizione.

Aidan scese da cavallo, impartì gli ordini a soldati e valletti, quindi si diresse verso la carrozza e aiutò la madre a scendere.

Lei si prese un istante per respirare l'aria della sera che profumava di alberi e resina, quindi allacciò il braccio attorno a quello del figlio e si lasciò guidare verso l'ingresso della severa costruzione di pietra.

"Non mi hai mai raccontato cosa è successo davvero quel giorno, ad Hakala", mormorò d'un tratto.

Aidan ebbe uno scarto. Intuì che quella domanda l'aveva accompagnata per tutto il viaggio. Suo madre stava solo aspettando il momento più propizio per stringerlo nella sua rete.

"E non ho intenzione di farlo nemmeno adesso", rispose senza battere ciglio.

Lei si fermò e lo obbligò a girarsi per fronteggiare i suoi occhi, sorpresi e accigliati.

"Perché non vuoi parlarne con me? Io so di voi due ciò che altri non sanno".

Aidan sorrise amaro.

"Appunto per questo preferisco evitarlo".

Perché useresti ciò che sai per cercare di controllarmi, come fai con Galanár.

Lei parve cogliere quel pensiero nascosto nel fondo dei suoi occhi chiari. Tese una mano a sfiorargli il viso, come aveva fatto sempre in passato, ma quella volta l'espressione di Aidan rimase impassibile. Nessun sorriso gli arricciò le labbra in quel modo irresistibile che lei aveva sempre trovato adorabile. Laurëloth fu colta da un'improvvisa fitta di malinconia.

"Mi ami ancora, Aidan?"

Il ragazzo la guardò con tristezza. Qualunque opinione potesse avere su di lei, di una cosa era sempre stato certo fin da quando era stato in grado di elaborare un giudizio: era impossibile mentire a sua madre.

"Un tempo vi ho amato", rispose senza emozione nella voce.

Lei si sforzò di sorridergli, ma la sua espressione rivelava un sincero dolore.

"Un tempo?", ripeté desolata. "Per questo hai deciso di non ascoltarmi? Ti avevo detto di guardarti dal ghiaccio e tu, invece, hai scelto di costruirci dentro la tua dimora".

"Se non puoi evitare il nemico, allora devi affrontarlo a viso aperto. È l'unica possibilità per tentare di annientarlo".

Senza attendere una risposta che non voleva ascoltare, si chinò a baciarle le mani.

"Non avete più bisogno di me, adesso".

Laurëloth lo fissò sorpresa.

"Non mi accompagni fino ad Arthalion?"

"Siete al sicuro, qui a Turfalas. Non vi occorre la mia protezione, in queste terre".

Lei lo guardò risalire a cavallo e allontanarsi. Davanti a lui si stendevano solo le montagne dell'Ambit e il blu scuro della notte.

Solo nel vino e nella compagnia degli amici riusciva ormai ad annegare i pensieri più cupi. E tra le braccia delle sue amanti, ma di quest'ultime aveva deciso di fare a meno per il momento, perché lo turbava il pensiero di dover considerare se stesso infedele tanto presto.

Con ancora una coppa tra le mani, Galanár uscì sulla balconata che guardava lo spiazzo centrale. Arrivava la notte, la città si accendeva di luci sulfuree e fuochi azzurri. Le mura della rocca di Laurëgil sfidavano il buio con il loro chiarore d'avorio.

La stella della sera cominciava a tremolare nella notte tersa. Più brillante di qualsiasi astro nel cielo, la sua luce biancastra catturò il suo sguardo. Bruciava come il suo desiderio, ma non c'era stella che lui avrebbe potuto toccare quella notte. Forse lei stava per chiudere gli occhi dal lato opposto di quel cielo.

Non ci sei. Se anche ti chiamo, non puoi sentirmi.

Scosse il capo e rientrò nella sala densa di fumo delle candele. Si fermò sulla soglia per abbracciare quello spettacolo di allegrezza, poi i suoi occhi si mossero a cercare una figura precisa. Attraversò l'intera sala e si fermò di fronte a Alis, che si sorprese nel vederlo apparire.

"Alis, dov'è la regina?"

"Era stanca, maestà. È andata a riposare nelle sue stanze".

Galanár considerò la risposta per qualche istante, mentre Alis lo studiava attenta.

"Forse potreste passare a vedere come sta", suggerì.

Il re si irrigidì a quella proposta.

"Vorrei", rispose con ben poca convinzione, "ma non posso lasciare i miei ospiti".

Lei lasciò vagare lo sguardo attorno a loro e sorrise.

"Mi sembra che i vostri ospiti se la cavino benissimo".

Aveva ragione. Molti dei nobili che si erano trattenuti a Laurëgil dopo le nozze mostravano ormai di essere a proprio agio in quella corte, e perfino i suoi compagni più fidati sembravano godersi la festa senza notare la sua assenza.

Bellator corteggiava in maniera sfacciata una giovane bellezza dai capelli rossi. Quel particolare colore, assieme agli occhi verdi e alla pelle di latte, gli suggerì che la ragazza apparteneva al seguito della contessa di Amfalas, mentre il suo sorriso gli diceva che non avrebbe resistito a lungo alla audace corte del capitano di Medthalion.

Aegis sedeva in fondo alla sala e chiacchierava con Mellodîn ed Adwen. Lei era raggiante, quella sera. Il bagliore nei suoi occhi sembrava appartenere davvero a quelle terre elfiche e, allo stesso tempo, gli ricordava una altrettanto intensa luce dorata. 

Scosse il capo e tornò a fissare Alis. Lei, che aveva seguito il suo sguardo muoversi lungo la stanza, gli lanciò un'occhiata eloquente e un invito silenzioso che lui declinò. Aveva compreso il suggerimento, ma non aveva intenzione di seguirlo: finché fosse riuscito a restare distante da Fanelia, nessuno dei due si sarebbe fatto male.

"A quanto pare siamo i soli che non si stanno ancora godendo la festa, mia cara Alis".

Sollevò la mano destra e la incoraggiò a poggiarvi la sua.

"Andiamo a ballare", disse, come se stesse impartendo un ordine a un soldato.

Fanelia passeggiava per la stanza.

Non aveva alcuna voglia di dormire, ma era stanca di presenziare all'ennesimo banchetto. Ricordava Arthalion come un corte abbastanza vivace, ma Aermegil era molto più morigerata. Quando la guerra era iniziata e Amalion era partito, poi, non c'erano più state molte occasioni di svago. Quello stile di vita, ad ogni modo, non l'attirava. Non quanto sembrava attirare suo marito, almeno.

Si fermò di fronte alla grande specchiera intarsiata d'avorio, quindi fissò la delicata corona di filigrana che aveva indossato il giorno delle sue nozze. L'aveva sistemata su un ripiano, a bella vista, come se dovesse essere pronta per essere indossata, quando in realtà non l'aveva più fatto. In cuor suo, non vedeva l'ora di ritornare a Formenos, anche solo per avere la possibilità di vestirsi come più le andava senza attirare commenti e maldicenze. Preferiva di gran lunga sfoggiare i suoi gradi militari, piuttosto che le insegne di regina.

Lasciò scivolare le ampie maniche dell'abito che le ancelle avevano slacciato, quindi l'intero ingombro delle stoffe cadde ai suoi piedi. Le allontanò con un calcio e infilò la camicia di lino che le era stata preparata sul letto per la notte. Per gioco, prese la corona e se la sistemò sui capelli. Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e rimase a fissarsi a lungo nello specchio.

Fece una faccia buffa di fronte a quello spettacolo e non riuscì a trattenere una risata, così gaia e divertita da impedirle di udire il rumore dell'uscio che si schiudeva.

NOTA DELL'AUTORE

Il titolo fa parte di uno dei versi più conosciuti di Ovidio, tratto dagli Amores (libro III):

Odero, si potero; si non, invitus amabo.

Ti odierò, se potrò; altrimenti ti amerò mio malgrado.

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