02. OMNIA PRIUS EXPERIRI

A trentuno anni appena compiuti, Galanár non aveva più nessuna corona da reclamare.

Alla morte del padre, aveva almeno avuto il buonsenso di seguire la tradizione, che imponeva tre mesi di lutto nel regno, e di attendere fino all'inverno prima di occupare il trono di Arthalion. 

Forse quella perdita lo aveva colpito nel profondo, o forse no.

Chi può dire di conoscere davvero i pensieri di mio fratello?

Ad ogni modo, giuste o sbagliate che fossero le sue azioni e intenzioni, durante i suoi primi due anni di regno il sovrano delle Terre Riunite si era dedicato a sovrintendere la fusione tra Uomini ed Elfi. Non aveva, tuttavia, rinunciato a tenere sotto controllo i suoi Arconti e, per avere una maggiore libertà di movimento, aveva affidato alla madre la reggenza di Arthalion. Lei, la regina che non aveva mai ereditato il proprio regno, era la persona più degna per ricoprire quel ruolo, agli occhi del suo primogenito. L'unica di cui si sarebbe fidato.

Dopo la fastosa cerimonia di incoronazione, Galanár aveva soggiornato a lungo nella reggia di Laurëgil, che era diventata la capitale ufficiale del suo vasto regno. Ne aveva studiato la storia e l'economia, le risorse monetarie e militari. Alla fine, però, se n'era stancato.

Come si stanca spesso di molte cose.

Aveva affidato l'amministrazione di Laurëlindon alla discrezione di Aegis, che aveva molta più pazienza del re nel dirimere le trascurabili questioni di un regno ricco che non aveva mai conosciuto la guerra da vicino. Pur continuando a fare spesso la spola tra la rocca degli Elfi e Foroddir, Galanár aveva infine stabilito la propria corte a Formenos.

Quella roccaforte del Nord sembrava ossessionare il re Mezzelfo, a dispetto della sua posizione periferica e del carico di sofferenza che si portava dietro. Galanár aveva fatto allestire per sé gli appartamenti che erano stati del precedente sovrano. Non aveva più messo piede nelle sue antiche stanze. Per superare i tristi inverni di quella regione, aveva trasformato le austere mura della fortezza in un ritrovo di musici, cantori, artisti e poeti. I banchetti che animavano le notti di Formenos stavano diventando leggendari quanto lo erano state le sue gesta in battaglia.

Quanto a lui, Galanár... lui è sempre lo stesso.

Due anni non lo avevano segnato nemmeno di un giorno. La sua fulgida grazia elfica era immutata, così come la sua prestanza umana.

Quando se lo ritrovò di fronte, Aidan non poté fare a meno di pensare a Edhel.

La sorte è stata gentile con il mio gemello almeno in quest'unico aspetto.

Edhel non sarebbe stato costretto a vederlo invecchiare mentre restava giovane. Non sarebbe stato costretto a vederlo morire. Non avrebbe dovuto attraversare i secoli da solo.

Quel pensiero, in qualche strano modo, lo consolava.

Il fratello maggiore lo abbracciò con affetto. Aidan non poté fare a meno di notare quanto fosse di buon umore e in vena di chiacchiere, e lo trovò bizzarro. Di solito Galanár era così affabile e loquace solo nelle occasioni in cui voleva ottenere qualcosa da qualcuno. Cercò di scacciare da sé quel pensiero cattivo, si ripeté le raccomandazioni che gli aveva fatto Mellodîn e si sforzò di improntare la discussione su toni più lievi.

"Che succede?", scherzò. "Perché tanto urgenza? Ti sposi?"

Il viso di Galanár si illuminò mentre esplodeva in una sonora risata.

"Sposarmi, io? Non ho tempo per queste cose".

Aidan si strinse nelle spalle e le sue labbra si piegarono in una smorfia.

"Prima o poi dovrai trovarlo anche tu. Nostra madre non fa che scrivermi: è in ansia perché il regno non ha ancora un erede. E non è l'unica ad avere simili apprensioni".

Il fratello gli lanciò un'occhiata divertita, come se l'argomento fosse per lui un comune oggetto di burla.

"Be', se è solo quello, il loro problema, immagino di avere già due o tre figli da qualche parte. Basterà che ne scelgano uno che vada loro bene".

Si fermò a fissare il fratello e sorrise.

"Altrimenti ci penserete tu e Adwen a mettere al mondo un bel principe mezzelfo che potrò nominare mio erede, no?"

Aidan chinò il viso.

"Già", rispose a mezza voce.

Galanár non si curò oltre di quell'argomento. Era evidente che aveva fretta di esporre ad Aidan i suoi nuovi progetti, e che tali progetti erano di tutt'altra natura.

Lo invitò a sedersi a un tavolo assieme a lui e a Mellodîn. Sulla superficie di legno era distesa una mappa sulla quale il generale aveva tracciato, come d'abitudine, innumerevoli segni a lui solo comprensibili.

La tensione iniziale di Aidan parve sciogliersi. Forse perché l'intera scena - lui, Galanár e Mellodîn, la grande tavola, le pergamene e i segni dello stiletto - aveva qualcosa di familiare, e tutto ciò che gli era familiare sembrava rassicurante, a prescindere dalla sua intrinseca pericolosità.

In più, il fratello non aveva perso una briciola del suo personale carisma, in quegli anni. Mentre ascoltava i suoi discorsi, Aidan si ritrovò soggiogato dalle sue idee senza una vera spiegazione. Almeno, la parte più oscura di lui lo era. Non riusciva a restare sorda di fronte al fascino di quel nuovo progetto, per quanto assurdo potesse essere.

"Se i resoconti che mi sono stati fatti sono veri", concluse infine Galanár, "ci troveremmo di fronte un territorio ricco di minerali e metalli preziosi, e un popolo operoso, sebbene arretrato rispetto alle nostre conoscenze. Potremmo costruire vie di passaggio per le Terre Remote, stabilire nuove tratte commerciali e offrire loro il nostro sapere".

Nel silenzio che seguì quell'ultima affermazione, gli sguardi di Aidan e di Mellodîn si incrociarono al di sopra della grande mappa. Il giovane re aveva compreso con chiarezza, a quel punto, perché era tanto necessario trattenere e tenere per sé qualsiasi tipo di entusiasmo. Le intenzioni di suo fratello, innocue e perfino generose in apparenza, potevano generare enormi pericoli e produrre conseguenze inimmaginabili.

"Il nostro sapere?", lo punse allora con cupa ironia. "E vuoi offrirglielo presentandoti alle porte delle loro città con un esercito?"

Galanár gli assestò una stoccata con lo sguardo: aveva dato per scontato che Aidan lo avrebbe sostenuto, non che avrebbe messo in dubbio il suo operato. Doveva essere quella corona che aveva in testa ad averlo cambiato, ad averlo reso scostante e presuntuoso. Avrebbero avuto tempo di discutere anche quella faccenda, prima o poi.

"Non sappiamo cosa ci aspetta al di là delle montagne", lo rimbeccò. "Potremmo incontrare città civili come pure popoli selvaggi e bellicosi. Vuoi che vada dall'altro lato del mondo, in una terra sconosciuta, portando piccioni e colombe come offerta di pace?"

Aidan sollevò il sopracciglio e fece un lieve cenno con la mano, a suggerire che facesse pure come preferiva, non era quella la questione che più gli premeva in quel momento.

"E come pensi di arrivare fin laggiù?"

Il re esitò un istante prima di rispondere. I suoi occhi si fissarono sul fratello.

"Esiste un solo passaggio libero. Da Valkano".

Aidan sollevò il capo di scatto. Ecco qual era il vero motivo di quella convocazione. Ecco cosa voleva. Comprendere e reagire fu per lui un unico, istintivo movimento.

"Impossibile".

"Fratello..."

Aidan scattò in piedi in modo tanto repentino da fargli morire le parole sulle labbra.

"Ho imposto una legge su Valkano", ribatté con decisione. "Non entrano uomini in armi. Non muterò le mie disposizioni per te".

Galanár si levò dalla sedia per fronteggiarlo.

"Non essere così caparbio, Aidanhîn! Si tratta solo di pacifico passaggio. Vorresti davvero negarmelo?"

"Sì. Valkano è un santuario, e tu lo sai. Così come conosci bene il prezzo pagato per quella terra".

Galanár reagì come faceva ogni volta che l'atteggiamento del suo interlocutore si distaccava dalle sue aspettative. Si appoggiò al bordo del tavolo e si limitò a fissare il fratello con aria di sufficienza, come se fosse solo in attesa che l'altro sbollisse la rabbia.

Aidan, però, non sembrava intenzionato a recedere dalle proprie posizioni.

"Hai parlato con Aegis di questa tua idea?", chiese infine. "Qual è il suo parere?"

Il re si lasciò sfuggire un lieve lampo di fastidio di fronte a quella richiesta.

"Aegis è pieno di saggezza, ma altrettanto pieno di scrupoli. Troppi, per i miei gusti".

"Ciononostante lo hai nominato Reggente, ed è comunque a capo dei Maestri di Valkano. Dovresti consultarti con lui prima di prendere una simile decisione".

Galanár si allontanò dal tavolo e gli volse le spalle, risentito.

"Aegis non è il mio tutore".

"Mi chiedo se tu ne abbia mai avuto davvero uno", mormorò Aidan.

Il re si voltò di scatto, tornò sui suoi passi e squadrò il fratello con malcelato disappunto.

"Il fatto che adesso tu sia re", puntualizzò, "non ti autorizza a mancarmi di rispetto. Te l'ho messa io, quella corona sulla testa. Non dimenticartelo!"

E te la potresti anche riprendere!

L'attimo dopo aver formulato quel pensiero, però, Aidan si zittì. Il cuore gli aveva ricordato in tutta fretta qual era il compito che aveva scelto per se stesso e perché doveva ancora portare quella corona sul capo. Rinunciò a trasformare le proprie considerazione in parole. Abbozzò e si limitò a un cenno di assenso.

"Non posso darti una risposta così, su due piedi", disse. "Mi occorre un po' di tempo per pensarci".

Galanár ricompose la sua espressione in un lieve sorriso.

"Naturale. D'altronde, non hai intenzione di ripartire subito, spero. Dopo il tramonto intendo festeggiare il tuo arrivo con un banchetto memorabile".

Aidan non ebbe il tempo di ribattere. Un paggio fece il suo ingresso nella sala e Galanár rivolse contro di lui la propria irritazione.

"Chiedo perdono, maestà, ma è cosa urgente. È appena giunta una... delegazione da Aermegil".

Il re sollevò un sopracciglio, perplesso.

"Aermegil?"

Il ragazzino parve imbarazzato da quella domanda.

"Sua altezza la principessa Fanelia è qui e chiede di voi, mio re".

"La principessa... Fanelia?"

Non ricordava chi fosse, né rammentava di averla incontrata prima di allora, quindi era impossibile stabilire perché si trovasse a Formenos a chiedere udienza. Si girò a cercare Mellodîn con lo sguardo. Il comandante si era alzato e aveva raggiunto la finestra che si affacciava sulla corte.

"La principessa Fanelia?", ripeté il re al suo indirizzo. "Non credo che fosse inclusa tra gli invitati alla festa di stasera".

L'altro non si mosse di un millimetro dalla propria posizione.

"E io non credo che sia venuta qui per partecipare alla tua festa", sentenziò oscuro, senza distogliere la propria attenzione dallo strano spettacolo che lo aveva catturato.

Galanár, a quel punto, non poté fare a meno di raggiungerlo per vedere con i propri occhi cosa stava accadendo alle porte del suo palazzo.

Gli ci volle solo un istante per fare suo lo stupore dell'amico: nella corte non c'era nessuna principessa, ma un nutrito drappello di cavalieri. Alle loro spalle, lancieri e fanti erano incolonnati ben oltre le porte d'ingresso della reggia. Il fronte dello schieramento era formato da cinque araldi che recavano i vessilli blu ornati dal tridente argenteo di Aermegil. Alla testa dell'intero gruppo di armati, c'era un cavaliere in sella a un cavallo baio, che vestiva la corazza da parata con le insegne del principato.

Quando un palafreniere gli si fece da presso per aiutarlo a smontare, il cavaliere gli consegnò la spada che cingeva al suo fianco e si sfilò l'elmo con un gesto sicuro ed elegante.

Aveva lunghi capelli castani e occhi da cervo.

NOTA DELL'AUTORE

Il titolo di questo capitolo è tratto da una frase di Terenzio (L'eunuco, 4, 7, 19):

Omnia prius experiri quam armis sapientem decet

Sta ai saggi provare tutto prima di prendere le armi.

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